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Politiche per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali e ruolo delle regioni [*]

di Girolamo Sciullo



Il documento approvato l'8 maggio 2003 dalla conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome, recante l'emblematico titolo "Più tutela, più valorizzazione del patrimonio culturale", rappresenta un atto di non comune importanza per il suo valore politico-istituzionale. Ciò non solo o non tanto perché, come ha rilevato il presidente della conferenza, l'on. Enzo Ghigo, con tale documento le regioni "accettano, anzi sostengono che il potere legislativo sulla tutela sia funzione dello Stato" [1], abbandonando (o meglio, come si vedrà, declinando diversamente) una storica rivendicazione delle regioni, quanto perché il documento si presenta con uno spessore, è il caso di dirlo, culturale, non consueto in documenti ufficiali.

La distinzione fra funzione di tutela e funzione di valorizzazione dei beni culturali, messa in circolo dalle conclusioni della Commissione Franceschini, ha avuto il grande merito di richiamare l'attenzione sul fatto che il bene culturale, come richiede la norma dell'art. 9 Cost., impone alla Repubblica - ossia a tutte le istituzioni pubbliche - una politica volta alla conservazione del bene ma anche alla sua messa a disposizione della collettività a fini di crescita personale e sociale.

Tuttavia questa distinzione, praticata sul piano amministrativo dal d.lg. n. 112/1998 e su quello legislativo dal nuovo titolo V, presenta il grosso rischio della frammentazione degli interventi, della conflittualità dei diversi soggetti pubblici competenti e non ultimo della paralisi, ove fosse intesa in termini di separazione netta di ambiti e di rivendicazione di attribuzioni e di ruoli.

In realtà tutela e valorizzazione, come del resto la gestione, sono funzioni o compiti riferentesi ad un medesimo oggetto e come tali richiedono, pur nella distinzione logica e giuridica che le può connotare, momenti di cooperazione progettuale e operativa.

Di qui la prima e forse più importante indicazione prospettica del documento: l'affermazione di una forte disponibilità delle regioni a collaborare con lo Stato, e fra loro, al fine di tracciare linee guida, standard, norme tecniche, procedure attuative, pensati unitariamente tanto per la tutela che per la valorizzazione.

Fermo restando in capo allo Stato un ruolo di "alta garanzia" da esercitarsi attraverso l'emanazione in particolare di un nuovo testo unico dei beni culturali, inteso negli auspici come carta di principi generali in relazione tanto alla tutela che alla valorizzazione, le regioni rivendicano la traduzione, assieme allo Stato, di tali principi in linee guida, standard e criteri per la conservazione e l'utilizzazione dei beni culturali. Dunque un meccanismo ad un tempo flessibile e condiviso, rispondente in pieno sia alla logica del federalismo cooperativo (o solidale) sia alle esigenze di un patrimonio culturale, ricco di varietà espressive, ma innervato da comuni radici di riferimento e quindi, nel senso più autentico del termine, unitario.

La conferma dell'esperienza del resto non manca: è com'è noto costituita dall'atto d'indirizzo sulla gestione tecnico-scientifica dei musei (d.m. 10 maggio 2001), atto statale solo nella veste formale, ma nella sostanza "nazionale" perché promosso, partecipato e condiviso dalle autonomie regionali insieme allo Stato e a quelle locali.

In breve la prima linea politica che emerge dal documento è quella di incoraggiare, sulla scorta delle indicazioni del nuovo art. 118 Cost., elaborazioni comuni, da parte dello Stato e delle autonomie territoriali, di regole e linee operative che fungano da quadro condiviso, quale che siano gli attori che le realizzeranno, per le azioni nel campo culturale delle amministrazioni pubbliche. Regole e linee operative nelle quali si ricompongano l'attività di tutela e quella di valorizzazione per conseguire le finalità generali cui deve tendere l'azione pubblica nel campo culturale: ossia la salvaguardia e la conservazione dei beni, la loro conoscenza e fruibilità da parte dei cittadini.

In questo quadro, è appena il caso di accennarlo, la tutela perderebbe le caratteristiche finora presentate di funzione che si traduce in atti di carattere puntuale ed episodico, volti ad imporre o proibire modalità di uso dei beni. Diventerebbe, secondo una felice espressione di Pietro Petraroia "un abaco dei valori da tutelare, un disciplinare che enunci essenzialmente il quadro delle compatibilità d'uso del bene sul piano tecnico", ovvero la "sua capacità di portata rispetto alle capacità d'uso". Così come incomberebbe alle regioni l'adeguamento della normativa degli strumenti urbanistici, da intendersi ormai quale strumento di ausilio per la valorizzazione, ma anche di rafforzamento delle garanzie di tutela dei beni.

L'altra linea di politica dei beni culturali che il documento enuncia a corollario della prima, ma di carattere per nulla secondario, è la costituzione di un corpo di operatori validamente formati in modo omogeneo, indipendentemente dall'ambito istituzionale di appartenenza.

E' questo il fondamentale tema delle risorse umane, troppo spesso trascurato dalle politiche concernenti i beni culturali, ma di importanza decisiva in un contesto di pluralismo istituzionale. Solo l'affermarsi di un corpo di operatori "nazionale", in ragione di formazione, sensibilità ed esperienze, in breve connotato da una koinè arricchita dalle diversità delle culture locali, ma in grado di cogliere le complessità dell'insieme, è in grado di garantire un'omogeneità di approccio tecnico-metodologico al patrimonio culturale presente su tutto il territorio della Repubblica. La promozione e la valorizzazione di "comunità professionali di apprendimento", del resto, in una situazione di localismo diffuso quale quello che caratterizza la situazione italiana, rappresentano uno dei percorsi obbligati per le regioni che vogliano fino in fondo praticare il principio di sussidiarietà.

Con ciò si è giunti a menzionare l'altra indicazione di politica dei beni culturali ricordata nel documento. Cosa implichi la sussidiarietà nel campo dei beni culturali è questione ampiamente nota. In questa sede sarà sufficiente ricordare che essa disegna un ruolo per le regioni non di gestori - se non eccezionalmente - di beni culturali, ma anzitutto di soggetti di governo, in grado di aiutare il sistema delle autonomie locali e i privati nella gestione dei beni di cui siano titolari. Ausilio, certamente anche in termini finanziari, specie per lo start-up, ma sempre più orientato a favorire processi di qualificazione e di accreditamento dei servizi culturali, incubatori di nuove forme e modalità di gestione degli stessi, nonché percorsi di formazione e di aggiornamento del personale presente nelle istituzioni culturali locali. In breve un ruolo il cui focus sia non tanto il "fare in luogo dell'ente locale", quanto sempre di più il "far fare all'ente locale", cioè il realizzare quelle condizioni perché l'ente dispieghi al meglio, e secondo i valori storico-sociali di cui è portatore, le potenzialità di cui è dotato.

Viene naturale interrogarsi sull'eco riscosso dal documento delle regioni, ovvero domandarsi in quale misura le accennate linee di politica in tema di beni culturali trovano riscontro nel Codice in corso di elaborazione. La risposta non pare pienamente positiva.

Il codice sta plasmandosi come una razionalizzazione del testo unico, di cui conserva però nella sostanza l'impianto: una funzione di tutela "pervasiva", fondamentalmente di monopolio statale quanto alla legislazione e all'amministrazione, una funzione di valorizzazione depotenziata nei suoi possibili significati di garanzia (quanto allo studio, la documentazione, la conservazione, il restauro e la fruizione pubblica del bene). Soprattutto non vengono declinate in una dimensione autenticamente nazionale (è la mancanza di quel "centro" di recente lamentata da Marco Cammelli [2]) quelle esperienze di programmazione negoziata, di manutenzione programmata, di correlazione con le università, di accordi quadro di sviluppo territoriale per fare alcuni esempi, che pur hanno caratterizzato la recente esperienza di alcune regioni.

Un motivo anche questo per spingere le regioni a ricercare e praticare anche fra loro scambi di esperienze e intese operative, in una logica di federalismo non calato dall'alto ma autenticamente vissuto dal basso.

 



Note

[*] Intervento svolto in occasione dell'incontro "Il futuro delle politiche e degli strumenti per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali tra autonomia e federalismo: Sicilia e Lombardia a confronto (Milano, 30 settembre 2003).

[1] Il Giornale dell'arte, giugno 2003, p. 1.

[2] Il Sole-24 Ore, 28 settembre 2003, p. 40.

 



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