../home../indice../risorse%20web

 

Musei pubblici e musei privati:
un genere, due specie [*]

di Giuseppe Severini



1. Le discipline che si occupano del museo e del suo allestimento, la museologia e la museografia, sono in crescente espansione, quanto nell'esperienza pratica lo sono i musei. L'indagine giuridica però non corrisponde a questa fenomenologia e poco ha indagato su questo tema.

Per il giurista, infatti, quella di museo è nozione che continua a non essere recepita, sin nei fondamentali: non è pacifico nemmeno se sia cosa, o insieme di cose, od organizzazione, o altro. Si arriva, per suggestione di quelle discipline, ad avanzare la tesi che sia soggetto, o quasi soggetto di imputazioni giuridiche. Il mondo del diritto, in questi anni, si è dedicato - molto la legislazione, specie regionale; meno la giurisprudenza, poco comunque la dottrina - a stabilire a chi dovessero spettare le competenze sui musei, o quali frammenti del museo o dei servizi museali si potessero trasferire ai soggetti della sussidiarietà, o cosa dell'autonomia museale fosse da dare e cosa da prendere: insomma, ha trattato di ciò che è intorno al museo, ma non del museo. I legislatori regionali hanno legiferato come se il concetto fosse pacifico e spesso presupponendo una sorta di soggettività del museo che in realtà è ben lungi dall'essere acquisita.

Tutto questo è avvenuto essenzialmente perché la regolamentazione del museo, e di ciò che si svolge al suo interno, è stata oggetto di rivendicazioni e di spostamenti di competenze tra Stato e regioni. Ma, quanto al significato intrinseco e alle sue derivazioni, l'attenzione è stata minima, almeno fino all'art. 99 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, che ha introdotto una definizione del museo (statale) come "struttura comunque denominata organizzata per la conservazione, la valorizzazione e la fruizione pubblica di raccolte di beni culturali".

 

2. Nelle incertezze che ne discendono, si può comunque partire da una constatazione schematica: in questo panorama, la quantitativamente poca elaborazione dottrinaria che c'è segue la museologia nel passare da una concezione reale a una concezione soggettiva del museo.

Si era infatti partiti, in passato, dall'identificare il museo con la sua raccolta, una semplice universitas facti [1]. Tesi che si contrapponeva a quella che guardava, grazie all'eventuale vincolo, verso l'universitas iuris [2].

Altri autori [3], avuto riguardo all'imprescindibile dimensione organizzativa, avevano invece parlato di istituto, o di istituzione, precisando da un lato che questa è costituita di "un complesso di cose mobili, coordinate fra loro da uno scopo comune ed, in relazione a questo, ordinate e classificate"; da un altro indicandone le funzioni, cioè "raccogliere, conservare e far conoscere" tali complessi di cose.

Recentemente in dottrina [4] è emersa una tendenza che, pur senza percorrere le scorciatoie cui si è accennato, ha comunque voluto sottolineare, seguendo la museologia, il profilo soggettivo o organizzativo del museo, contrapponendo un concetto avanzante di museo/organizzazione rispetto ad uno, ormai recessivo, di museo/universalità di cose.

E' un fatto dunque che oggi anche in diritto l'attenzione si sta spostando da una concezione oggettiva o reale (le cose raccolte nel museo, o la stessa raccolta) ad una concezione soggettiva o istituzionale (l'istituzione museale).

 

3. L'attenzione degli studiosi si trasferisce così sulla dimensione organizzativa, innegabilmente in crescita, d'attenzione come di risorse, umane e finanziarie: è perciò corretto parlare di tendenza alla soggettivizzazione del museo. Nondimeno resta - e non può non restare - nella realtà giuridica la coesistenza di un elemento soggettivo e di un elemento oggettivo; del resto così, seppure in misura diversa, concettualmente è sempre stato con il differenziarsi stesso, sul finire del sec. XVIII, dell'idea di museo da quella di collezione o galleria: si pensi ai conservatori, nati con l'idea stessa di museo.

Va puntualizzato, tuttavia, che questa tendenza, per quanto descrittiva di trend significativi dal punto di vista dei musei pubblici, può essere foriera di confusioni che è bene allontanare.

In particolare:

a) Anzitutto, è bene tenere presente che questa tendenza è strumento ideale dell'affermazione della c.d. autonomia museale: un concetto organizzativo, come si vedrà, riferito ai musei pubblici, con il quale s'intende veicolare il principio per cui è opportuno che il museo - soprattutto se è di particolare importanza - sia gestito con un'amministrazione e una contabilità autonoma rispetto all'ente di appartenenza. E' in realtà a questi riguardi che è corretto parlare di tendenza alla soggettivizzazione dei musei.

Per i musei privati, però, questo concetto è giuridicamente fuori luogo perché è inutile, dato che non si tratta di garantire né una pubblica funzione né un servizio pubblico, e comunque dato che la libertà di cui godono i soggetti che ne sono titolari già rappresenta ben più che l'autonomia. Le articolazioni organizzative interne delle strutture private sono esplicazione della libertà organizzativa privata e non v'è alcuna sufficiente ragione di interesse pubblico perché questa debba essere limitata con l'imposizione di una siffatta eteronomia.

Tra i musei pubblici, per i musei statali è espressione di questo obiettivo l'"autonomo esercizio delle attività" museali, che è uno degli elementi che debbono caratterizzare, a norma dell'art. 150, comma 4, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 il trasferimento a regioni ed ad enti locali della gestione di musei statali, da compiere in virtù dell'art. 17, comma 131 della legge 15 maggio 1997, n. 127. Prima ancora ne è espressione la possibile attribuzione di speciale autonomia organizzativa ai musei prevista dall'art. 8, comma 2, decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, istitutivo del nuovo ministero per i Beni e le Attività culturali: norma primaria in base alla quale, con il conseguente regolamento di organizzazione ministeriale di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 2000, n. 441, art. 12, comma 1, è stato previsto che "sono organi periferici del ministero", tra gli altri, "h) i musei ... dotati di autonomia"; così sono state istituite, con dd. mm. 11 dicembre 2001, alcune soprintendenze speciali per i poli museali di Roma, Firenze, Venezia e Genova, e sono state previste gestioni autonome di altri musei.

Analogamente procede la legge 12 luglio 1999, n. 237 nell'istituire alcuni nuovi musei: il Centro per la documentazione e la valorizzazione delle arti contemporanee, sede del Museo delle arti contemporanee, con il Museo dell'architettura e, nell'ambito della Discoteca di Stato, il Museo dell'audiovisivo, nonché il Museo della fotografia; figure che, dice l'art. 1 della legge, "hanno autonomia scientifica, organizzativa, amministrativa e finanziaria". Il loro ordinamento interno è stabilito con un regolamento ai sensi dell'articolo 17, comma 4-bis, della legge 23 agosto 1988, n. 400.

Coerentemente alla prospettiva dell'art. 150, quello della autonomia museale (sub specie di autonomia gestionale, finanziaria e contabile) è uno dei temi identificati dall'Atto di indirizzo ministeriale (d.m. 10 maggio 2001) con cui, a norma del comma 6 di quello stesso articolo, vengono approvati per i musei statali così trasferiti i "criteri tecnico-scientifici e gli standard minimi da osservare nell'esercizio delle attività trasferite, in modo da garantire un adeguato livello di fruizione collettiva dei beni, la loro sicurezza e la prevenzione dei rischi" predisposti dall'apposita Commissione paritetica ministero-enti territoriali: atto sostanzialmente partecipato sull'asse Stato-regioni-autonomie (codecisione di regole ordinamentali applicativa del principio di leale cooperazione). Si tratta di condizione sine qua non del trasferimento della gestione per compensare il rischio tecnico che in esso è implicito. Malgrado il tenore letterale di certi passaggi interni a questo atto, va considerato che, in ragione della fonte che lo legittima e dell'apporto esclusivamente pubblico alla sua elaborazione, tali criteri non possono essere riferiti che ai soli musei statali trasferiti, e tutt'al più, comunque, ai soli musei dei soggetti pubblici i cui rappresentanti hanno partecipato alla sua elaborazione.

b) In secondo luogo, che è ciò che più conta per quanto stiamo esaminando, questa tendenza può portare alla confusione tra museo e istituzione di appartenenza del museo. Non si deve invece dimenticare che v'è un distinto rapporto giuridico, che è quello del museo con il suo ente di riferimento. Si tratta di un rapporto che non è di identificazione, ma di appartenenza: la confusione fa slittare invece verso l'identificazione. Confusione in cui ad es. cade - tra le non poche sue debolezze in diritto, pari alle pretese di innovazione legislativa - il ricordato Atto di indirizzo ministeriale nella parte (indebitamente: non è un criterio tecnico-scientifico né uno standard minimo, a parte che non c'è la minima partecipazione privata alla elaborazione delle regole "codecise") dedicata allo status giuridico, che con pesanti interferenze sul codice civile pretende di regolare, dimentico del principio di legalità, anche per i musei privati.

 

4. Per mettere ordine in questo panorama piuttosto confuso, occorre andare senz'altro e prima di tutto al cuore del problema, il quid est del museo.

Come si è rilevato, l'art. 99, comma 2, lett. a) del d.lg. 490/1999, afferma che, ai fini del comma 1 dello stesso articolo - cioè ai fini della regolamentazione ministeriale della apertura al pubblico dei musei, dei monumenti, delle aree e dei parchi archeologici statali, degli archivi di Stato e delle biblioteche pubbliche statali - si intende per "museo" una "struttura comunque denominata organizzata per la conservazione, la valorizzazione e la fruizione pubblica di raccolte di beni culturali".

La definizione è data per i musei statali, ma, dato che non contiene riferimenti alla loro specificità, è valevole per ogni specie di museo, pubblico o privato che sia, purché contenga raccolte di beni culturali.

E' stato osservato che questa definizione realizza un abbandono definitivo della concezione reale del museo [5]. A meglio vedere, però, l'utilità della definizione legislativa - che dà voce al diritto vivente - sembra porsi proprio sul versante opposto: essa consiste infatti nel far giustizia della confusione indotta dal qualificare il museo senz'altro come istituzione.

La definizione dell'art. 99 chiarisce infatti che il museo non è un soggetto, è solo una struttura: come tale non può che appartenere ad un soggetto. Giuridicamente, il museo è oggetto, non soggetto, di diritti: questo lo distingue dal soggetto (fondazione, persona fisica, società) che ne è titolare. Non è distinzione da poco, perché refluisce sulla natura e sul regime.

Essendo un oggetto, il museo è organizzato dal soggetto cui appartiene, secondo i modi di questo: il che significa che, in principio, non ha uno status uniforme e tanto meno unitario.

Nemmeno, dal punto di vista amministrativo, si può affermare che il museo è soggetto ad un regime unitario per ciò che attiene la tutela dei beni culturali. Spesso infatti sfugge all'attenzione che il museo non è un bene culturale, perché non è di suo una testimonianza materiale avente valore di civiltà (secondo la nota definizione della Commissione Franceschini). Ciò che sono, se dichiarate tali, beni culturali sono le cose conservate ed esposte nel museo: e può esserlo, per il valore aggiunto dell'insieme, la raccolta delle cose. Ma il museo è solo un modo di organizzazione della raccolta, della conservazione e della fruizione di beni culturali. Dunque è il teatro di attività materiali che possono essere al tempo stesso azioni di tutela e mezzi di valorizzazione di beni culturali, non è esso stesso un bene culturale. A questa conclusione si giunge indifferentemente sia che si muova dalla ricordata concezione di bene culturale della Commissione Franceschini, sia che si muova dalla concezione reale e normativa recepita dal Testo unico dei beni culturali e ambientali.

Dunque, grazie all'art. 99 si è sgombrato definitivamente il campo dall'idea che il museo, giuridicamente, sia un istituto o un'istituzione, nel senso di persona giuridica..

L'art. 99 parla di una struttura e di alcune attività.

Gli elementi essenziali della "struttura" sono rintracciabili nella sede, nella raccolta, nei rapporti giuridici esterni, nell'organizzazione, nell'amministrazione. Tutti questi elementi ci dicono che il museo è, al contempo, un bene materiale e immateriale.

Quanto alle attività tipiche essenziali, senza le quali non può parlarsi di vero e proprio museo, la definizione le mette nel corretto ordine, anteponendo il polo della tutela a quello della valorizzazione secondo il principio generale codificato dall'art. 97 del Testo unico. Il museo, infatti, è ordinato anzitutto alla costituzione e conservazione delle raccolte e, quindi, alla loro fruizione pubblica. Le attività di collezione, ambientazione, restauro, catalogazione, inventariazione precedono in questo corretto ordine non solo logico, ma anche di importanza - e dunque di priorità di intervento - l'attività di esposizione. Mentre la conservazione, come il restauro, è attività da raccordare alla funzione generale della tutela, il risultato dell'esposizione, che mette in valore le cose raccolte e potenzia l'efficacia culturale della visita museale, è attività da raccordare alla funzione generale della valorizzazione. Il museo svolge infatti sia attività di tutela che attività di valorizzazione di beni culturali (come dimostra, del resto, il pur regionalista trasferimento alle regioni e agli enti territoriali dei musei statali a norma del ricordato art. 150 d.lg. 112/1998, che al comma 4 si preoccupa comunque di precisare che restano "salve le funzioni e i compiti di tutela riservati allo Stato").

Dalla ricognizione di queste attività tipiche deriva un'importante considerazione: che non sono essenziali al museo i c.d. servizi aggiuntivi museali, o come oggi dice l'art. 112 del Testo unico dei beni culturali e ambientali, quelli di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico: divulgazione, accoglienza e supplementari. Questi offrono utilità didattiche, scientifiche, commerciali e pratiche che sul museo si basano, ma non ne fanno parte intrinseca. La dizione "aggiuntivi" ha il pregio di indicare che si aggiungono, come un supplemento, alle attività essenziali, che sono quelle appena ricordate. Un museo è tale, in altre parole, anche se è privo di questi servizi: ciò che è indefettibile, per essere definito museo, è che svolga quelle attività essenziali. Per i musei pubblici (solo per i musei pubblici) la disciplina fondamentale dei servizi aggiuntivi è stata posta dalla c.d. legge Ronchey (legge 14 gennaio 1993, n. 4), incentrata sul principio di affidabilità in concessione a privati di questi servizi: i musei privati provvedono a loro piacimento, o direttamente o affidandoli a terzi di loro fiducia.

 

5. Le identità tra le due figure, museo pubblico e museo privato, si arrestano dunque alla descrizione della struttura e delle funzioni. E non può non essere così, perché si tratta a ben vedere di un unico genere, che comprende le due specie. Il resto è differenza.

Come si vedrà, questo dato è di grande importanza e serve a dissipare equivoci e confusioni.

Appena infatti si approfondisce la questione, appare chiaro che sotto la generica espressione di "museo" si presentano - malgrado l'eguale denominazione, le analogie di struttura e le simiglianze di fatto - due categorie giuridicamente non omogenee né simmetriche, soggette a regimi affatto diversi: i musei pubblici, che - in prima approssimazione - sono quelli le cui raccolte sono appartenenti ad una pubblica amministrazione, e i musei privati, che sono quelli le cui raccolte sono appartenenti a soggetti privati o ad enti ecclesiastici. Diverso è lo statuto delle due categorie e diverso ne è il regime.

Ma procediamo con ordine. La confusione è indotta dalla crescente incertezza dei confini tra queste due specie.

 

6. L'esperienza degli ultimi anni insegna che la polarizzazione tra le due categorie tende a sfumare. Sta sorgendo, sul versante dei musei pubblici, un'ampia varietà di situazioni intermedie, che richiede ormai un regolamento di confini, una codificazione dei tratti distintivi. Se da un estremo c'è il museo senz'altro pubblico e dall'altro c'è il museo senz'altro privato, la crescente varietà intermedia di figure più o meno miste innesta elementi privati su elementi pubblici. Il museo pubblico non sempre è più, come in passato, a totale connotazione pubblicistica, per appartenenza, per gestione, per servizi. La strumentazione normativa e la prassi mostrano oggi un'ampia gamma di ibridazioni; con un crescendo che va da modelli che sono stati detti di esternalizzazione di servizi collaterali a modelli di collaborazione pubblico-privato, a ipotizzati modelli di affidamento globale in gestione.

A tentare un catalogo delle possibili ibridazioni dei musei pubblici già presenti nella normativa statale vigente, è possibile ad oggi rilevare:

a) la concessione a privati dei servizi museali aggiuntivi, cioè quelli di assistenza e ospitalità per il pubblico (art. 113 Tubca, già art. 4, commi 3 e 4 del decreto-legge 14 novembre 1992, n. 433, conv. dalla legge 14 gennaio 1993, n. 4: c.d. legge Ronchey; art. 3 legge 8 ottobre 1997, n. 352);

b) la concessione in uso a privati di singole cose contenute nei musei pubblici (art. 114 Tubca, già art. 4, comma 5-ter, della stessa legge Ronchey);

c) la concessione per la gestione di funzioni museali, a privati o a soggetti ad hoc dalle forme privatistiche ma a partecipazione, totale o parziale, pubblica. Le norme sono ambigue, caratterizzate come da un'inespressa riserva mentale del trasferimento di funzioni museali essenziali, non solo cioè aggiuntive. L'art. 10 del d.lg. 368/1998 (di istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali, a norma dell'art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59) prevede varie forme di "accordi e forme associative"; tra queste:

i. A norma della lett. b), il ministero "ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni, e in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali" [6] può, oltre che stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati, "costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società" (e come precisato dalla modifica introdotta dall'art. 4 della legge 29 dicembre 2000, n. 400: "secondo modalità e criteri definiti con regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400"). Con d.m. 27 novembre 2001, n. 491 è stato approvato il regolamento sulla costituzione e la partecipazione a fondazioni (fondazioni di partecipazione, dunque, secondo una nota recente formula elaborata dalla pratica notarile) da parte del ministero, che disciplina siffatte fondazioni: queste sono, dice il regolamento, soggetti "aventi personalità giuridica di diritto privato", l'atto costitutivo e lo statuto "si conformano alle disposizioni di legge e del presente regolamento", hanno ben sei organi, sono sottoposte alla vigilanza e a pesanti poteri di ingerenza del ministero per i Beni e le Attività culturali e sono destinate a "perseguire il più efficace esercizio delle proprie funzioni e, in particolare, la gestione e valorizzazione dei beni culturali e della promozione delle attività culturali"; per esse è possibile la partecipazione ministeriale anche mediante "conferimento in uso di beni culturali", e svolgere direttamente i servizi aggiuntivi museali. Si è tentato di abbozzare con queste formule l'idea di un possibile affidamento di attività museali, in quanto queste siano riconducibili alla "valorizzazione dei beni culturali". L'ambiguità della formula, tuttavia, non giungeva ad essere tale da consentirne una reale praticabilità. Il tentativo è rimasto dunque incompiuto. Va considerato che sullo schema di analogo regolamento per le società, di cui parla lo stesso art. 10 d.lg. 368/1998, il recente parere del Consiglio di Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, n. 1794/2002 del 26 agosto 2002 ha affermato che il ministero non ha più questa competenza a regolamentare, trattandosi di valorizzazione e questa ormai, dopo la riforma del Titolo V Cost., competendo alle regioni: sicché oggi si versa, sul tema, in una situazione di incertezza normativa.

ii. A norma della lett. b-bis), introdotta dall'art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, "dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico" [7] ... "secondo modalità, criteri e garanzie definiti con regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400". Si precisa che il regolamento dovrà stabilire "le procedure di affidamento dei servizi" mediante licitazione privata e "i rispettivi compiti dello Stato e dei concessionari riguardo alle questioni relative ai restauri e all'ordinaria manutenzione dei beni oggetto del servizio, ferma restando la riserva statale sulla tutela dei beni", e che dovrà stabilire "i parametri di offerta al pubblico e di gestione dei siti culturali", attendendosi ai princìpi stabiliti all'articolo 2, comma 1, dello Statuto dell'International Council of Museums. Si aggiunge che lo stesso regolamento fissa i meccanismi per la determinazione della durata della concessione, almeno quinquennale, e del canone [8]. Dal tenore definitivo della disposizione, per quanto ridondante con le precedenti, si argomenta che la concessione può invece riguardare soltanto i servizi aggiuntivi.

iii. La legge 6 luglio 2002, n. 137 (Delega per la riforma dell'organizzazione del governo e della Presidenza del Consiglio dei ministri, nonché di enti pubblici), all'art. 10 (Delega per il riassetto e la codificazione in materia di beni culturali e ambientali, ecc.) attribuisce al governo la delega per il riassetto e la codificazione delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali; tra i princìpi e criteri direttivi, prevede l'aggiornamento, tra l'altro, degli strumenti di conservazione e protezione dei beni culturali, "anche attraverso la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati"; e "riorganizzare i servizi offerti anche attraverso la concessione a soggetti diversi dallo Stato mediante la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati, in linea con le disposizioni di cui alla lettera b-bis) del comma 1 dell'articolo 10 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, e successive modificazioni". Anche qui, come si vede, si ripropone lo strumento della fondazione di partecipazione.

Per tornare al nostro tema, la pratica dirà come tali "fondazioni" siano compatibili con lo schema offerto dal Libro I, Titolo II del codice civile, cui rinvia un'apposita clausola (art. 2, comma 3, seconda parte: "Per la definizione di ogni altro rapporto giuridico con le fondazioni, si applicano le disposizioni di legge e del codice civile") del regolamento di cui al d.m. 491/2001 e dell'autentica natura, pubblica (di cui già si dubita in dottrina) o privata, di questi soggetti. Ma che un siffatto soggetto sia qualificato, come testualmente afferma all'art. 1 la normativa regolamentare ricordata, "personalità giuridica di diritto privato", poco muta circa la natura del museo. Il museo, infatti, è la struttura, non il soggetto giuridico cui essa appartiene o che esso gestisce.

Non è dunque di queste particolari fondazioni che qui ci si vuole occupare, ma dei musei cui si riferiscono. La distinzione è importante, perché ben può essere che il museo resti pubblico anche se è gestito da un soggetto privato.

 

7. In sintesi, da queste considerazioni si può trarre una conclusione: che per quanto in prima approssimazione si possa propendere per una distinzione (tra museo pubblico e museo privato) in base alla titolarità della gestione, la varietà delle forme e delle modalità in cui questa si esplica e la progressiva integrazione tra pubblico e privato che essa vede, sia organizzativa che funzionale, rendono difficile ancorare ad un tale profilo i fondamenti di questa divisione concettuale che, per le conseguenze che comporta, può ricordare quella tra enti pubblici e persone giuridiche private.

Certo, nella forma per così dire pura, la gestione potrebbe rappresentare un sufficiente indice di riconoscimento, considerato anche che alla gestione pubblica non può che corrispondere una raccolta, almeno in modo dominante, di appartenenza pubblica: sicché il dire che un museo che contiene una raccolta appartenente ad un ente pubblico e gestita da questo è un museo pubblico è senz'altro esatto, quasi lapalissiano.

Ma l'affacciarsi di queste figure di concessioni (totali o parziali, costitutive o traslative, dirette o a figure miste) che riguardano musei in origine pubblici, o che comunque vengono istituiti per contenere raccolte di appartenenza pubblica, sta comportando un coinvolgimento del privato nel pubblico, nel momento dell'esercizio, che rende il criterio della gestione, proprio laddove più è necessario identificare il corretto regime da applicare in concreto, del tutto insoddisfacente per dare certezze.

Si delinea ormai, insomma, un ampio spettro intermedio tra la forma pura del museo pubblico e la forma pura del museo privato che impone verifiche ed approfondimenti.

 

8. Il criterio che offre maggiori certezze per la distinzione è quello che muove da principi e norme fondamentali dell'ordinamento, contenuti nel codice civile e nelle leggi, in tema di beni.

Esso affonda sulla configurazione dominicale delle raccolte contenute nei musei: corrisponde a quella, riguardante il diritto su di esse, tra i fondamentali demanio e proprietà. Per gli artt. 822 e 824 cod. civ., infatti, "le raccolte dei musei", quando appartengono allo Stato o ad un ente locale, fanno parte del demanio e sono soggette al relativo regime giuridico. Come ha definitivamente chiarito il d.lg. 490/1999 sulle oscillazioni giurisprudenziali [9], trattandosi di beni culturali appartengono al "demanio storico, artistico e archivistico" e "sono assoggettati al regime proprio del demanio pubblico" (art. 54), pertanto "sono destinati al godimento pubblico" (art. 98). Quando invece appartengono ad altri soggetti, in specie ai privati, esse sono in piena proprietà, e dunque in godimento e disponibilità, del loro titolare. Quando appartengono ad enti pubblici non territoriali, sono beni del loro patrimonio indisponibile.

La demanialità consiste nell'attitudine di un bene ad esplicare interessi di natura generale inerenti all'attività dello Stato o dell'ente pubblico che ne è titolare. Nella demanialità è insita l'effettiva necessaria destinazione del bene alla soddisfazione di interessi generali, secondo l'attitudine del bene, e l'accesso o uso generale, uti civis, al bene e l'incommerciabilità. Le ricordate disposizioni del Testo unico non fanno altro che codificare questi principi immanenti alla. natura demaniale.

La caratterizzazione di un museo verso il pubblico o il privato è data dalla prevalenza (in termini quantitativi o qualitativi) tra le cose esposte nel museo, dell'una o dell'altra appartenenza. Questa è la prospettiva con cui la questione va esaminata: si distingue partendo dal basso, vale a dire dalle cose, per risalire al museo; non dall'alto, partendo dal soggetto gestore, per scendere al museo. L'elemento fondamentale, la ragion d'essere di questa struttura che è il museo, per quanto se ne possa esaltare la dimensione organizzativa, è e resta la raccolta. Questa, a sua volta, è appunto soggettivamente caratterizzata dall'appartenenza principale per qualità e quantità.

Tutto ciò fa sì che un museo pubblico possa custodire secondariamente, senza mutare natura, cose private come che, viceversa, un museo privato possa custodire secondariamente cose facenti parte di raccolte demaniali provenienti da musei e pinacoteche pubblici (ad es., per concessione in uso).

Tornando alla rassegna di figure ibride cui sopra si è detto, ne deriva una conseguenza importante: che non sono privati, ma pubblici a gestione privata, i musei di contenenti raccolte di appartenenza pubblica affidate, con quello che è stato chiamato un modello di esternalizzazione, in concessione, per la gestione, a privati veri e propri o a soggetti a regime privato ma emanazione di enti pubblici. Poco importa, da questo punto di vista, che si tratti davvero, o meno, di "persone giuridiche private", come vorrebbe il regolamento ricordato.

Quanto ai musei affidati a enti a costituzione o a partecipazione mista, come ad es. quelli statali affidati in gestione alle fondazioni di partecipazione, o ad associazioni o società ai sensi dell'art. 10 d.lg. 368/1998, essi saranno da considerare pubblici o privati a seconda della prevalenza o meno della appartenenza pubblica della raccolta: anche qui la natura del soggetto in cui questa partecipazione si istituzionalizza, e che gestisce il museo, non è dirimente. E' il caso di sottolineare che, nell'ipotesi in cui l'appartenenza pubblica della raccolta sia non prevalente, non per questo viene meno il regime demaniale che la riguarda.

Insomma, se si volesse parlare di indice di riconoscimento del museo pubblico, esso sarebbe rappresentato dalla configurazione dominicale della parte prevalente, quantitativamente o qualitativamente, delle raccolte.

La considerazione centrale è che così si mette in luce un rapporto tra tre diversi livelli, che non sempre possono coincidere quanto a natura: ente - museo - raccolta. E' la condizione proprietaria dell'ultimo, del più "basso" di questi tre a determinare lo status di quello intermedio, non, per così dire dall'alto, la natura (pubblica o privata) del primo.

 

9. Lo statuto demaniale della raccolta evidenzia un altro elemento essenziale: che il museo pubblico realizza necessariamente un servizio pubblico. Alla demanialità corrisponde un regime e il vincolo di destinazione delle cose, che caratterizza il regime del demanio, esiste in quanto l'appartenenza della raccolta è di un ente territoriale. E' per questo che il museo pubblico è un servizio pubblico (in senso soggettivo, in quanto la sua raccolta è appartenente ad un ente pubblico) e non può non essere tale, perché la forma "museo" è il modo di organizzare conservazione, valorizzazione e fruizione pubblica delle raccolte demaniali di beni culturali, vale a dire il modo per assicurare il loro necessario uso generale.

Da questa condizione proprietaria deriva la più importante delle conseguenze, che caratterizza il museo pubblico rispetto al museo privato: il museo pubblico è un servizio pubblico, e si contrappone al museo privato, che è una libera esplicazione di attività (un servizio privato).

Si è detto: servizio pubblico in senso soggettivo; ma occorre fare alcune precisazioni.

La relazione tra i tre elementi (ente, museo, raccolta) è di appartenenza, a titolo vario: proprietà, concessione, ecc. L'appartenenza della raccolta è da tenere distinta dall'appartenenza, se di ciò si può parlare, del museo.

Per quanto interessa la distinzione tra museo pubblico e museo privato, non è risolutivo che il museo (vale a dire: gli elementi immateriali in esso strutturalmente organizzati) appartenga, direttamente o indirettamente, ad un ente pubblico. Ciò che conta, e che qualifica il museo, è l'appartenenza della parte prevalente (quantitativamente o qualitativamente) dell'altro elemento strutturale, quello materiale, quello che costituisce la sua ragion d'essere, la raccolta. Il museo non è pura espressione di ricerca o di didattica, senza la raccolta non esiste ed è naturale che questa ne resti comunque l'elemento qualificante.

Prima conseguenza di una tale qualificazione è che gli immobili in cui è contenuto il museo dello Stato o dell'ente locale, essendo "destinati a un pubblico servizio", vanno qualificati come beni del patrimonio indisponibile a norma dell'art. 826, ultimo comma, cod. civ. Non solo: la stessa qualificazione riguarda, a norma dell'art. 830, secondo comma, cod. civ., la condizione dei musei appartenenti ad enti pubblici diversi dallo Stato e dagli enti locali, essendo del pari "destinati ad un pubblico servizio".

Altra conseguenza di non poco significato è che il rapporto concessorio, nelle figure ibride che si sono dette, sarà sempre di concessione di servizio pubblico. Con tutto quello che ne deriva.

Circa i c.d. servizi aggiuntivi ai musei pubblici (riproduzione e vendita di beni culturali, di cataloghi, di materiale informativo; caffetteria, ristorazione, guardaroba), si tratta di elemento accessorio eventuale e facoltativo (cfr. art. 112, comma 1, Tubca) la cui natura non si riverbera sul principale, cioè sul museo stesso; e nemmeno ne è mutuata: correttamente dunque l'attività dei concessionari è stata definita dal Consiglio di Stato come di natura privatistica e commerciale [10]: questo, ma solo questo, non è un servizio pubblico.

La circostanza che i servizi aggiuntivi siano svolti in forma privata (cfr. art. 112 Tubca) corrisponde dunque alla loro reale natura. Altro è che sia svolta in forma privata l'attività dei servizi culturali, a mente dell'art. 113-bis del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 introdotto dall'art. 35, comma 15, della l. finanziaria 448/2001, che consente di assegnare mediante affidamento diretto i servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale (comma 1) o i servizi culturali (comma 3).

Egualmente dicasi per gli altri servizi annessi (accoglienza, informazione, guida, gestione di centri di incontro; vigilanza, biglietteria, organizzazione di mostre ed altre iniziative promozionali), di cui all'art. 112, comma 2, lett. g) e 113, comma 2, Tubca: già art. 47-quater decreto-legge 23 febbraio 1995, n. 41, conv. dalla legge 22 marzo 1995, n. 85).

In sintesi, la costituzione e l'esercizio di un museo non è un servizio pubblico se non in termini meramente soggettivi e lo è solo per ciò che attiene alle attività essenziali del museo.

 

10. Per contro - rispetto a quello che si è detto per i musei pubblici - nel caso di un museo privato l'attività e una libera attività organizzata, economica o non economica, rivolta al pubblico, espressiva della libertà della cultura (art. 33 Cost.) o del diritto di impresa (art. 41 Cost.). Benché privata, questa attività realizza una finalità che, in quanto riguardante la tutela, promozione e la valorizzazione di beni culturali quando non anche la promozione della cultura e dell'arte, l'ordinamento definisce di utilità sociale, e segnatamente di solidarietà sociale, perché immanentemente "eterodestinata" a beneficio della collettività diffusa (art. 10 decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, sulle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale); è un'attività che si iscrive dunque a pieno titolo, per l'espresso riconoscimento della sua meritorietà, nel c.d. privato sociale, o terzo settore: collocazione che da giusto conto della corrispondenza tra spontanea destinazione alla fruizione pubblica e costituzione di una nuova utilità generale, con evidenti implicazioni concettuali - che non è qui il caso di trattare - riguardo al sostenimento anche pubblico dei costi e alle agevolazioni pubbliche. Se comunque, dimenticando quest'originaria spontaneità, si pretendesse invece di qualificare tale attività servizio pubblico al parti di quella dei musei pubblici, si raggiungerebbero conseguenze paradossali: i comportamenti degli amministratori dei musei privati sarebbero assoggettati al regime penale degli incaricati di pubblico servizio; le loro controversie sarebbero sottoposte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; i loro contratti sarebbero assoggettati alle disposizioni in tema di evidenza pubblica; ecc.

L'indagine giuridica si è, ad oggi, concentrata sui musei pubblici, che sono quelli di gran lunga più importanti, e tra questi sui musei statali o sui musei degli enti locali. Le leggi, del resto, è di questi che quasi sempre si occupano, perché per i musei privati, espressione della libertà di iniziativa, provvede essenzialmente, quando necessario, l'autonomia privata colmando quello spazio vuoto di norme (poste dall'esterno) che è loro riservato.

Ma di tale naturale spazio vuoto da un lato, e dalla genericità del riferimento dall'altro, non di rado si è equivocato per ricondurre i musei privati alla disciplina di quelli pubblici. Così, le leggi di talune regioni, portando un apodittico obiter dictum della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 28 luglio 1988, n. 921 [11]) oltre l'obiettivo, che era quello meramente organizzativo di definire l'ambito della (allora) competenza legislativa regionale (alle regioni spettava, per il precedente testo dell'art. 117 Cost., di legiferare in via concorrente in materia di "musei e biblioteche degli enti locali"), usano della formula "musei degli enti locali e di interesse locale" per omologare quanto a disciplina sostanziale i musei dei privati a quelli degli enti locali, come se l'attribuzione di una competenza legislativa implicasse l'identità di natura e di disciplina dei suoi oggetti: si veda la l.r. Umbria 3 maggio 1990, n. 35 (Norme in materia di musei degli enti locali e di interesse locale); e la l.r. Marche 24 marzo 1998, n. 6 (Nuove norme in materia di salvaguardia e di valorizzazione del patrimonio culturale delle Marche e di organizzazione in sistema del museo diffuso).

Queste azioni di omologazione o di assimilazione di disciplina, costituzionalmente discutibili, inducono a riserve e a doglianze che ormai si spingono fino a reclamare che la naturale libertà in cui opera il museo privato sia legislativamente riconosciuta e garantita con un'apposita normativa. Indicative, ad es., sono le recenti valutazioni della Giunta esecutiva dell'Icom-Italia sulla nessuna considerazione della "esistenza, minoritaria, ma tutt'altro che insignificante, di musei 'privati' - sul piano della proprietà quanto dello status giuridico - i cui operatori hanno faticato non poco a riconoscersi in un dibattito apparso sovente forzato e aprioristico" [12].

 

11. E' opportuno analizzare le specificità della specie minoritaria e autoregolata, i musei privati, per poi mettere ordine ai rami principali di questo albero di concetti.

I musei privati differiscono profondamente dai musei pubblici, non solo per appartenenza, ma anche per natura giuridica e, conseguentemente, per regime. Le identità e le similitudini tra i due tipi di museo, che constatiamo nella pratica, si svolgono sul piano del fatto, non del diritto: non sono cioè doverose.

Il fondamento della diversità di natura muove dal dato pregiuridico.

A questo fine è utile una breve digressione su un'analogia che troppo spesso viene prospettata, quella tra museo e azienda. Non è infrequente, nel quasi silenzio dei giuristi attorno al concetto di museo, assistere a considerazioni di non giuristi (o di atti particolari, come il ricordato Atto di indirizzo ministeriale) che la evocano, e che vedono nella prospettiva che questa analogia sembra comportare, un elemento risolutivo, quasi connaturale alla declamata autonomia museale. Concetto, questo, che si è detto nascere come riferito ai musei pubblici: il principio che ne deriva, che il museo sia gestito con una gestione e una contabilità autonoma rispetto all'ente di appartenenza, comporterebbe come osservato una soggettivizzazione, anche formale, dei musei pubblici. E, implicitamente, si profila la tesi che una gestione "aziendale" dei musei pubblici ne comporterebbe l'assoggettamento ad un regime depubblicizzato: vale a dire privato.

Il ragionamento è strumentale a questioni organizzative di assetto interno alla pubblica amministrazione (esso è alla base di nuove figure amministrative statali) e, in termini sostanziali e assoluti, non può essere condiviso: l'analogia con l'azienda è del tutto inutile a definire il museo privato; a maggior ragione è inutile a suffragare uno spostamento di regime del museo pubblico verso il privato.

Il definire il museo come struttura distinta da un soggetto, il parlare di appartenenza del museo sono gli elementi che possono effettivamente indurre a comparazioni con l'azienda e la sua appartenenza. Si può convenire che dire che un museo appartiene ad un soggetto significa dire che gli elementi immateriali strutturalmente organizzati in museo (essenzialmente, i rapporti giuridici che ad esso fanno capo) sono imputabili a quel soggetto. Ma questo è quanto, perché per il resto l'analogia giuridica non riesce: non c'è eadem ratio, ad es., per quel che riguarda le vicende dell'azienda (trasferimento, divieto di concorrenza, successione nei contratti, sorte dei crediti e dei debiti, continuazione dei rapporti di lavoro con l'acquirente).

Diversamente, poi, da quanto avviene in tema di azienda (dove i fattori produttivi materiali non sono, di solito, beni demaniali), in tema di musei la qualificazione di servizio pubblico soggettivo discende non dal tipo di attività esercitata (servizio pubblico in senso oggettivo), né dalla natura dell'ente cui questa è imputabile (servizio pubblico in senso soggettivo quanto ad ente), ma dal vincolo di destinazione delle cose (servizio pubblico in senso soggettivo quanto ad appartenenza della raccolta), di cui è composta la struttura.

Ma l'analogia con l'azienda non regge prima e sopra di tutto per quanto riguarda ciò che di essenziale c'è in un'azienda, la struttura e la funzione economica, il risultato economico. A parte l'eventuale ritorno di immagine per l'eventuale impresa, istituire ed esercitare un museo privato è sempre, finanziariamente, un'operazione in perdita: i costi superano sempre, e di molto, i ricavi, e tanto basta a sciogliere il tema dell'analogia, senza mettere mano all'aspetto dell'indisponibilità dei beni che si vorrebbero "aziendali".

Semmai è da dire, e con riguardo ai musei privati, che questa passività economica consapevole fa della datio che presiede alla loro esposizione alla fruizione pubblica un'operazione socialmente virtuosa (non solo culturalmente, ma anche economicamente, per via delle esternalità che crea). Curare e valorizzare una raccolta rappresenta la non dovuta creazione di una ricchezza intellettuale, di una nuova utilità che viene spontaneamente offerta al pubblico dei fruitori, che ne beneficia in arricchimento di conoscenza. E' insomma una forma di liberalità (donazione) offerta al pubblico dei fruitori, un moderno mecenatismo a destinazione (non individuale, ma) sociale. Questo trasferimento di nuova utilità dal privato alla collettività giustifica gli eventuali interventi pubblici di aiuto e sostegno.

 

12. Abbandonata la via di improprie assimilazioni, si deve tornare al vero tema giuridico, che è quello non della forma giuridica del soggetto, o del modo di organizzazione dei mezzi, ma della oggettiva natura del servizio offerto, e lì esaminare le differenze.

Dalla connotazione proprietaria discende, come s'è detto, che un museo pubblico costituisce una forma di servizio pubblico, un museo privato rappresenta una forma di servizio privato. Mentre il servizio pubblico corrisponde ad un'attività amministrativa di una pubblica amministrazione, e dunque è necessaria, doverosa e vincolata, imposta com'è dalla generalità del prelievo tributario, il servizio privato - che è invece una manifestazione individuale dell'iniziativa privata e del rischio che le è immanente - corrisponde, per quanto come si è detto di utilità sociale, ad un'attività spontanea e facoltativa di un soggetto privato, che in principio è libera per esistenza, modalità di esercizio, destinatari, ricavi. Un museo privato dunque, come può aprire se e quando vuole, altrettanto può chiudere, darsi a piacimento organizzazione e orari, assumere personale, selezionare i suoi visitatori, al contrario di un museo pubblico. Il museo privato risponde solo a se stesso, o meglio al soggetto privato cui appartiene, in base al principio di libertà, che implica l'autodeterminazione e l'autoresponsabilità. Per questo, malgrado le apparenze di fatto e l'eguale denominazione di "museo", le due categorie non sono omologabili.

Nemmeno un museo privato deve necessariamente essere conformato ai "criteri tecnico-scientifici e standard minimi" approvati con l'atto di indirizzo di cui al decreto del ministro per i Beni e le Attività culturali 10 maggio 2001. Infatti questi criteri, come si è ricordato, sono previsti dalla legge nel quadro del trasferimento a regioni ed ad enti locali della gestione di musei statali, in funzione di garanzia del livello tecnico da rispettare da parte di regioni ed enti locali per adeguatamente gestire quei musei: pertanto, checché si dica nel documento che li accompagna (che li vorrebbe estesi ai musei privati), non sono obbligatori per i musei privati. Se il museo privato si adegua ad essi, lo fa volontariamente e senza esservi tenuto. Questo a tacere del fatto che alcuni di questi criteri, calibrati come sono sui musei delle pubbliche amministrazioni, sono per loro natura inadattabili alla figura del museo privato, come quello che prevede uno statuto o regolamento del museo.

Per i musei privati vale dunque più che mai il principio generalissimo che tutto ciò che non è vietato o limitato è libero. La sola limitazione che li può riguardare è quella derivante dall'eventuale vincolo storico-artistico sulle sole loro collezioni, a norma dell'art. dell'art. 5 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, oggi art. 1, comma 1, lett. c) e 21, comma 3, d.lg. 490/1999, per il quale dette collezioni non possono essere smembrate senza l'autorizzazione ministeriale. Per il resto, tutto è libero sia quanto a proprietà sia quanto ad attività.

A differenza allora di quanto avviene per i musei pubblici, per questi musei privati, che espongono beni di proprietà privata (quand'anche singolarmente, o come raccolta, vincolati) e la cui benemerita vicenda di offerta al pubblico godimento è del tutto spontanea, l'autoresponsabilità rappresenta la migliore garanzia del livello di qualità. Il fruitore troverà in questo la sua soddisfazione. Il che testimonia come lo sviluppo della cultura sia anzitutto un fatto sociale. Ove si dubitasse di questo, si dubiterebbe della sua stessa libertà.

 



Note

[*] Il presente scritto è un'elaborazione della relazione dal titolo Fondazioni e musei privati, tenuta al convegno organizzato dalla Fondazione Festival dei due Mondi a Spoleto l'11 e 12 ottobre 2002, su Le fondazioni nella cultura e nell'economia.

[1] R. Juso, Pinacoteca e museo, in Nov.ss.mo dig. it., XIII; Torino 1966, 105.

[2] M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d'interesse storico o artistico, Padova 1953, 137.

[3] G. Santaniello, Gallerie, pinacoteche e musei, in Enc. dir., XVIII, Milano 1969, 433; T. Alibrandi, voce Musei, in Enc. giur. Treccani, XX, 1.

[4] M. Ainis, Lo statuto giuridico dei musei, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, 393; G. Sciullo, Le innovazioni legislative, in Museo contro museo. Le strategie, gli strumenti, i risultati, Prato 2001, 15.

[5] L. Nivarra, Commento all'art. 99, in AA.VV., La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di M. Cammelli, Bologna 2000, 327.

[6] Ma oggi, a seguito della modifica introdotta dall'art. 80, comma 52, lett. a) della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ai fini della "gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale individuati ai sensi dell'articolo 2, comma 1, lettere b) e c), del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2000, n. 283".

[7] Ma oggi, a seguito della modifica introdotta dall'art. 80, comma 52, lett. b) della legge 27 dicembre 2002, n. 289, i "servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale".

[8] Osserva S. Foà (Il regolamento sulle fondazioni costituite e partecipate dal ministero per i Beni e le Attività culturali, in Aedon, 1/2002) che la formula del disegno di legge lasciava prevedere il trasferimento dell'intera attività di valorizzazione ai privati, e non solo della gestione di servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione.

[9] Cfr. Cons. Stato, VI, 7 maggio 1988, n. 568 nel senso della perdurante vigenza della alienabilità ex art. 24 l. 1089/1939; Cons. Stato, Ad. gen., n. 59/89 del 13 luglio 1989, in Foro it., 1990, III, 335 nel senso della inalienabilità come conseguenza del regime demaniale. Cass., 6 aprile 1966, n. 898 aveva affermato l'innovatività del regime demaniale dettato dal Codice civile e dunque la sua prevalenza su quello della legge Bottai. La disciplina del d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, emanato in attuazione dell'art. 32 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, regolamentando con una rigorosa disciplina l'alienabilità dei soli immobili statali, ha implicitamente ribadito l'inalienabilità delle cose mobili di queste raccolte,

[10] Cons. Stato, V, 8 novembre 1995, n. 1532, in Foro it., 1996, III, 405.

[11] In Foro it., 1991, I, 731.

[12] In Considerazioni sulla situazione dei musei italiani, in Nuova museologia, n. 6/2002, 3.

 



copyright 2003 by Società editrice il Mulino


inizio pagina