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Discriminazioni fiscali nell'accesso al patrimonio culturale locale
e libera prestazione dei servizi in ambito comunitario

di Pasquale Pistone


Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il divieto comunitario di discriminazione. - 3. Sulla natura (tributaria) del biglietto d'ingresso e del corrispettivo del godimento del bene pubblico. - 4. La responsabilità dello Stato per l'adempimento degli obblighi connessi al diritto comunitario. - 5. Conclusioni.



1. Introduzione

La sentenza in commento scaturisce dal procedimento comunitario di infrazione nei confronti dell'Italia in ordine all'applicazione di tariffe agevolate a carattere discriminatorio per l'accesso ai musei locali.

In particolare, la questione riguarda i regolamenti tariffari del palazzo dei Dogi a Venezia e del museo comunale di Treviso, che prevedono l'accesso gratuito per i cittadini italiani di età inferiore a diciotto o superiore a sessanta anni, nonché quelli dei musei municipali di Firenze e Padova, che invece dispongono l'accesso gratuito ai residenti nel territorio comunale in presenza degli stessi requisiti di età testé descritti.

La gestione del patrimonio culturale comporta notevoli oneri finanziari a carico della collettività, che solo in parte vengono riversati sui visitatori mediante il pagamento di un biglietto di ingresso.

In quest'ottica l'accesso gratuito per i cittadini od i residenti - applicabile secondo modalità sostanzialmente analoghe ai musei nazionali per effetto del decreto 11 dicembre 1997, n. 507 fino alla modifica apportata dal decreto 28 settembre 1999, n. 375 - rappresenta uno strumento di politica sociale con cui l'ente locale - o lo Stato italiano - mira a privilegiare gli appartenenti alla collettività che ne sostiene i costi di gestione.

Tuttavia, dalla prospettiva dell'ordinamento comunitario l'agevolazione tariffaria per i soli cittadini o residenti determina un ostacolo alla libertà di ricevere servizi a carattere turistico-culturale sia in modo diretto (nel caso dei musei di Venezia e Treviso), sia dissimulato (nel caso dei musei di Firenze e Padova).

Pertanto, il procedimento comunitario di infrazione si è concluso con una condanna del nostro Paese per violazione degli obblighi che gli incombono in forza del Trattato CE.

La pronuncia in esame ribadisce l'orientamento giurisprudenziale già in precedenza affermato dalla Corte di Giustizia [1], ma presenta profili di interesse anche relativamente alla natura tributaria del biglietto d'ingresso ai musei ed alla responsabilità statale iure communitatis per il patrimonio culturale degli enti locali. Su tali questioni si soffermerà questo lavoro dopo aver illustrato il procedimento seguito dalla Corte di Giustizia per sancire l'esistenza di una discriminazione incompatibile con il Trattato CE.

 

2. Il divieto comunitario di discriminazione

La Corte di Giustizia Europea assicura il rispetto delle quattro libertà fondamentali garantite dal trattato CE (merci, persone, servizi e capitali) sia nel quadro dei procedimenti di rinvio pregiudiziale, sia nell'ambito dei procedimenti di infrazione.

Nel primo caso essa espleta la proprie funzioni di interprete unico della normativa comunitaria in presenza di dubbi sull'interpretazione di norme comunitarie primarie o secondarie aventi rilevanza nel corso di procedimenti davanti al giudice nazionale.

Nel secondo caso (quello di specie) verifica la sussistenza della responsabilità di uno Stato membro in ordine alla violazione della normativa comunitaria nel contesto di una apposita procedura iniziata dalla Commissione Europea.

Il riscontro della compatibilità della normativa nazionale con quella comunitaria da parte della Corte di Giustizia segue una procedura standard che nel primo caso si articola in quattro fasi, mentre nel secondo caso omette le prime due.

Nelle prime due fasi la Corte verifica che la fattispecie rientri nel campo di applicazione del trattato CE, avendo il soggetto un diritto all'applicazione della normativa comunitaria (nella quasi totalità dei casi in quanto cittadino di uno Stato membro) ed avendo effettivamente esercitato le libertà fondamentali comunitarie.

Nelle restanti due fasi si svolge invece la parte centrale del giudizio comunitario. I giudici comunitari accertano l'eventuale sussistenza di trattamenti giuridici discriminatori in funzione della cittadinanza, ovvero di fattori equipollenti (come la residenza), ed in caso positivo passano a verificare se siano rinvenibili situazioni in grado di giustificarne la compatibilità con il trattato CE.

Sembra opportuno esaminare tali fasi con maggiore attenzione, tenendo conto dell'applicazione fatta dalla Corte nella fattispecie de qua.

Secondo l'orientamento consolidato della Corte di Giustizia una discriminazione sussiste ogniqualvolta fattispecie eguali siano trattate diversamente o, viceversa, fattispecie diverse siano assoggettate al medesimo regime giuridico.

La Corte normalmente analizza il problema in funzione dell'impatto che il trattamento differenziato determina su una delle quattro libertà fondamentali, ovvero in subordine, alla luce del divieto generale di discriminazione contenuto nell'art. 12 del Trattato CE [2]. L'esigenza di garantire il trattamento nazionale a tutti coloro che ne abbiano diritto in base al Trattato CE implica che non tutte le forme di discriminazione rilevino ai fini dell'ordinamento comunitario, ma soltanto quelle che sono ricollegate al possesso della cittadinanza di uno Stato membro diverso (cd. discriminazione diretta), ovvero a fattori equipollenti, come ad esempio la residenza, che finiscono per produrre in pratica lo stesso risultato (cd. discriminazione dissimulata).

Ogni altro fenomeno discriminatorio potrà eventualmente rilevare ai fini costituzionali come violazione del principio di eguaglianza, recepito all'art. 3 della Costituzione Italiana, ma non per l'ordinamento comunitario. Rientrano in tale ambito i casi in cui lo Stato discrimina i propri cittadini (cd. discriminazione a rovescio o interna), così come quelli in cui la discriminazione tra non nazionali (cd. discriminazione orizzontale) [3], e quelli in cui colpisce situazioni non per effetto del possesso della cittadinanza o di fattori ad essa equipollenti.

La fattispecie in esame presenta contemporaneamente situazioni di discriminazione diretta e dissimulata.

La discriminazione diretta riguarda i musei di Venezia e Treviso, il cui regolamento tariffario consente l'accesso gratuito ai soli cittadini italiani che non abbiano compiuto il diciottesimo anno o che abbiano superato il sessantesimo anno di età.

La discriminazione indiretta riguarda i musei di Firenze e Padova, che riservano invece l'accesso gratuito ai soli residenti nel rispettivo territorio comunale in presenza dei predetti requisiti di età.

In entrambi i casi si impedisce ai cittadini di altri Stati membri di ricevere il servizio a carattere turistico-culturale godendo del trattamento nazionale e per tale ragione la Commissione si è attivata per far dichiarare l'incompatibilità con l'art. 49 del Trattato CE.

Nel secondo caso però tale trattamento è precluso anche agli stessi cittadini italiani che non risiedono nel territorio dei comuni in cui sono situati i due musei. Tali soggetti non potrebbero invocare la tutela comunitaria in relazione alla propria situazione (meramente interna), ma finiscono per godere di una protezione giuridica indiretta, in quanto la Commissione ha chiesto ed ottenuto che l'incompatibilità con la libera circolazione dei servizi fosse dichiarata tout court, senza cioè limitarne gli effetti ai soli cittadini di altri Stati membri. A questo riguardo il rilievo della pronuncia trascende il settore culturale, presentando una valenza innovativa di carattere generale.

Veniamo però alla quarta fase, quella relativa alle giustificazioni, in cui si palesa la rilevanza di una distinzione tra discriminazione diretta e dissimulata.

Nei confronti della discriminazione diretta trovano applicazione le sole giustificazioni contemplate dal Trattato CE. Per le discriminazioni dissimulate la giurisprudenza comunitaria, in applicazione della rule of reason, ammette invece una serie di giustificazioni ulteriori, fondate su ragioni imperative di interesse generale.

Nel caso di specie, secondo l'Italia, le discriminazioni tariffarie andrebbero giustificate in base alla necessità di gestire i beni culturali in modo economico e di preservare la coerenza fiscale.

La Corte però respinge entrambe le giustificazioni.

Esse non rientrano fra quelle esplicitamente menzionate dal Trattato CE e non possono essere invocate in relazione alle fattispecie di discriminazione diretta [4].

Parimenti, un esame del merito esclude che tali giustificazioni possano essere invocate rispetto alle discriminazioni dissimulate.

Gli obiettivi di natura economica sono stati considerati dalla Corte sostanzialmente analoghi all'esigenza di evitare la perdita di gettito fiscale, la cui rilevanza in chiave di giustificazione è da sempre esclusa dai giudici comunitari [5].

La coerenza fiscale, invece, rappresenta la principale, se non l'unica giustificazione finora ammessa dalla Corte in materia tributaria [6]. Tale giustificazione sussiste quando una misura fiscale mira a garantire il mantenimento del nesso diretto tra una qualsiasi forma di imposizione e l'applicazione di un trattamento sottrattivo [7], quale appunto la deduzione di un contributo, l'esenzione o l'applicazione di tariffe preferenziali. Tuttavia, ad avviso della Corte, tale situazione non è rinvenibile nel caso di specie, poiché il diritto all'agevolazione non rappresenta una conseguenza immediata dell'assolvimento degli obblighi tributari in Italia. Infatti, anche coloro che sono soggetti all'imposizione in Italia, ma risiedono in altri comuni sono tenuti al pagamento del biglietto di ingresso per accedere ai predetti musei [8].

Le vicende giuridiche di questa seconda giustificazione, imperniata sul fattore fiscale, meritano però un approfondimento, volto a delineare una corretta configurazione giuridico-tributaria del biglietto di ingresso ai musei. Tale esigenza scaturisce dalle perplessità in ordine alle argomentazioni avanzate sia dall'Italia che dalla Corte. Infatti, l'Italia ha sostenuto la necessità di preservare la coerenza del sistema fiscale, in quanto l'agevolazione tariffaria costituirebbe "il corrispettivo del pagamento delle imposte mediante le quali ... i residenti partecipano alla gestione dei siti considerati". Dal canto suo, la Corte ha invece negato la rilevanza della giustificazione, poiché l'applicazione dell'agevolazione ai soli residenti nei comuni di Firenze e Padova esclude le persone residenti in altri comuni italiani, pur soggette ad imposizione nel nostro Paese.

 

3. Sulla natura (tributaria) del biglietto d'ingresso e del corrispettivo del godimento del bene pubblico

Come si è testé affermato, è necessario verificare il problema della configurazione giuridica del biglietto di ingresso ai musei.

Gli studi compiuti dalla dottrina tributaria italiana durante tutto il secolo scorso [9] consentono di affermare, sia pure con qualche specificazione, che il biglietto di ingresso ai musei debba essere considerato come una prestazione di natura tributaria, rientrante nel genus della tassa, ed in particolare di quella species nota anche come tassa a prestazione facoltativa.

Infatti, l'accesso ai musei è consentito a quanti richiedano il servizio, ossia il godimento del bene pubblico, dietro il pagamento di un biglietto, il cui importo è determinato sulla base di una regolamentazione autoritativa pubblica. Si tratta dunque di una prestazione imposta - e perciò soggetta al principio costituzionale di legalità e, secondo i più, anche a quello di capacità contributiva - che presuppone un fatto per il cui verificarsi rileva la richiesta di godimento di un bene pubblico.

Pertanto, la natura di tassa esclude automaticamente che il biglietto di ingresso ai musei possa rappresentare il corrispettivo della prestazione ricevuta dall'ente pubblico. Il corrispettivo denoterebbe infatti l'esistenza di un sinallagma contrattuale, che caratterizza le entrate pubbliche non tributarie ed è invece del tutto assente nella tassa.

Nella tassa può al più rinvenirsi l'esistenza di una commutatività, tra accesso al museo e pagamento del biglietto, che però rileva unicamente ai fini della realizzazione del presupposto di fatto.

Il biglietto d'ingresso non può dunque essere inteso in senso tecnico come il corrispettivo pagato dal visitatore a fronte del godimento del bene pubblico.

Occorre a questo punto verificare se alle stesse conclusioni si debba giungere in ordine all'accesso gratuito ai musei, che pure viene definito dall'avvocatura dello Stato nella causa in esame come il corrispettivo del pagamento delle imposte mediante le quali residenti [e cittadini] partecipano alla gestione dei siti considerati.

Tale questione dipende da due fattori principali.

In primo luogo, è necessario riscontrare l'effettiva corrispondenza tra pagamento delle imposte ed accesso gratuito al museo. Tale corrispondenza non sussiste in nessuna delle fattispecie oggetto della causa in esame, poiché esistono contribuenti che pagano le imposte e non hanno diritto all'accesso gratuito.

Nelle conclusioni dell'avvocato generale Stix-Hackl si legge che "secondo il governo italiano ... i cittadini italiani forniscono il loro apporto al sostegno delle spese pubbliche in qualità di contribuenti" [10]. Tale affermazione potrebbe far pensare a quanti non abbiano familiarità con il diritto tributario che siano soltanto i cittadini italiani a pagare le imposte in Italia. Invece, la cittadinanza assume un rilievo del tutto marginale nel diritto tributario e l'art. 53, comma 1, della Costituzione conferisce carattere universale al concorso alle spese pubbliche, riferendolo a tutte le manifestazioni di capacità contributiva ricollegabili, sulla base di criteri personali o reali, nell'ambito territoriale sottoposto alla potestà tributaria del nostro Paese. Dunque, in presenza di tali condizioni, residenti e non residenti, cittadini italiani, esteri od apolidi devono tutti pagare i tributi per quei fatti che il nostro Paese ritiene siano manifestazioni di capacità contributiva, sempreché l'Italia non abbia rinunciato ad esercitare la propria potestà impositiva, come accade per effetto delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione.

Pertanto, nel caso dei musei che consentono l'accesso gratuito ai cittadini italiani, i cittadini di altri Stati membri che manifestassero capacità contributiva nel nostro Paese, concorrerebbero al sostegno delle spese pubbliche senza avere diritto all'agevolazione tariffaria. Ancor più grave sarebbe il caso in cui i cittadini di altri Paesi comunitari fossero residenti in Italia, poiché in questa ipotesi sopporterebbero esattamente lo stesso carico d'imposta dei cittadini italiani residenti nel nostro Paese, senza aver però alcun diritto all'agevolazione tariffaria. Di converso, i cittadini italiani residenti all'estero, pur non essendo assoggettati alla pretesa tributaria italiana, godrebbero dell'accesso gratuito.

La corrispondenza manca anche nel caso dei musei che consentono l'accesso ai soli residenti nel territorio dell'ente locale, come osservato anche dai giudici comunitari. Infatti, vi sono contribuenti che concorrono al sostegno delle spese pubbliche in Italia e nondimeno non godono dell'agevolazione tariffaria.

In secondo luogo, anche se la corrispondenza fosse stabilita a livello delle imposte locali, quelle cioè versate nelle casse comunali, come ad esempio l'ICI, il quadro non cambierebbe sostanzialmente, poiché il riferimento ad un corrispettivo dell'imposta mal si concilia con la nozione stessa d'imposta, quale ricavabile dall'ordinamento tributario italiano. L'imposta ha infatti natura acausale ed astratta, che le deriva dal fatto di essere una prestazione coattivamente richiesta al contribuente in presenza di una manifestazione di capacità contributiva [11]. Da decenni questo istituto tributario ha invece perso ogni connotazione fondata sulle teorie del beneficio. In altri termini, dalla prospettiva dell'ordinamento nazionale non esiste alcun corrispettivo del pagamento delle imposte.

Ci si chiede però se tale conclusione possa essere superata sulla base dell'autonomia qualificativa di tale concetto nel diritto comunitario, necessaria per consentirne l'omogenea applicazione all'interno dei vari ordinamenti nazionali. Invero, la Corte di Giustizia, nelle proprie sentenze relative alla direttiva sulla raccolta di capitali, ha elaborato una nozione comunitaria di tributo, articolandola intorno all'obbligatorietà della prestazione nei confronti dello Stato od ente locale [12]. Tuttavia, sembra difficile ammettere una reviviscenza in ambito comunitario della teoria del beneficio. Tale conclusione viene confermata dal fatto che la giurisprudenza comunitaria in tema di imposte dirette non ha finora mai giustificato le restrizioni alle libertà fondamentali comunitarie sulla base della necessaria corrispondenza tra chi sostiene l'onere finanziario e chi trae beneficio dai servizi pubblici. In questo senso, sembra che il diritto comunitario fornisca un elemento in più per ritenere ormai superate le teorie che fornivano un'interpretazione materiale del diritto tributario.

Ne consegue che la possibilità di configurare l'agevolazione tariffaria come corrispettivo del pagamento delle imposte risulta non rispondente alla situazione effettivamente determinatasi, oltre che concettualmente errata.

 

4. La responsabilità dello Stato per l'adempimento degli obblighi connessi al diritto comunitario

La sentenza in esame presenta un ulteriore punto di interesse - questa volta di natura più strettamente procedimentale comunitaria - relativo alla responsabilità dello Stato per l'adempimento degli obblighi connessi al diritto comunitario.

Tale questione scaturisce dal diverso assetto tra le competenze in tema di determinazione dell'accesso al patrimonio culturale degli enti locali e quelle stabilite dalla normativa comunitaria.

I fatti del procedimento di infrazione dimostrano che lo Stato italiano - per l'ambito che il diritto interno riserva alla sua competenza - non era rimasto inerte di fronte alla lettera di diffida inviata dalla Commissione Europea in merito alle condizioni per l'accesso al patrimonio culturale. Infatti, a poco meno di due mesi di distanza dalla diffida, la misura discriminatoria, contenuta nell'art. 4, n. 3 del regolamento sul biglietto d'ingresso al patrimonio culturale (decr. 11 dicembre 1997, n. 507), veniva modificata in modo da estendere a tutti i cittadini comunitari - con meno di diciotto o più di sessantacinque anni - l'accesso gratuito ai musei e monumenti nazionali.

Il problema di competenza impediva però a tale nuovo provvedimento di trovare applicazione nei confronti dei musei e monumenti comunali. Nell'assenza di un'analoga misura da parte dei comuni competenti, si perpetrava così la situazione incompatibile con l'ordinamento comunitario, dando origine al procedimento davanti alla Corte di Giustizia, che si sarebbe poi concluso con la condanna del nostro Paese.

L'atteggiamento dello Stato italiano non è immune da rilievi. L'art. 226 trattato CE configura infatti la responsabilità dello Stato membro per il rispetto della normativa comunitaria, in base all'art. 226 trattato CE, indipendentemente dal modo in cui esso abbia ritenuto opportuno ripartire al proprio interno le competenze normative [13]. Si tratta di una fattispecie di responsabilità oggettiva di fronte alla quale lo Stato italiano, nel caso di specie, non avrebbe dovuto limitarsi ad affermare la propria incompetenza normativa a rimuovere l'ostacolo o ad emanare una circolare con cui si raccomandava l'estensione del regime nazionale anche a livello locale.

Nell'ordinamento comunitario gli Stati membri mantengono un ruolo centrale, che non potrà mutare nel nostro Paese nemmeno nel contesto del riformato titolo V della Costituzione per effetto di una riforma federale delle istituzioni statali o per effetto di cambiamenti nella gestione e proprietà del patrimonio culturale. Di fronte all'inerzia delle istituzioni locali competenti, lo Stato italiano dovrà in futuro affrontare le responsabilità che gli incombono iure communitatis, se necessario surrogandosi agli enti locali nelle rispettive prerogative ed adottando ogni misura necessaria al ripristino della compatibilità con la normativa europea.

 

5. Conclusioni

La gestione economica del patrimonio culturale presenta costi notevoli per la collettività, un problema particolarmente avvertito nel nostro Paese.

Il diritto comunitario vieta che il riaddebito di tali costi ai visitatori sfoci in trattamenti discriminatori per quei soggetti che siano cittadini di altri Stati membri, come appunto l'accesso gratuito al godimento del bene pubblico per i soli cittadini italiani o i residenti nel territorio del comune in cui lo stesso si trova.

L'accesso gratuito al patrimonio culturale non può rappresentare il corrispettivo del pagamento delle imposte. A ciò ostano considerazioni di natura tributaria (relative alle caratteristiche strutturali dell'imposta ed alla configurazione del biglietto di ingresso come tassa), ma soprattutto la normativa comunitaria, che esclude la rilevanza di ogni collegamento tra chi beneficia di un servizio pubblico e chi ne sostiene i costi.

Tuttavia, la gestione del patrimonio culturale richiede risorse finanziarie, che nel caso degli enti locali non sono sempre facilmente reperibili.

Si possono comprendere le ragioni per cui i comuni di Venezia, Treviso, Firenze e Padova non abbiano esteso l'agevolazione ai cittadini degli altri Stati membri.

Si può anche comprendere l'esigenza di attutire l'impatto dell'imposizione sui propri amministrati.

Non si può però condividere lo strumento a tal fine utilizzato.

Soprattutto nelle grandi città d'arte, gli stessi obiettivi possono essere legittimamente conseguiti in altro modo, mediante il ricorso a misure tributarie compatibili con la normativa costituzionale oltre che comunitaria. Mi riferisco alla previsione di tributi, già introdotti da alcune città ed isole italiane, il cui presupposto di fatto è l'accesso nel territorio comunale da parte dei soggetti che non risiedono nello stesso (e per tale ragione non sostengono le entrate di quel comune con il pagamento dell'addizionale comunale all'imposta sul reddito) [14]. Queste tasse hanno infatti il pregio di reperire risorse finanziarie aggiuntive, consentendo il concorso alle spese della collettività locale anche nei confronti di quei soggetti che sono esterni alla stessa, ma che per ragioni di turismo, cultura, o anche lavoro (come nel caso della tassa di recente introdotta sul territorio metropolitano di Londra) debbano recarsi sul territorio comunale.

 



Note

[1] Corte di Giustizia 15 marzo 1994, causa C-45/93, Commissione ./. Spagna, in Racc., p. I-911 e ss.

[2] Nel caso di specie, però, seguendo le argomentazioni dell'avvocato generale Stix-Hackl, la Corte ha statuito che la discriminazione ai sensi dell'art. 49 (libera prestazione dei servizi) si riflette in una contemporanea violazione del divieto sancito dall'art. 12.

[3] Tali situazioni sarebbero invece incompatibili con la cd. clausola della nazione più favorita.

[4] Si veda il paragrafo 20 della sentenza in esame.

[5] Corte di Giustizia 14 novembre 1995, causa C-484/93, Svensson, in Racc., p. I-3955, punto 15; 16 luglio 1998, causa C-264/96, Imperial Chemical Industries, in Racc., p. I-4695, punto 28; 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, in Racc. pag. I-6161, punto 51; 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, in Racc., p. I-4071, punto 59; 8 marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft e a., in Racc., p. I-1727, punto 59; 12 dicembre 2002, causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst, in Racc., p. I-11779, punto 36.

[6] Questa giustificazione, sviluppatasi principalmente nel settore delle imposte dirette, è stata teorizzata dalla Corte di Giustizia nella sentenza 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann, in Racc., p. I-249 in relazione al legame tra la deducibilità dei contributi assicurativi e la imposizione dei relativi premi, ma ha subito progressive limitazioni nel corso dell'ultimo decennio fino alla sentenza 3 ottobre 2002, causa C-136/00, Danner, in Racc., p. I-8147 (peraltro stranamente non richiamata da questa sentenza) in cui la Corte ha escluso la giustificabilità del divieto di dedurre contributi pagati a schemi assicurativi esteri nel caso di trasferimento di residenza.

[7] La distinzione tra trattamenti additivi (imposizione) e sottrattivi - formulata da F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, p. 32 e ss. - sembra utile per prospettare in modo unitario il problema del nesso diretto in grado di giustificare la violazione alle libertà fondamentali comunitarie.

[8] Si veda il paragrafo 24 della sentenza in esame.

[9] Per una completa disamina del problema si rimanda alla monografia di L. Del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000.

[10] Libera traduzione dell'autore dall'originale paragrafo 18 delle conclusioni dell'avvocato generale Stix-Hackl, redatte in lingua tedesca: "Nach Auffassung der italienischen Regierung... italienische Staatsangehörige als Steuerpflichtige ihren Beitrag zu den öffentlichen Ausgaben leisten".

[11] V. sul punto F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, I, VIII ed., Torino, 2003, pp. 6-7.

[12] Questa nozione presenta profili non sempre coincidenti con quelli tradizionalmente in uso nel diritto tributario italiano, come risulta ad esempio dalla sentenza 21 settembre 2000, causa C-19/99, Modelo Continente, in Racc., p. I-7213, in cui la Corte ha ritenuto gli onorari corrisposti ai notai portoghesi alla stregua di veri e propri tributi, tenuto conto della loro natura obbligatoria in relazione al compimento delle operazioni societarie di raccolta del capitale ed avendone escluso la natura retributiva.

[13] Così al paragrafo 27 della sentenza in esame, che richiama il precedente di un altro procedimento di infrazione nei confronti del nostro Paese, oggetto della sentenza 13 dicembre 1991, causa C-33/90, Commissione ./. Italia, in Racc., p. I-5987, su cui v. in particolare il punto 24.

[14] La stessa misura potrebbe prevedere un'esenzione per quanti possiedono una casa sul territorio comunale e già concorrono alle spese comunali con il pagamento dell'ICI.

 



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