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Regione Toscana

Ipotesi di autonomia speciale per i beni culturali
ex art. 116, comma 3, Cost.

Schede di lavoro

 


Sommario: 1. I poteri sostitutivi, di Carla Barbati. - 2. Lo spettacolo, di Carla Barbati. - 3. Le sanzioni amministrative, di Girolamo Sciullo. - 4. Il personale, di Carlo Zoli. - 5. La consultazione degli enti locali nel procedimento ex art. 116, comma 3, Cost., di Claudia Tubertini..



1. I poteri sostitutivi, di Carla Barbati

1.1. Considerazioni generali. Il potere sostitutivo è stato tipicamente configurato come reazione ad un'inerzia.

La condizione di inattività, riferita ad atti e ad adempimenti vincolati nel loro an, si è ritenuto giustificasse l'esercizio di poteri che di per sé possono essere lesivi della condizione di autonomia, quando questa sia la condizione in cui si trovano i soggetti inerti.

Un vincolo, questo, relativo all'an, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, può consistere tanto nell'essere l'attività sottoposta a termini perentori, quanto può derivare dalla natura degli atti da compiere, nel senso che deve trattarsi di atti o di attività la cui omissione sia tale da pregiudicare "l'esercizio di funzioni fondamentali ovvero il perseguimento di interessi essenziali ... affidati alla responsabilità finale dello Stato".

Il ricorrere di questi presupposti è giudicato essenziale ad assicurare quella proporzionalità, tra la misura ed il fatto di disfunzione, necessaria perché gli interventi sostitutivi possano giudicarsi rispondenti al principio di "leale cooperazione" che deve sussistere tra Stato e regioni.

Anzi, a questo scopo, sempre secondo la giurisprudenza costituzionale, lo Stato può esercitare tali poteri solo dopo avere compiuto interventi volti a porre le autonomie regionali nella condizione di poter esercitare le proprie competenze.

Una sostituzione che, invece, abbia fondamento in un esercizio dei poteri difforme da indirizzi o da scelte del livello di governo superiore è stata consentita solo quando ciò si traducesse in una violazione degli adempimenti comunitari o internazionali di cui solo lo Stato era riconosciuto responsabile (o quando si trattasse di esercitare funzioni delegate).

Con riferimento ai beni culturali e ai provvedimenti tramite i quali si esercita la funzione di tutela, ricorrono dunque i presupposti sostanziali che legittimano l'adozione di provvedimenti sostitutivi da parte del centro (sostituzione "dall'alto").

Al tempo stesso, lo spostamento di molte competenze in capo alla regione e la possibilità che il loro esercizio continui ad essere, in determinate ipotesi, subordinato a provvedimenti che restano di competenza del centro, induce ad immaginare misure sostitutive che possano essere attivate anche dal "basso", come forma di tutela e di garanzia dell'autonomia riconosciuta alla regione.

Per principio generale, infatti, è l'esercizio dell'autonomia che deve essere garantito e non solo il suo astratto e formale riconoscimento. La lesione di questa condizione si presenta ogni qualvolta ne venga impedita l'espressione (id est: esercizio).

Dunque, nel quadro entro il quale si troverà ad operare la regione, si dovrà accedere ad una considerazione della "sostituzione" amministrativa come mezzo di reazione sia alle inerzie regionali (che siano in grado di pregiudicare il perseguimento di interessi essenziali o nazionali), sia come reazione alle inerzie del centro, quando queste impediscano l'esercizio dell'autonomia regionale sino a diventare causa di inerzie regionali.

1.2. La sostituzione "dall'alto": nei suoi presupposti sostanziali può essere configurata secondo i principi giurisprudenziali che ne hanno definito lo statuto e la compatibilità con le ragioni delle autonomie; dunque, come misura da attivare in presenza di inattività che si traducano nel mancato compimento di atti dovuti (da parte della regione) e preordinati al perseguimento di interessi essenziali di cui è tutore e responsabile anche il centro.

A questa stregua tutte le espressioni della funzione di tutela rientrano nella previsione e possono essere fra loro accomunate.

Restano da definire le condizioni procedurali: a questo proposito il rispetto della "leale cooperazione" induce a prevedere che la misura possa essere attivata solo dopo che l'inerzia venga accertata, ovvero previo invito a provvedere entro un termine congruo, con possibilità da parte della regione di indicare quali iniziative e misure siano state adottate nel frattempo, al fine di compiere gli atti dovuti.

L'esercizio del potere, o comunque l'adozione del provvedimento in sostituzione, viene assegnato ad un commissario ad acta, da identificare nella figura del soprintendente regionale il quale, pur appartenente ormai alla organizzazione regionale, agisce anche come "braccio" del centro statale, legittimato, su richiesta di questo, ad esercitare i poteri sostitutivi.

La nomina del commissario deve avvenire da parte del ministero, in quanto istanza ultima competente all'adozione dei provvedimenti in via sostitutiva.

Il soprintendente regionale procederà all'adozione dei provvedimenti, avvalendosi degli uffici delle soprintendenze di settore e delle altre strutture regionali o locali.

Nel caso anche il soprintendente regionale sia inerte, e ciò venga accertato attraverso un procedimento che prevede un invito a provvedere entro un termine, la sostituzione verrà posta in essere dal centro statale.

1.3. La sostituzione "dal basso". Circa i presupposti sostanziali: ricorre quando il centro non adotti i provvedimenti necessari per consentire alla regione l'esercizio delle proprie competenze, vale a dire essa deve essere pensata come strumento per reagire a quelle inerzie del centro che potrebbero tradursi in inerzie delle regioni.

Dal punto di vista procedurale: da parte della regione si chiede al soprintendente regionale di segnalare al ministero l'inerzia, chiedendo contestualmente allo stesso di pronunciarsi con un provvedimento espresso, entro un termine stabilito, o ad adottare le misure che si rendano necessarie [1].

Il ministero se nega l'adozione del provvedimento, per mancanza dei presupposti e delle condizioni richiesti, è tenuto a indicare quali altre soluzioni sono immaginabili per consentire alla regione l'esercizio delle proprie competenze, aprendo in questo modo una fase "di confronto" con la regione.

Qualora il ministero non si pronunci entro il termine o non indichi nella risposta le altre soluzioni possibili, il soprintendente regionale è legittimato ad adottare, in via sostitutiva, i provvedimenti che si rendono necessari, i quali avranno efficacia sino a che il ministero stesso non si attivi.

 

2. Lo spettacolo, di Carla Barbati

2.1. Premessa. L'art. 117, nel suo comma 3, assegna alla competenza legislativa concorrente delle regioni ordinarie: "la promozione e organizzazione di attività culturali".

Lo spettacolo non riceve, di per sé, alcuna menzione espressa: questo silenzio induce a concludere che esso rientri nel novero delle materie cd. "innominate", assegnate alla competenza legislativa residuale delle regioni.

Benché si possa ritenere che lo spettacolo sia anch'esso fra le espressioni delle attività culturali, a queste assimilabili dal punto di vista teleologico, agli effetti dei criteri di riparto delle competenze normative, e tenendo conto della ratio e dei principi della riforma, ritenere che lo spettacolo possa essere assorbito nell'alveo delle attività culturali significherebbe accedere ad una interpretazione estensiva delle competenze statali (sia pure di quelle che si manifestano nella fissazione dei principi fondamentali della disciplina) che non appare autorizzata dal disegno costituzionale.

Questa concezione delle "attività culturali" come insieme distinto e separato da quello dello "spettacolo" trova, peraltro, fondamento nelle scelte del legislatore ordinario il quale ha dimostrato già in occasione della legge 15 marzo 1997, n. 59 e poi del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 di considerare lo spettacolo come ambito non assimilabile alle attività culturali, dettando per esso uno statuto differenziato.

La circostanza che il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 (istitutivo del ministero per i Beni e le Attività culturali) collochi, invece, lo spettacolo fra le attività culturali ha una valenza solo organizzativa che non può ritenersi sufficiente a superare le diverse indicazioni fornite dal d.lg. 112/1998 e soprattutto quelle che derivano dalle nuove norme costituzionali.

2.2. Identificazione ambiti e ruolo della regione: a) "attività culturali". A questo proposito, le si possono identificare in quelle "quelle rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell'arte" (art. 148 d.lg. 112/1998).

L'attribuzione di forme e condizioni ulteriori di autonomia si traduce nel collocare anche le attività culturali nell'alveo delle competenze residuali delle regioni: una soluzione che garantisce, tra l'altro, omogeneità e completezza nelle attribuzioni "residuali" regionali, fra le quali già rientrano - in base all'assunto dal quale si procede - le attività di spettacolo.

b) spettacolo. Tenendo conto del presupposto interpretativo dal quale si muove e che vuole le attività di spettacolo già comprese tra le competenze legislative residuali delle regioni, l'attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia non realizzerebbe scostamenti significativi dalle condizioni in cui si trovano le altre regioni che non intendano attivare una propria condizione di "autonomia speciale".

Qualora si intenda definire meglio quali siano gli interventi assegnati al legislatore regionale, è necessario tenere presente l'incidenza che deve essere assegnata al principio c.d. di sussidiarietà orizzontale: l'intervento pubblico in questi ambiti assolve, vocazionalmente, ad una funzione sussidiaria o complementare rispetto all'azione dei privati, in quanto è diretta essenzialmente a correggere le debolezze (e per lo spettacolo dal vivo, anche i fallimenti) del mercato.

Di conseguenza, l'azione regionale, quando si esprima nelle forme del c.d. intervento indiretto (sovvenzioni, incentivazioni) continua ad assolvere una finalità di promozione, a supporto delle iniziative assunte. Alla regione spetterà, ma in un momento successivo a quello statutario, individuare le condizioni in presenza delle quali vengono erogati i finanziamenti.

Quanto all'intervento diretto, ossia alla costituzione di soggetti ed enti operanti nel settore e chiamati ad esplicare essi stessi molta parte di queste attività, non sembra si debba ravvisare la necessità di previsioni "speciali", in quanto tali istituti già ricadono nella potestà legislativa delle regioni.

Nel delineare il ruolo regionale, occorre comunque tenere presente che:

a) l'azione regionale, per quanto configurata come esclusiva, convive con il mantenimento di un ruolo statale, anche forte. Molti dei rapporti e degli istituti, attraverso i quali trovano espressione le attività di spettacolo, restano sottoposti alla potestà legislativa (esclusiva) dello Stato.

E' questo il caso dei rapporti di diritto privato, attraverso i quali si snodano molte attività e si realizzano le condizioni della loro produzione e realizzazione, assegnato alla competenza esclusiva della legge statale; allo stesso modo è questo il caso del regime dei tributi ai quali sono assoggettati, dei rapporti di lavoro, a cui si deve aggiungere la "tutela della concorrenza" che, specie per le attività cinematografiche trova molte ragioni per operare come clausola che legittima azioni statali- e della "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali".

b) "ciò che cambia", ovvero che "deve cambiare", nella prospettiva di una riconduzione dello spettacolo all'alveo delle competenze residuali regionali, è il sistema dei finanziamenti a queste attività, la cui gestione è stata sino ad ora centralizzata.

Il progetto Toscana, sotto questo profilo, può diventare il terreno propulsivo per l'affermarsi di soluzioni che dovranno essere adottate anche con riguardo alle altre realtà regionali, nella prospettiva interpretativa che vuole lo spettacolo materia di competenza residuale delle regioni.

In ogni caso, anche qualora dovessero affermarsi tesi che negano la riconduzione dello spettacolo nell'alveo delle competenze residuali delle regioni, le "maggiori condizioni di autonomia" si sostanziano nel trasferimento di una quota dei finanziamenti (Fus), la cui gestione verrebbe assegnata alla sola regione che intenda attivare "ulteriori forme di autonomia".

Dunque, non sarà più il centro a definire le condizioni in presenza delle quali verranno erogati i finanziamenti (e tenendo conto che già da ora queste scelte non possono più essere accolte in regolamenti statali), ma le singole regioni o la singola regione, i quali si troveranno "liberati" anche dall'osservanza dei principi fondamentali posti dalle leggi statali.

Da valutare l'opportunità di meccanismi di concertazione/cooperazione tra regioni che le vede concorrere ai finanziamenti di determinate iniziative: sotto questo profilo, occorre anche tenere conto delle necessità degli operatori del settore, ai quali non possono bastare le risorse messe a disposizione da una sola parte pubblica.

La debolezza degli attuali meccanismi di finanziamento è data dal fatto che, pur potendo tutti i soggetti pubblici concorre al finanziamento/promozione di queste attività, è sempre mancato un coordinamento tra di essi (in particolare tra il centro e le autonomie), che ha determinato sovrapposizioni e non ha evitato lacune.

Nel definire le condizioni dei finanziamenti, sarà opportuno tenere conto del fatto che lo spettacolo non identifica un ambito omogeneo di interventi e/o di necessità. Le attività tramite le quali trova espressione rispondono a logiche e ad esigenze diverse, innanzitutto, a seconda della forma in cui si esprimono. La principale differenza, a questi effetti, è quella che intercorre tra "spettacolo dal vivo" e "spettacolo registrato". Le condizioni che presiedono alla produzione, alla rappresentazione e alla diffusione di queste forme di spettacolo sono tra loro profondamente diverse. In un caso, quello dello spettacolo dal vivo, ancorate al territorio e dipendenti anche dalle iniziative che si assumano in ambito locale per favorirne o consentirne la rappresentazione, oltre che la stessa produzione; nell'altro caso, quello dello spettacolo "registrato o dallo schermo", bisognose di interventi che non possono trovare nella sola dimensione "locale" le condizioni necessarie alla produzione e a garantirne una adeguata circolazione.

Si tratta, peraltro, di differenze che rilevano agli effetti della gestione regionale delle risorse, ma non incidono sul momento della definizione delle condizioni di maggiore autonomia.

 

3. Le sanzioni amministrative, di Girolamo Sciullo

Sotto la vigenza dell'originario Titolo V, costituiva affermazione consolidata, nella giurisprudenza della Corte costituzionale, quella secondo cui rientrava nella potestà legislativa della regione il potere di dettare norme in tema di sanzioni amministrative nelle materie di sua competenza.

In particolare, secondo la Corte, la c.d. competenza sanzionatoria "non attene[va] ad una materia a sé, ma accede[va] alle materie sostanziali rispetto alle quali svolge[va] una funzione rafforzatrice dei precetti stabiliti dal legislatore" [2], sicché "la potestà di sanzionare eventuali illeciti amministrativi era] ripartita fra lo Stato e le regioni (o province autonome) secondo i medesimi criteri di distribuzione delle competenze sostanziali cui le sanzioni si riferi[vano]" [3].

In questo quadro concettuale la legge 24 novembre 1981, n. 689 era ritenuta dettare i principi fondamentali vincolanti il legislatore regionale [4].

La competenza sanzionatoria regionale emergeva del resto dalla stessa legislazione statale (artt. 9, comma 2; 17, comma 3; e 31, comma 1, della l. 689/1981 [5].

Con il nuovo Titolo V non sembrano profilarsi motivi per ipotizzare un mutamento di giurisprudenza, con la precisazione peraltro che, nel caso di competenza residuale regionale (art. 117, comma 4), la competenza sanzionatoria non dovrebbe incontrare i limite dei principi espressi dalla l. 689/1981 - contenuti nella Sez. I (in tema di disciplina sostanziale), nella Sez. II (in tema di applicazione delle sanzioni) del Capo I -, ma solo quelli eventualmente rintracciabili a livello costituzionale (sull'inesistenza peraltro di principi costituzionali in tema di responsabilità amministrativa - salvo che per quella disciplinare -) [6]. E' comunque da tenere presente che, in tema di beni culturali, le sanzioni amministrative previste dal Testo unico (artt.130-134 e 135-137) riguardano la violazione di doveri imposti nell'esercizio della funzione di tutela (a proposito dell'individuazione, conservazione e circolazione dei beni) e come tali, nello schema predisposto da Marco Cammelli, destinate presumibilmente ad essere oggetto di competenza ripartita.

In ragione dell'orientamento del giudice costituzionale, non si profila come necessaria una proposizione normativa in tema di sanzioni amministrative: come aspetto "accessorio" la competenza sanzionatoria seguirà la dislocazione della "materia sostanziale". Al più si può pensare ad una formula di questo tipo: dopo l'indicazione delle submaterie assegnate alla competenza concorrente adde " ... comprese le connesse sanzioni [o meglio, illeciti] amministrative".

 

4. Il personale, di Carlo Zoli [7]

In ordine ai profili concernenti il personale, nell'ottica dell'eventuale attribuzione ad una regione a statuto ordinario di "forme e condizioni particolari di autonomia", devono essere esaminati alcuni profili, non senza dubbi ed incertezze.

4.1. La possibilità che la disciplina del personale possa essere oggetto di "condizioni particolari di autonomia. La prima questione, da affrontare in via per così dire preliminare, attiene alla possibilità stessa che la disciplina del personale possa essere oggetto di "condizioni particolari di autonomia".

Infatti tale materia non è espressamente prevista né tra quelle di legislazione concorrente (art. 117, comma 3, Cost.), né tra quelle indicate dall'art. 117, comma 2, lett. n), s) e l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace: le uniche sulle quali sia ammissibile l'introduzione di un regime di autonomia speciale ai sensi dell'art. 116 Cost.

Si tratta pertanto di verificare se la disciplina del personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche sia riconducibile al concetto di "organizzazione amministrativa" (art. 117, comma 2, lett. g) oppure se sia assimilabile a quella dei lavoratori privati, ed in quest'ultimo caso se rientri nell'"ordinamento civile" (art. 117, comma 2, lett. l) o, al contrario, nella "tutela e sicurezza del lavoro" (art. 117, comma 3).

Infatti, se la disciplina del personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche fosse riconducibile al concetto di "organizzazione amministrativa", non vi è dubbio che al di fuori dell'organizzazione dello Stato non sussisterebbe alcuna competenza statale in via esclusiva, né concorrente. Pertanto ciascuna regione potrebbe legiferare sul proprio personale in piena autonomia senza neppure il vincolo dei "principi fondamentali" fissati dalla legislazione dello Stato, che opera per le sole materie di legislazione concorrente (art. 117, comma 3).

Qualora, peraltro, come sembra preferibile, il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sia assimilabile a quello "privato", si tratta di optare per la riconducibilità della relativa disciplina alle materie di legislazione esclusiva dello Stato o a quelle di legislazione concorrente: ciò dipende dal significato attribuibile alle espressioni, in precedenza ricordate, contenute rispettivamente nei commi 2 e 3 dell'art. 117 Cost. Al riguardo sono state avanzate diverse soluzioni: tuttavia, sembra prevalere quella che riserva alla competenza esclusiva statale la disciplina del rapporto di lavoro, estendendo la legislazione concorrente agli interventi più direttamente rivolti al mercato del lavoro.

4.2. Gli spazi per un intervento legislativo regionale. Qualora, in conclusione ed in estrema sintesi, le soluzioni appena esposte debbano essere accolte, gli spazi per un intervento legislativo regionale, di carattere ordinario o speciale, dipendono dal significato attribuibile al concetto di "organizzazione amministrativa", la quale può chiaramente formare oggetto di legislazione esclusiva regionale ed essere assoggettata a forme e condizioni particolari di autonomia.

4.2.I. Anche al riguardo le prime interpretazioni dottrinali divergono. Tuttavia sembra di poter individuare alcuni aspetti o profili sui quali l'intervento del legislatore regionale appare ammissibile:

a) le modalità di selezione del personale, ivi compresa l'eventuale previsione della provenienza del personale da altri enti pubblici o da aziende private, con la conseguente determinazione della sorte dei trattamenti pregressi, qualora di miglior favore;

b) le previsione di adeguati meccanismi o procedure di formazione del personale;

c) i rapporti tra politica e burocrazia, con l'eventuale previsione di soluzioni di autogoverno del sistema a favore di una sorta di collegio dei soprintendenti, ai quali magari delegare anche un potere di proposta in ordine agli aspetti organizzativi all'assessore competente;

d) le regole di conferimento di incarichi dirigenziali e non;

e) la durata degli incarichi e la relativa scadenza (accentuando od eliminando il sistema dello spoil system);

f) i rapporti tra i livelli dirigenziali;

g) la verifica dei risultati della dirigenza ed il sistema dei controlli (magari totalmente rimessi ad organismi esterni per accentuare l'autonomia della dirigenza);

h) il regime delle incompatibilità e del divieto di cumulo di impieghi.

4.2.II. Il legislatore dovrebbe altresì prevedere da chi dipendano i dirigenti e gli altri lavoratori, se cioè dalla regione stessa o dagli enti locali.

La questione è strettamente connessa alle scelte che verranno effettuate dalla legge speciale di autonomia (e dalla eventuale legislazione regionale attuativa) in ordine al riparto delle funzioni amministrative tra la regione e gli enti locali. Discende infatti dai principi generali, e dallo stesso nuovo art. 119 Cost., che ad ogni ampliamento delle competenze degli enti locali deve corrispondere il trasferimento delle necessarie risorse. In questo senso, l'esperienza di attuazione delle leggi Bassanini ha visto gli enti locali particolarmente impegnati nella difesa del principio del trasferimento diretto del personale statale a livello locale (cioè senza il passaggio intermedio alle regioni), anche nelle materie nelle quali la ripartizione delle funzioni amministrative era stata effettuata dalla legislazione regionale.

A favore del trasferimento diretto del personale agli enti locali in relazione alle competenze ad essi attribuite opera anche il riconoscimento costituzionale ex art. 117 comma 6 dell'autonomia organizzativa degli enti locali: tale autonomia subirebbe un'indubbia restrizione della propria sfera d'azione se si sottraesse al comune la titolarità (e quindi il relativo potere direttivo ed organizzativo) del personale adibito alla gestione dei beni culturali.

In linea di principio, quindi, se nel modello di autonomia speciale della Toscana si immagina di conferire ai comuni la gestione di musei, archivi e biblioteche, conservando alla regione le soprintendenze, anche la collocazione del personale dovrebbe seguire lo stesso criterio di riparto.

I meccanismi di concertazione a livello regionale dovrebbero poi consentire di procedere in forma concordata alla individuazione del fabbisogno di personale di ciascun livello locale, in modo tale da garantire celerità alle procedure di trasferimento. Ciò appare particolarmente importante, se si intende inserire nella legge la cd. "clausola di sospensiva" che subordina l'efficacia delle nuove competenze regionali all'avvenuto conferimento delle funzioni e delle relative risorse agli enti locali.

Quanto sinora affermato va tuttavia raffrontato con la necessità di evitare che il decentramento delle competenze comporti la dispersione delle risorse umane e, soprattutto, con l'esigenza di garantire l'elevata preparazione tecnica e di assicurare l'autonomia scientifica del personale, soprattutto delle figure apicali.

Per realizzare questi obiettivi, va verificata la praticabilità dell'istituzione di una sorta di Agenzia regionale (sottoposta ad indirizzo e controllo della regione ma con autonomia tecnica e di bilancio) per la gestione del personale adibito al settore, sulla scorta del modello previsto per i segretari comunali, rispetto alla quale il personale apicale sarebbe collocato in una posizione di dipendenza giuridica (mentre la dipendenza funzionale si instaurerebbe con la struttura a cui vengono adibiti, e quindi, se si tratta dei soprintendenti, con la regione, salva l'autonomia organizzativa attribuita alla stessa soprintendenza). La stessa soluzione potrebbe applicarsi non solo ai soprintendenti, ma anche ai direttori dei musei e alle altre figure dirigenziali operanti in ambiti nei quali la competenza amministrativa è del livello locale, per i quali potrebbe immaginarsi (in deroga alla regola generale della dipendenza dal livello locale) una dipendenza giuridica dall'Agenzia, ma funzionale rispetto alla singola struttura e/o al comune (come per il segretario comunale).

Al riguardo, si noti che proprio l'ordinamento dei segretari comunali fornisce un esempio di figura dirigenziale dipendente giuridicamente da un soggetto diverso da quello da cui dipende il restante personale comunale, ma tuttavia titolare di un potere direttivo e di sovrintendenza nei loro confronti (potere che si giustifica, appunto, in relazione alla dipendenza funzionale che si instaura tra il segretario ed il comune).

All'Agenzia potrebbero essere affidati anche i compiti relativi alla formazione, al reclutamento ed alla mobilità del personale: compiti che potrebbero essere estesi anche al personale di qualifica inferiore, anche dipendente dal livello locale (in questo caso, chiaramente, le procedure di reclutamento sarebbero gestite dall'Agenzia per conto degli enti locali).

In proposito, il modello "Agenzia" è interessante anche il relazione alla possibilità di prevedere nell'organizzazione interna una compartecipazione delle diverse componenti, come nell'attuale Agenzia per la gestione dei segretari comunali, nel cui consiglio di amministrazione siedono rappresentanti del ministero, rappresentanti degli enti locali e degli stessi segretari (oltre ad esperti).

Ovviamente, una soluzione di questo genere presuppone che anche nel nuovo sistema costituzionale la regione possa dettare una disciplina legislativa (in attuazione della legge di autonomia) che regoli aspetti organizzativi connessi al personale (tali sono senz'altro l'istituzione ed i compiti dell'Agenzia, la formazione, il reclutamento); non solo, presuppone che la legge regionale possa in parte porre vincoli all'autonomia degli enti locali in relazione al personale ad esso trasferito (ad es. prevedendo requisiti di professionalità, particolari modalità di selezione affidate all'Agenzia, ovvero percorsi obbligatori di formazione, etc.). Questo potere, sotto il primo profilo, può considerarsi quale corollario della competenza nel settore cultura; sotto il secondo profilo (rapporto con l'autonomia degli enti locali) può (anche se con minore certezza) ricondursi al potere della regione di conferire le funzioni amministrative nelle materie di propria competenza (ex art. 118, comma 2) applicando il principio di adeguatezza, potere che presuppone anche la possibilità di imporre agli enti locali determinati requisiti e standard "qualitativi".

Ulteriore nodo da sciogliere è se il legislatore regionale, nell'intervenire in relazione al sistema dei beni culturali, si limiti ad introdurre una regolamentazione speciale per il relativo personale, oppure estenda le soluzioni innovative a tutti i dipendenti della regione. In realtà non sembra che sussistano problemi di sorta a limitare le novità ai dipendenti del sistema "beni culturali", specie se giustificate dalla specialità del sistema stesso.

4.3. Gli spazi rimessi alla contrattazione collettiva regionale. Particolarmente complesso appare, poi, il tema degli spazi rimessi alla contrattazione collettiva regionale, con ciò che ne consegue in termini di determinazione del trattamento economico dei dipendenti e dell'introduzione di regole negoziali autonome.

4.3.I. In altre parole, si tratta di verificare se, e fino a che punto, regga la struttura fortemente accentrata della contrattazione collettiva delineata prima dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e poi dal decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165: si fa riferimento in particolare sia alla circostanza che la contrattazione integrativa e/o decentrata è circoscritta alle "materie" ed ai "limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure che questi ultimi prevedono", sia al divieto gravante sulle pubbliche amministrazioni di "sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione" (art. 40, comma 3, d.lg. 165/2001).

Appare in special modo ancor più complessa di quanto non sia per i contratti individuali di lavoro la collocazione della contrattazione collettiva tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato o di legislazione concorrente, alla luce della naturale ambivalenza della stessa, la quale può essere intesa ora come materia da regolare, ora come strumento di regolazione delle materie altrimenti già affidate alle competenze del legislatore regionale o statale. Tale ambivalenza rivela ancor più in tutta la sua portata laddove si consideri che l'esercizio dell'attività negoziale si riflette sia sulle vicende del rapporto di lavoro, sia sugli aspetti organizzativi della struttura e sulla gestione delle risorse finanziarie pubbliche.

E' già stato in dottrina sottolineato che la riforma costituzionale rende necessario un adeguamento dell'attuale disciplina eteronoma concernente la struttura della contrattazione collettiva, a partire dal sistema di rappresentanza negoziale cogente per tutte le amministrazioni pubbliche imperniato sull'Aran.

In tale ottica non sono mancate prospettazioni che continuano a ritenere necessario un intervento del legislatore nazionale per assicurare l'omogeneità dei "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" (art. 117, comma 2, lett. m), oltre che per l'esigenza di una gestione accorpata in sede negoziale dei flussi finanziari connessi alla contrattazione, riconducibile a quella funzione di "perequazione delle risorse finanziarie" di cui all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost.

Peraltro si è altresì giustamente rilevato che le suddette ragioni non sembrano più giustificabili quando le risorse utilizzate in sede decentrata siano da imputare non a finanza derivata, bensì a risorse autonome degli enti di cui all'art. 119, comma 2, Cost. Lo stesso dicasi con riguardo alle disposizioni contrattuali che attengano ad aspetti più propriamente organizzativi od ordinamentali, quali quelli indicati retro.

In tali ambiti appare difficile escludere la costituzionalità di una legge regionale che conferisca spazi di intervento alla contrattazione regionale anche in contrasto con l'attuale assetto centralistico della struttura negoziale risultante dalla combinazione tra menzionato quadro eteronomo e soluzioni degli accordi nazionali di comparto.

4.3.II. Tuttavia, se si vuole evitare di scardinare l'attuale sistema contrattuale come delineato dal legislatore nazionale, si può pensare di valorizzare gli aspetti più rilevanti sui quali la contrattazione integrativa di secondo livello si è già cimentata in modo significativo con riguardo a rilevanti funzioni organizzative e gestionali (in tema, ad es., di sistemi di gestione del fondo unico di amministrazione, di disciplina relativa al nuovo ordinamento professionale, di attribuzione degli incarichi dirigenziali).

Nel passaggio alle dipendenze della regione o di altri enti locali si verificherebbe innanzitutto il passaggio dal contratto collettivo nazionale dei ministeriali a quello delle autonomie locali. In secondo luogo, gli spazi di operatività già aperti alla contrattazione integrativa, ed appena illustrati, dovrebbero essere estesi col prossimo rinnovo del contratto collettivo nazionale per le regioni e le autonomie locali: infatti, la direttiva recentemente approvata dal comitato di settore ed inviata all'Aran vuole, tra l'altro, che sia affidata al c.c.n.l. la definizione dei principi dei diversi istituti negoziabili, ma che sia demandata al contratto integrativo l'attuazione di tali principi.

 

5. La consultazione degli enti locali nel procedimento ex art. 116, comma 3, Cost., di Claudia Tubertini

5.1. Premessa. La previsione contenuta nell'art. 116, comma 3, della Costituzione, concernente l'attribuzione alle regioni di forme e condizioni particolari di autonomia, rappresenta al tempo stesso una delle più rilevanti innovazioni introdotte dalla l. cost. 3/2001, ma anche una delle disposizioni che più ha suscitato dubbi interpretativi; dubbi legati, specialmente, alla complessità (non solo di ordine politico, ma anche tecnico-giuridico) del procedimento necessario per l'ottenimento di questa "speciale specialità" [8], e riguardanti la portata e gli effetti delle singole fasi in cui esso è scomponibile (iniziativa, consultiva, decisoria, che comprende anche una previa fase di intesa tra lo Stato e la regione interessata), e la loro sequenza temporale. Proprio da questi dubbi deriva l'opinione, assai diffusa in dottrina, secondo la quale la stessa complessità del percorso delineato dall'art. 116 comma 3 sarebbe il primo elemento disincentivante rispetto alla ricerca di una autonomia differenziata [9].

In realtà, un'interpretazione sistematica della disposizione costituzionale, che tenga conto della sua collocazione e della sua complessiva ratio, alla luce delle altre disposizioni contenute nel Titolo V, consente di ricostruire con un certo grado di attendibilità, se certamente non tutti, almeno alcuni momenti del procedimento delineato dall'art. 116 comma 3; e di verificare, in una prospettiva più ampia, se ed in che misura sia vera l'affermazione (anch'essa assi diffusa) secondo la quale sarebbe opportuna, se non addirittura necessaria, una integrazione della disciplina costituzionale attraverso un intervento legislativo ordinario (sia esso statale, regionale o di entrambi i livelli di governo coinvolti nel procedimento).

Una delle fasi di cui si compone il procedimento è costituita, appunto, dalla consultazione degli enti locali, individuata dall'art. 116 comma 3 Cost. quale fase connessa all'esercizio dell'iniziativa legislativa da parte della regione interessata, senza che tuttavia a questa prescrizione sia accompagnata una (sia pur minima) disciplina, né un rinvio ad una eventuale disciplina legislativa di tipo attuativo [10].

Cerchiamo, quindi, di verificare se dall'interpretazione sistematica a cui si è appena fatto cenno sia possibile trarre qualche indicazione idonea a delineare, nei suoi contorni essenziali, questo aspetto del procedimento.

5.2. La collocazione temporale e l'ambito oggettivo della consultazione. In primo luogo, la collocazione temporale della fase sembra evincersi chiaramente dalla portata letterale del comma, dove l'avvenuta consultazione degli enti locali viene posta come requisito di legittimità dell'iniziativa regionale, accanto all'altro requisito di legittimità costituito dalla compatibilità dell'iniziativa con i principi dettati dall'art. 119 Cost. [11]; essa, quindi, deve con ogni probabilità essere realizzata nella fase di formazione dell'atto di iniziativa regionale, che, a sua volta, precede (logicamente) la fase dell'intesa con il governo.

In secondo luogo, l'oggetto della consultazione va ricostruito alla luce del procedimento prefigurato dall'art. 116, comma 3, che sembra aprirsi con l'approvazione, da parte del consiglio regionale, di un progetto di legge statale, che costituisce a sua volta l'oggetto dell'intesa con il governo, a seguito della quale lo stesso disegno viene trasfuso in un d.d.l. di iniziativa governativa da presentare al parlamento.

Che l'iniziativa regionale debba avere la veste formale di un progetto di legge statale (come tale, di competenza del consiglio regionale ai sensi dell'art. 121, comma 2, Cost.) può evincersi, anche in tal caso, dal tenore letterale dell'art. 116, comma 3, che prevede, appunto, l'attribuzione dell'autonomia speciale "con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata". La consultazione degli enti locali avrà quindi quale oggetto necessario il suddetto progetto di legge.

Ciò non esclude, ovviamente, che nell'ottica di leale cooperazione e di integrazione tra il sistema regionale e locale che costituisce uno dei principi essenziali del nuovo sistema costituzionale la consultazione degli enti locali da parte della regione - anche in considerazione della delicatezza dell'oggetto - possa articolarsi in più fasi e con diverse modalità, rispetto alle quali il parere sul progetto di legge di autonomia speciale costituisca l'ultimo e più formale passaggio: in questa direzione, potrebbe ad esempio ipotizzarsi la formulazione di un'intesa politica preliminare sui contenuti essenziali del progetto, anche attraverso la creazione di una commissione tecnica mista (regione-enti locali) per l'elaborazione concertata del progetto.

Modalità simili di concertazione sono state largamente sperimentate in occasione dell'elaborazione delle leggi regionali di attuazione della l. 59/1997, che prevedeva (analogamente al procedimento dettato dall'art. 116, comma 3 Cost.) che le regioni procedessero al conferimento "sentite le rappresentanze degli enti locali" (art. 4 comma 1 l. 59/1997), e possono quindi essere facilmente riproposte.

Dall'oggetto della consultazione si può anche dedurre che, qualora in sede di intesa tra regione e governo emerga la necessità di apportare delle modifiche sostanziali al progetto, queste dovranno costituire oggetto di una nuova deliberazione del consiglio regionale; pertanto, la consultazione degli enti locali dovrà essere rinnovata.

5.3. L'ambito soggettivo della consultazione ed procedimento applicabile. Passando ora all'ambito soggettivo della consultazione, è chiaro che in assenza di ogni indicazione specifica da parte del legislatore costituente, l'unica norma a cui fare riferimento è l'art. 114, che elenca gli enti territoriali costitutivi della Repubblica; la consultazione, dunque, deve senz'altro comprendere gli enti locali della regione riconosciuti come tali dalla Costituzione, ovvero comuni e province (al momento, come è noto, non esistono città metropolitane). Ciò, tuttavia, non esclude che la consultazione possa essere estesa anche ad altri enti locali (in particolare, le forme associative tra comuni), soprattutto in considerazione della loro natura di probabili destinatari del conferimento delle funzioni amministrative in applicazione dei principi di differenziazione ed adeguatezza enunciati dall'art. 118 della Costituzione.

Se, quindi, la consultazione dei comuni e delle province è obbligatoria, non vi è nessun ostacolo all'estensione della consultazione ad altri enti locali, che, anzi, è auspicabile: si pensi soprattutto alle comunità montane, che attualmente sono rappresentate in tutti gli organismi di concertazione regione - autonomie locali (ed anche in quello toscano) e la cui esclusione dalla consultazione apparirebbe - al contrario - difficilmente praticabile.

Per quanto concerne le modalità di consultazione, occorre, anche in questo caso, verificare se sia possibile, in assenza di una espressa disciplina, individuare il procedimento da seguire sulla base del quadro normativo vigente: ciò al fine di rendere immediatamente praticabile la specialità differenziata.

Seguendo questo obiettivo, andrebbe in primo luogo esclusa l'ipotesi che l'articolo 116 comma 3 Cost. presupponga l'avvenuta istituzione del consiglio delle autonomie, previsto dall'art. 123 Cost ult. comma come "organo di consultazione tra la regione e gli enti locali". Una tale soluzione, oltre ad essere in contrasto con il tenore letterale dell'art. 116 (che richiede che siano "sentiti gli enti locali" e non menziona il predetto consiglio) non solo introdurrebbe una sorta di condizione sospensiva alla norma costituzionale, ma porterebbe a disapplicare la legislazione regionale già in vigore in tema di concertazione con gli enti locali.

Sotto questo profilo, si può infatti escludere che vi sia un problema di vuoto normativo, in quanto, da un lato, in quasi tutti i sistemi regionali esiste un'articolata disciplina delle sedi permanenti di consultazione o concertazione tra la regione ed il proprio sistema locale; d'altro lato, tali organismi hanno di norma una competenza "aperta", dovendo essere sentiti in ordine a qualunque iniziativa regionale che abbia ad oggetto la modificazione delle competenze degli enti locali [12]. Di conseguenza, un progetto (come quello di autonomia speciale) che inevitabilmente comporta un consistente mutamento dell'assetto delle competenze del sistema regionale-locale rientrerebbe già ora, automaticamente, nell'ambito di competenza dell'organismo di concertazione locale e, in applicazione della legislazione attuale, sarebbe sottoposto obbligatoriamente alla procedura di consultazione.

A questo proposito, si veda l'art. 12 della legge regionale Toscana 21 marzo 2000, n. 36, ai sensi del quale il consiglio delle autonomie locali (Cdal) esprime parere obbligatorio sulle proposte di atti all'esame del consiglio regionale che attengono, tra l'altro, alla "determinazione o modificazione delle competenze degli enti locali" e al "riparto di competenze tra regione ed enti locali".

Se, dunque, possono considerarsi superabili i dubbi relativi alla imprescindibilità di una previa disposizione, statutaria o legislativa regionale, che disciplini il procedimento di attivazione dell'iniziativa regionale (almeno, nella parte concernente la consultazione degli enti locali), resta tuttavia da chiedersi se l'attuale legislazione regionale, che disciplina le forme di concertazione per così dire "ordinarie", possa considerarsi adeguata alla "specialità" del procedimento, se cioè fornisca sufficienti garanzie di effettività al ruolo degli enti locali.

La risposta, in tal caso, non può essere generalizzata, tenuto conto del differente grado di articolazione e di efficacia della attuale legislazione regionale in tema di concertazione tra regione ed enti locali.

Certamente, il modello attualmente adottato dalla regione Toscana, e delineato dalla l.r. 36/2000, è particolarmente avanzato, e si distingue positivamente (rispetto alle esigenze insite nel procedimento ex art. 116 comma 3 Cost.) per una serie di aspetti:

a) la collocazione del consiglio delle autonomie presso il consiglio regionale, che fa sì che il parere degli enti locali possa essere espresso sulla proposta di legge in avanzata fase di predisposizione, ovvero in prossimità della sua formale deliberazione da parte del consiglio regionale;

b) la rappresentatività diretta del consiglio delle autonomie, composto da amministratori locali (ivi compresi rappresentanti dei consigli comunali e provinciali), eletti dalle rispettive assemblee, e non da rappresentanti delle associazioni di categoria degli enti locali (secondo un modello praticato invece in molte altre regioni);

c) le garanzie previste nel procedimento di consultazione (si veda, ad es., la previsione di termini rigidi per l'espressione del parere; la presidenza del Cdal affidata ad un rappresentante degli enti locali);

d) i rilevanti poteri attribuiti al Cdal (come quello di effettuare consultazioni con la generalità degli enti locali; o quello di riesprimere il parere su proposte che siano state oggetto di ampie e sostanziali modificazioni ad opera delle commissioni consiliari).

A ciò si aggiunga che l'ordinamento toscano prevede anche un tavolo di concertazione tra la giunta regionale e gli enti locali, composto dai rappresentanti dell'esecutivo regionale e dai rappresentanti regionali delle associazioni delle autonomie (a cui partecipa anche il presidente del Cdal per garantire il raccordo con i procedimenti deliberativi di quest'ultimo). In base all'ultimo protocollo d'intesa stipulato l'11 settembre 2002, sono sottoposte alla concertazione preventiva del tavolo tutte le proposte di legge concernenti la disciplina delle funzioni amministrative di competenza degli enti locali, il conferimento di funzioni e i criteri di attribuzione delle risorse agli enti locali. Gli enti locali possono quindi fruire di due distinti e successivi momenti di consultazione, l'intesa tra esecutivi (normalmente preceduta da un esame congiunto in sede tecnica) e il successivo parere del consiglio delle autonomie.

5.4. Gli effetti della consultazione. L'ultimo, rilevante profilo da affrontare riguarda gli effetti della consultazione delle autonomie: l'art. 116 non fornisce infatti alcuna indicazione circa la natura del parere, lasciando evidentemente al legislatore regionale la scelta relativa al grado di vincolatività. E' questo, evidentemente, il punto più delicato dell'estensione del modello attuale di concertazione tra le regioni ed il proprio sistema locale al procedimento per l'ottenimento di forme di autonomia speciale. Infatti, la legislazione toscana (come, del resto, tutte le altre leggi regionali) non attribuisce al parere degli enti locali un valore vincolante, né in sede di concertazione tra esecutivi (decorsi i termini previsti, la giunta adotta i provvedimenti anche in assenza dell'intesa, dandone comunicazione motivata ai presidenti delle associazioni degli enti locali ed al presidente del Cdal) né in sede di consultazione del Cdal (è sospesa, fino alla modifica dello statuto regionale, l'entrata in vigore dell'art. 14 della l.r. 36/00 nella parte in cui prevede l'obbligo di approvazione a maggioranza assoluta degli atti sui quali il Cdal abbia espresso parere negativo).

Una specificazione ed integrazione sul piano delle fonti regionali, ed in particolare da parte dello statuto regionale, sarebbe dunque certamente utile, e consentirebbe di modulare il livello di vincolatività del parere degli enti locali in relazione al maggiore o minore peso politico assunto dalla regione rispetto al proprio sistema locale. Tuttavia, come già osservato, anche in questo caso il rischio è quello di determinare una indebita sospensione norma costituzionale sino all'adeguamento degli statuti regionali che, peraltro è ancora lungi dall'essere completato (come è noto, nessuna regione ha ancora completato l'iter di approvazione di nuovi statuti a seguito dell'entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 1999).

Alla luce di queste considerazioni, l'unica soluzione praticabile per superare i limiti dell'attuale legislazione è quella di applicare il principio di leale cooperazione, coinvolgendo in maniera adeguata gli enti locali sin dalla fase di predisposizione del progetto, ed estendendo la consultazione anche ad eventuali leggi regionali che, in attuazione della legge statale di autonomia, disciplinino il riparto delle competenze tra la regione e gli enti locali.

Si consideri, comunque, che ove nella legge di riconoscimento dell'autonomia differenziata venisse inserita una "clausola di sospensiva", che colleghi l'entrata in vigore dei nuovi poteri regionali all'effettivo conferimento delle funzioni amministrative agli enti locali, le possibili obiezioni di centralismo regionale e di scarsa considerazione della volontà degli enti locali verrebbero, giocoforza, drasticamente ridotte.

Le soluzioni ora prospettate appaiono preferibili anche rispetto ad un'altra opzione, pure praticabile, ovvero quella di inserire direttamente nella legge statale di riconoscimento dell'autonomia la disciplina degli effetti del parere degli enti locali. Certamente, si tratterebbe di una via immediatamente percorribile per rafforzare il parere degli enti locali, ma avrebbe due inconvenienti: il primo, di ordine temporale, potendo riguardare solo la consultazione che venisse realizzata successivamente alla approvazione della stessa legge (cioè, quella concernente la legislazione regionale adottata in attuazione della legge speciale di autonomia); il secondo, di ordine più generale, in quanto dimostrerebbe che ciascuna legge di attribuzione di autonomia può disciplinare il relativo procedimento di attuazione, anche per gli aspetti di sicura competenza regionale.

In conclusione, per quanto concerne la fase dell'iniziativa regionale e della relativa consultazione degli enti locali, il progetto di legge concernente l'attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia potrebbe limitarsi a:

a) operare un espresso rinvio alle modalità di consultazione degli enti locali disciplinate dalla legislazione regionale vigente;

b) precisare che l'oggetto della consultazione si estende alle leggi ed altri atti normativi regionali che provvedano all'attuazione della legge statale di conferimento delle forme e condizioni particolari di autonomia, con particolare riferimento alla disciplina delle funzioni amministrative delle autonomie locali ed alla individuazione e trasferimento delle relative risorse strumentali, umane e finanziarie, ivi compresa l'eventuale disciplina regionale del personale;

c) precisare che, in ogni caso, l'entrata in vigore delle nuove potestà regionali è subordinata al completamento del quadro normativo concernente l'allocazione delle competenze agli enti locali ed al trasferimento delle relative risorse.



Note

[1] A questo proposito, si può immaginare che la regione, prima di promuovere le azioni per far rilevare l'inerzia del centro, acquisisca un parere da parte di un organismo paritetico, da essa stessa istituito, in cui siano presenti gli altri soggetti portatori di interessi coinvolti dalle iniziative che la regione intende esercitare e rispetto alle quali "serve" l'azione (mancante) del centro (in questo senso, tale organo può anche essere individuato nella commissione paritetica di cui all'art. 150 d.lg. 112/1998).

[2] Nn. 28 e 187 del 1996, in Giur. cost., 1996, 267 e 1728.

[3] N. 60 del 1993, massima 19176.

[4] Ad es., n. 348 del 1997, in Giur. cost., 1997, 3430. Sulla posizione della Corte cfr., fra le pronunce più recenti, le nn. 120 del 1997; 28, 85 e 187 del 1996; 60 e 375 del 1993.

[5] Sul punto C.E. Paliero - A. Travi, Sanzioni amministrative, in Enc. dir., 1989, vol. XLI, 379; M.A. Sandulli, (Sanzione. IV) Sanzioni amministrative, in Enc. giur., 1992, vol. XXXVII, 8.

[6] Cfr. C.E. Paliero - A. Travi. op. cit., 375 ss., diversamente però M.A. Sandulli, op. cit., 7 s.

[7] Il presente paragrafo è stato redatto con la collaborazione di Claudia Tubertini.

[8] Come viene definita da G. Falcon, Il nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, in Le regioni, 2001, 11.

[9] Il dibattito sulla portata e sugli effetti dell'art. 116 comma 3 conta ormai numerosi interventi, che non è possibile, in questa sede, indicare in via esaustiva. Per una ricostruzione analitica della norma ed una panoramica delle posizioni della dottrina si veda M. Cecchetti, Attuazione della riforma costituzionale del Titolo V e differenziazione delle regioni di diritto comune, in Osservatorio sul federalismo.

[10] Sulla particolare lacunosità della disciplina dell'art. 116, specie in riferimento alla fase di consultazione degli enti locali, insiste F. Pizzetti, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico esploso, in Le regioni, 2001, 1164.

[11] Sottolinea la funzione di garanzia delle due condizioni a cui è sottoposta l'iniziativa volta ad ottenere la speciale autonomia G. D'Ignazio, Asimmetrie e differenziazioni regionali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Il "nuovo" ordinamento regionale, a cura di S. Gambino, Milano, 2003, 269.

[12] Anche sugli organismi di concertazione regione - autonomie locali esiste una vasta letteratura. Si vedano, in particolare, i numerosi contributi contenuti in Il ruolo delle assemblee elettive, a cura di M. Carli, Torino, 2001, vol. III, I rapporti tra regione, enti locali e società civile nei nuovi statuti regionali, spec. la parte prima (Gli organismi di raccordo tra regioni ed enti locali).

 


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