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Alienazione e utilizzazione del demanio storico-artistico
nel d.p.r. 283/2000: una prima lettura
(Lecce, 2 dicembre 2000)

 

Alienazione dei beni immobili culturali di proprietà pubblica

di Roberta Colonna Dahlman


Con d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, nel quadro dei processi di dismissione e valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato e delle altre amministrazioni territoriali, è stato emanato il nuovo regolamento recante disciplina delle alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico [1], fattispecie per la quale si sancisce un divieto generale salva autorizzazione, da rilasciarsi a cura del ministero per i Beni e le Attività culturali, nei limiti e con le modalità stabiliti dal regolamento stesso [2].

Sul piano della politica culturale, si può certamente affermare che il regime autorizzatorio introdotto e disciplinato dal regolamento sull'alienazione corrisponda sostanzialmente ad un concetto di tutela attiva nella gestione del patrimonio culturale. Le alienazioni aventi ad oggetto beni del demanio storico e artistico non rispondono soltanto ad una mera logica di cassa, ma sono destinate ad assumere un ruolo centrale nella conservazione e nella valorizzazione dei beni culturali: esse diventano giuridicamente possibili purché rappresentino la scelta migliore anche per la conservazione dei beni ed un uso conforme alla loro finalizzazione culturale [3]. Ciò emerge chiaramente dalle prescrizioni relative, da un lato, al contenuto della richiesta di autorizzazione ad alienare da parte dell'ente proprietario (art. 7 del regolamento, e, dall'altro, al contenuto dell'autorizzazione (art. 10). Infatti, sembra che il legislatore abbia inteso riconoscere la possibilità giuridica dell'alienazione di beni culturali facenti parte del demanio storico-artistico [4] non solo purché (a condizione che), ma anche affinché (con lo scopo di) ne sia garantita la conservazione, l'integrità e la fruizione pubblica ovvero la compatibilità della destinazione d'uso con il loro carattere storico e artistico [5]. Quest'ultimo riferimento, esplicito e costante, alla compatibilità della destinazione d'uso dei beni in questione con il loro carattere storico e artistico offre alla riflessione giuridica uno spunto particolarmente degno di attenzione: al divieto di usi incompatibili [6], espressione di una tutela negativa, avente ad oggetto la negazione di determinate attività, si aggiunge e si sovrappone una vera e propria garanzia di usi compatibili, manifestazione di una tutela attiva tendente non solo a limitare l'esercizio di certe attività, ma anche a promuovere lo svolgimento di altre [7].

Questo passaggio può incidere profondamente sulla teoria del diritto dei beni culturali, perché, da un lato, si assume che ogni proprietario-acquirente di un bene facente parte del demanio storico-artistico sia tenuto a garantire la compatibilità della destinazione d'uso del bene stesso con la sua natura culturale, e, dall'altro lato, diventa sempre più familiare una concezione dinamica del bene culturale e della protezione ad esso apprestata: in quanto bene utilizzabile in un certo modo e tutelabile anche attraverso la sua stessa destinazione naturale ad un uso compatibile con il suo carattere storico-artistico.

Sul piano della produzione legislativa, il regolamento sull'alienazione è stato emanato in attuazione di quanto previsto dalla legge 23 dicembre 1998, n. 448 (legge finanziaria 1999), il cui art. 32) confermava il regime autorizzatorio prescritto dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089 [8], demandando alla fonte regolamentare la potestà di prevedere le ipotesi in cui sarebbe consentita l'autorizzazione ad alienare beni culturali [9] di proprietà pubblica [10], nell'osservanza dei criteri stabiliti dal legislatore: ciò a conclusione di un complesso percorso normativo, in cui prima l'art. 12 della legge 15 maggio 1997, n. 127 [11] (c.d. Bassanini-bis), aveva previsto, ai commi 3 e 4, l'applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 24 e seguenti della l. 1089/1939 alle alienazioni di beni immobili di interesse storico e artistico dello Stato, dei comuni e delle province (nonché, si deve ritenere, delle regioni); e poi l'articolo 2, comma 24, della legge 16 giugno 1998, n. 191 [12] (c.d. Bassanini-ter), aveva espressamente abrogato detti commi, senza peraltro che nell'effetto abrogativo si potesse ritenere coinvolto il regime autorizzatorio di alienazione.

Il regolamento sull'alienazione rappresenta sostanzialmente la più recente conferma di quanto originariamente stabilito dalla legge speciale 1089/1939, che per i beni culturali appartenenti allo Stato (o ad altro ente o istituto pubblico) prevedeva un regime di inalienabilità salva, per l'autorità amministrativa competente nella funzione di tutela, la possibilità "condizionata" di autorizzare l'alienazione. L'art. 23 disponeva che "Le cose indicate negli artt. 1 e 2 sono inalienabili quando appartengono allo Stato e ad altro ente o istituto pubblico" [13], e il successivo art. 24 stabiliva, in capo al ministro per l'Educazione [14], sentito il Consiglio nazionale dell'educazione, delle scienze e delle arti [15], la facoltà di autorizzare "l'alienazione di cose di antichità e d'arte, di proprietà dello Stato o di altri enti o istituti pubblici, purché non ne derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento...". A tale ipotesi trovavano applicazione le norme di cui agli artt. 45 ss. del regolamento di esecuzione, r.d. 363/1913.

Nello stesso tempo, il nuovo regolamento sull'alienazione sembra porsi in esplicito contrasto con quanto sancito dal d.lg. 490/1999, che, dopo aver previsto all'art. 54 l'assoggettamento del demanio storico, artistico, archivistico e bibliografico al regime proprio del demanio pubblico, prescrive, nel successivo articolo 55, l'autorizzazione del ministero per le alienazioni aventi ad oggetto beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni, alle province e ai comuni "che non facciano parte del demanio storico e artistico", escludendola così implicitamente per quelli che invece ne facciano parte a norma dell'articolo precedente (art. 55 d.lg. 490/1999).

Il regime introdotto dal regolamento sull'alienazione, invece, esclude l'inalienabilità assoluta tradizionalmente connessa alla natura demaniale dei beni in questione, mentre la prevede soltanto ed espressamente per determinati beni [16]: in tutti gli altri casi, l'alienazione è consentita se preceduta da autorizzazione ministeriale.

Questo contrasto, in realtà, descrive una situazione normativa essenzialmente controversa, che vorrebbe fondarsi su un problema giuridico che è plausibile considerare inesistente: quello della incompatibilità tra il regime autorizzatorio delle alienazioni aventi ad oggetto beni immobili culturali di proprietà pubblica, ed il regime della demanialità a cui questi beni sono sottoposti. Infatti, se da un lato sembra che il legislatore delegato, nel combinato disposto degli articoli 54 e 55 del nuovo Testo Unico, abbia inteso riproporre una distinzione che traduce normativamente questa ritenuta incompatibilità [17], considerandosi il carattere della demanialità sintomatico di assoluta inalienabilità, dall'altro lato, il regolamento sull'alienazione intende disciplinare proprio la fattispecie dell'alienazione autorizzata dei beni facenti parte del demanio storico e artistico.

Il problema, si ripete, deve ritenersi fittizio.

La questione della incompatibilità fra regime autorizzatorio di alienazione e regime della demanialità è da ricondursi alla configurazione del rapporto tra l'articolo 24 della l. 1089/1939 e l'art. 822, comma 2, del codice civile [18]. Il legislatore del 1942, introducendo nell'ordinamento giuridico italiano il concetto di demanio pubblico, ha sancito l'appartenenza a quest'ultimo degli "immobili riconosciuti d'interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia" e delle "raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche", se di proprietà dello Stato o, bisogna aggiungere, di altro ente pubblico territoriale [19] (c.d. demanio accidentale).

Questa norma ha dato luogo a due posizioni, a seconda che si ritenga che essa abbia implicitamente abrogato il regime preesistente ex lege 1089/1939, o piuttosto, come è più plausibile, che abbia contribuito ad integrare la disciplina della legge speciale di tutela. In altri termini, il regime della demanialità non esclude la possibilità giuridica dell'alienazione.

Innanzitutto, il testo dell'art. 823 cod. civ., per cui i beni che fanno parte del demanio pubblico non possono essere alienati "se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano" [20], non sembra escludere la possibilità di sottoporre i beni demaniali a procedure di alienazione, purché però tale eventualità sia accompagnata dal rinvio alle modalità e ai limiti prescritti dalle rispettive discipline speciali [21].

La teoria, di elaborazione giurisprudenziale, della c.d. "tacita sdemanializzazione" per atti o fatti concludenti della pubblica amministrazione [22] (salva l'eccezione espressamente prevista dal legislatore per i beni compresi nel demanio marittimo [23]), sembra invero deporre in senso contrario, perché se da un lato i giudici hanno ammesso la possibilità di alienare beni demaniali [24], dall'altro lato, questa possibilità è sempre stata subordinata o collegata alla condizione che i beni da alienare non fossero più beni demaniali (che essi fossero appunto sdemanializzati). La Corte Suprema ha riferito tale ipotesi soprattutto ai beni del demanio accidentale [25]: infatti, "Quando non si tratta di beni del demanio necessario, la demanialità non è una qualifica attribuita ad un bene in funzione del titolo di acquisto o della volontà inattuata di una determinata destinazione demaniale o del modo di atteggiarsi del potere di disposizione, ma una qualifica che attiene alla destinazione concreta del bene ed alla sua caratterizzazione funzionale secondo taluna delle varie destinazioni ad uso pubblico previste dalla legge per ciascuna delle categorie dei beni demaniali..." [26].

D'altro canto, però, può ritenersi che la peculiarità dei beni culturali, fra quelli facenti parte del demanio accidentale, sia tale da giustificare una diversa configurazione della loro demanialità, che non escluda la possibilità dell'alienazione prevista dalla legge speciale di tutela. In questo senso si dovrebbe affermare che il regime della demanialità introdotto dal legislatore del 1942 non possa considerarsi abrogativo rispetto a quello speciale della precedente l. 1089/1939. Infatti, tra i beni appartenenti al demanio accidentale, quella degli immobili riconosciuti d'interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia (nonché delle raccolte dei musei, della pinacoteche, degli archivi e delle biblioteche) rappresenta una categoria del tutto particolare: perché del tutto particolare è il modo in cui essi rispondono al pubblico interesse rispetto al quale sono funzionali. A differenza dei primi, essi sono idonei ad assolvere la propria funzione pubblicistica (per cui essi sono beni pubblici in senso oggettivo [27]) anche prescindendo dalla concreta destinazione all'uso pubblico (per cui essi fanno parte del demanio accidentale): essi portano in se medesimi l'interesse di natura pubblicistica [28], in quanto costituiscono "testimonianza materiale avente valore di civiltà" [29] e non in quanto addetti all'uso materiale da parte della collettività [30]. Così, ritenere che tali beni siano sottoposti al regime della demanialità accidentale, con esclusione della disciplina speciale, avrebbe l'effetto di omogeneizzare situazioni non comparabili, trascurando le peculiarità proprie dei beni appartenenti al nostro patrimonio culturale e abbassando il relativo livello di tutela giuridica.

Piuttosto, deve ritenersi che la sopravvenuta normativa ex artt. 822 ss. del codice civile non sia incompatibile rispetto alla disciplina speciale dettata dagli artt. 23 ss. della l. 1089/1939, ma ne rappresenti un'integrazione, un rafforzamento: con la conseguenza che il regime della demanialità (accidentale) - cui sono sottoposti i beni in questione - non esclude la possibilità giuridica dell'alienazione.

Infine, e concludendo, una ineccepibile riflessione di teoria generale consente di escludere la supposta abrogazione della disciplina ex lege 1089/1939. L'abrogazione è un istituto giuridico che manifesta l'adozione del criterio cronologico nella risoluzione delle eventuali antinomie nell'ordinamento giuridico [31]: esso si fonda sulla presunzione del carattere dinamico dell'ordinamento giuridico positivo, che non può ridursi ad un complesso statico di norme eterne ed immutabili fissato una volta per sempre (come il sistema del diritto naturale) [32], ma è invece un organismo in continuo divenire che, attraverso le sue fonti, produce sempre nuove norme in corrispondenza al mutamento delle esigenze sociali [33], presuppone teoricamente la completezza dell'ordinamento giuridico, e risponde all'esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici. In base al criterio cronologico espresso dal fenomeno abrogativo [34], a parità di rango, nella gerarchia delle fonti, prevale la norma successiva (giacché si presume che essa sia stata posta per aderire alle necessità emergenti del versante sociale): lex posterior derogat anteriori.

Nel nostro caso, però, ammesso che si sia in presenza di antinomia, vale a dire di discipline incompatibili [35], si dovrebbe invocare non il rimedio cronologico (che sancirebbe senz'altro l'abrogazione della normativa preesistente, trattandosi nell'uno e nell'altro caso di legge ordinaria), ma quello della specialità, in base al quale la legge speciale, anche se cronologicamente precedente, può derogare a quella generale, anche se successiva: lex specialis etiamsi prior derogat generali etiamsi posteriori; lex posterior generalis non derogat priori speciali [36]. E' innegabile, infatti, il carattere di specialità della disciplina di tutela ex lege 1089/1939, rispetto al regime prescritto dal codice civile genericamente per tutti i beni demaniali [37].



Note

[1] Il regolamento (che d'ora in poi chiameremo "regolamento sull'alienazione") è stato approvato, in via definitiva, con deliberazione del Consiglio dei ministri adottata nella riunione del 4 agosto 2000, in un testo che si compone di 24 articoli, divisi in cinque capi. Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 240 del 13 ottobre 2000, è in vigore dal 28 ottobre 2000.

[2] In questo senso, l'articolo 1 del d.p.r. 283/2000 ("Alienazione degli immobili del demanio artistico e storico"), che riproduce la formulazione dell'articolo 823 del codice civile ("Condizione giuridica del demanio pubblico"). E il successivo articolo 6, nel Capo II disciplinante le alienazioni del demanio regionale, comunale, provinciale, prevede che, fermi restando i casi di inalienabilità assoluta di cui all'articolo 2 (v. infra, nota 22), l'alienazione dei beni inseriti negli elenchi di cui al precedente articolo 3 è soggetta ad autorizzazione. Gli articoli da 7 a 10 (Sezione II del Capo II) descrivono il regime dell'autorizzazione: vale a dire i limiti e le modalità cui fa riferimento l'articolo 1, e con cui diventa giuridicamente possibile rimuovere l'ostacolo rappresentato dal divieto di alienazione enunciato dallo stesso articolo. Quanto all'alienazione del demanio storico-artistico dello Stato (Capo IV), l'articolo 19, comma 4, rinvia espressamente alla disciplina dettata dalle disposizioni contenute nel Capo I, nel Capo II, Sezione II e III, e nel Capo III.

[3] E' quanto dichiarato dal ministro per i Beni e le Attività culturali, Giovanna Melandri, nel commentare l'approvazione preliminare del regolamento, in occasione della riunione del Consiglio dei ministri del 28 gennaio 2000.

[4] Possibilità non del tutto incontroversa, se si pensa che il combinato disposto degli articoli 54 e 55 del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali (decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490) sembra escluderla espressamente: su questo punto v. infra.

[5] Tutto questo, nel quadro di una politica di tutela dei beni culturali che riconosce e tende a valorizzare l'apporto dei privati nella salvaguardia del patrimonio storico e artistico.

[6] Secondo le prescrizioni sancite dall'articolo 51, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363 (Regolamento di esecuzione delle leggi 20 giugno 1909, n. 364, e 23 giugno 1912, n. 688, per le antichità e le belle arti: bisogna ricordare che questo regolamento ha conservato vigenza in quanto, non essendo state emanate norme regolamentari per l'esecuzione della legge 1 giugno 1939, n. 1089, ha trovato applicazione l'art. 73 di quest'ultima, per cui "Fino a quando non entrerà in vigore il regolamento da emanarsi per la esecuzione della presente legge, varranno, in quanto siano applicabili, le norme del regolamento approvato con regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363". E ancora oggi, a norma dell'art. 12, comma 2, del nuovo Testo Unico, "Fino all'emanazione del regolamento previsto al comma 1 restano in vigore, in quanto applicabili, le disposizioni dei regolamenti approvati con regi decreti 2 ottobre 1911, n. 1163 e 30 gennaio 1913, n. 363 e ogni altra disposizione regolamentare attinente alle norme contenute in questo Titolo") in cui si legge, con riferimento ai beni immobili appartenenti alle amministrazioni governative e agli enti morali: "E' in ogni caso vietato adibirli ad usi non rispondenti alla dignità dei monumenti ovvero pericolosi per la loro conservazione e integrità..."; dagli articoli 11, comma 2, e 12, comma 1, della l. 1089/1939 (Tutela delle cose d'interesse artistico e storico), in cui si stabilisce rispettivamente: che le cose d'interesse artistico e storico, appartenenti alle province, ai comuni, agli enti e istituti legalmente riconosciuti, "non possono essere adibite ad usi non compatibili con il loro carattere storico od artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione o integrità", e che questa disposizione si applica "anche alle cose di proprietà privata notificate ai sensi degli artt. 2, 3 e 5 della presente legge"; infine, dall'articolo 21, comma 2, del d.lg. 490/1999, a norma del quale i beni culturali (in generale, senza distinzione di appartenenza) "non possono essere adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico od artistico oppure tali da creare pregiudizio alla loro conservazione o integrità."

[7] Così, significativamente, l'articolo 7 del regolamento prevede che la richiesta di autorizzazione ad alienare contenga un vero e proprio "programma di attività", che descriva gli obiettivi di tutela e valorizzazione conseguibili con l'alienazione, ed in particolare: a) misure di conservazione; b) destinazione d'uso del bene; c) modalità di pubblica fruizione del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso; d) tempi di realizzazione. Né l'autorizzazione può essere rilasciata, a norma dell'articolo 10, qualora l'alienazione pregiudichi la conservazione, l'integrità e la fruizione pubblica del bene ovvero non sia garantita la compatibilità della destinazione d'uso del bene con il suo carattere storico od artistico. La mancata realizzazione del programma di cui all'articolo 7 nel termine indicato nell'atto di autorizzazione costituisce uso del bene incompatibile con il suo carattere storico-artistico (art. 10, comma 8).

[8] V. infra.

[9] Bisogna ricordare che la locuzione "beni culturali", sorta nel 1954 in ambito internazionale (Convenzione dell'Aja "per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato") e introdotta in Italia dalla Commissione Franceschini, a cui si deve la definizione del bene culturale quale bene che "costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà", è stata utilizzata per la prima volta dal legislatore italiano nel decreto legge 14 dicembre 1974, n. 657, convertito nella legge 29 gennaio 1975, n. 5, istitutiva del ministero per i Beni culturali e ambientali. L'affermazione di tale terminologia esprime, da un lato, la tendenza alla considerazione il più possibile unitaria della materia e, dall'altro, il definitivo abbandono della concezione estetizzante su cui si fondano le due leggi del 1939 (la l. 1089, dedicata alle "cose di interesse artistico o storico", alle "cose d'arte" o "antichità e belle arti", e la l. 1497, che parla di "bellezze naturali").

[10] Questa locuzione descrive lo status dei beni appartenenti allo Stato o ad altro ente pubblico. Essa non compare nel testo del codice civile, mentre si rinviene nella carta costituzionale che, all'art. 42, comma 1, solennemente proclama che "La proprietà è pubblica o privata" e che "I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati": cfr. M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, 1 ss.

[11] Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo.

[12] Modifiche ed integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n. 59, e 15 maggio 1997, n. 127, nonché norme in materia di formazione del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica.

[13] Art. 1, l. 1089/1939: "Sono soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi:
a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà;
b) le cose d'interesse numismatico;
c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e di pregio.
Vi sono pure compresi le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico.
Non sono soggette alla disciplina della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni".

Art. 2, l. 1089/1939: "Sono altresì sottoposte alla presente legge le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, siano state riconosciute di interesse particolarmente importante e come tali abbiano formato oggetto di notificazione, in forma amministrativa, del ministero per l'Educazione nazionale...".

[14] Oggi "ministro per i Beni e le Attività culturali", secondo quanto previsto dal decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368, istitutivo del ministero per i Beni e le Attività culturali, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. legge Bassanini 1).

[15] Il Consiglio nazionale della educazione, delle scienze e delle arti fu soppresso dall'art. 11 del decreto legge 272/1944.

[16] Art. 2, comma 1, del regolamento. L'alienabilità è altresì esclusa, a norma dell'articolo 6, comma 2, per gli immobili del demanio artistico e storico delle regioni, delle province e dei comuni non inseriti negli elenchi di cui all'articolo 3, comma 1 (così l'inserimento negli elenchi di cui all'articolo 5 del Testo Unico - vecchio art. 4 della l. 1089/1939 - cessa di avere soltanto una funzione meramente descrittiva e diventa condizione essenziale di alienabilità).

[17] Vale a dire la distinzione, nell'ambito dei beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni, alle province, ai comuni, tra beni facenti parte del demanio storico, artistico, archivistico e bibliografico, ai sensi dell'articolo 822 del codice civile (beni considerati inalienabili, in quanto assoggettati al regime proprio del demanio pubblico), e beni non facenti parte del demanio storico e artistico (nonché archivistico e bibliografico, anche se l'articolo 55 manca di usare la formulazione completa), considerati alienabili dietro autorizzazione (subordinata alla triplice condizione che essi non abbiano interesse per le raccolte pubbliche e che dall'alienazione non derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento).

[18] Approvato con regio decreto 16 marzo 1942, n. 262.

[19] Secondo le previsioni dell'art. 824 cod. civ. per quanto riguarda i beni delle province e dei comuni, e dell'art. 11, comma 3, della legge 16 maggio 1970, n. 281 (c.d. legge finanziaria regionale), sulla base dell'art. 119, comma 4, Cost., per quanto riguarda il demanio regionale.

[20] Lettura confermata dalla giurisprudenza: cfr. Cass., sez. un., 13 maggio 1963, n. 1177: "L'art. 823 cod. civ., stabilendo che i beni demaniali sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano, ed affidando, nel capoverso, alla sola autorità amministrativa la tutela dei beni stessi e la polizia demaniale, detta norme che sono rivolte solo alla stessa amministrazione pubblica (norme di azione), vincolandola nell'interesse generale e non nell'interesse dei singoli privati cittadini i quali, perciò, di fronte alla legittimità e regolarità del procedimento di sdemanializzazione ed alienazione dei beni demaniali non hanno una posizione di diritto soggettivo".

[21] E' infatti alla formulazione dell'articolo 823 cod. civ. che l'articolo 1 del regolamento sull'alienazione fa rinvio.

[22] Con questa teoria, la giurisprudenza civile costante ha inteso evidenziare la natura meramente dichiarativa dell'atto formale di "sclassificazione" o "declassificazione" dei beni demaniali previsto dall'art. 829 cod. civ. ("Il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato dev'essere dichiarato dall'autorità amministrativa. Dell'atto deve essere dato annunzio nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
Per quanto riguarda i beni delle province e dei comuni, il provvedimento che dichiara il passaggio al patrimonio deve essere pubblicato nei modi stabiliti per i regolamenti comunali e provinciali").

[23] Art. 28 cod. nav. (Beni del demanio marittimo): "Fanno parte del demanio marittimo (822 cod. civ.):
a) il lido, la spiaggia, i porti, le rade;
b) le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno comunicano liberamente col mare;
c) i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo".

Art. 35 cod. nav. (Esclusione di zone dal demanio marittimo): "Le zone demaniali che dal capo del compartimento non siano ritenute utilizzabili per pubblici usi del mare sono escluse dal demanio marittimo con decreto del ministro per le comunicazioni (ora ministro per la Marina mercantile) di concerto con quello per le Finanze". Cfr. Cass., sez. II, 14 marzo 1985, n. 1987, in Giust. civ. mass., 1985, fasc. 3: "Per i beni del demanio marittimo dello stato (area portuale), la cosiddetta sdemanializzazione non può avvenire tacitamente, ma richiede, a norma dell'art. 35 del codice della navigazione, un espresso e formale provvedimento dell'autorità amministrativa (decreto del ministero della Marina mercantile di concerto con quello delle Finanze), con la conseguenza che, in difetto di tale provvedimento, deve ritenersi nulla, per impossibilità dell'oggetto, la vendita di detti beni effettuata al privato".

[24] Cass., sez. II, 15 maggio 1962, n. 1045: "La sdemanializzazione di una strada (nella specie, comunale) può verificarsi senza l'adempimento delle formalità previste dalla legge sui lavori pubblici (l. 2248/1865), quando risultino atti univoci concludenti e positivi della pubblica amministrazione incompatibili con la volontà di conservare la destinazione di quel bene all'uso pubblico". Così anche: Cass., sez. II, 8 settembre 1966, n. 2354 ("...La cessazione della demanialità, pur non potendo avvenire per non uso del bene demaniale, può avvenire però, oltre che per atto formale, anche per fatti concludenti e positivi della pubblica amministrazione, che presuppongano la soppressione della destinazione ad uso pubblico"); Cass., sez. II, 4 marzo 1968, n. 697 ("La sdemanializzazione di una strada può anche verificarsi senza l'adempimento delle formalità previste dalle leggi, ma occorre che essa risulti da atti univoci, concludenti e positivi della pubblica amministrazione, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico. Né il disuso da tempo immemorabile o l'inerzia della pubblica amministrazione possono essere invocati come elementi indiziari dell'intendimento di fare cessare la destinazione, anche potenziale, del bene demaniale all'uso pubblico, poiché a dare di ciò la prova necessita pur sempre che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative che non sia possibile formulare altra ipotesi se non quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo"); Cass., sez. II, 18 marzo 1981, n. 1603, in Giust. civ. mass., 1981, fasc. 3; Cass., sez. I, 20 aprile 1985, n. 2610, in Giur. it., 1986, I, 1, 897; Cass., sez. I, 4 marzo 1993, n. 2635, Giust. civ. mass., 1993, 429; Cass., sez. II, 17 marzo 1995, n. 3117, in Giust. civ. mass., 1995, 635; Cass., sez. II, 26 febbraio 1996, n. 1480, in Giust. civ. mass., 1996, 254; Cass., sez. II, 3 maggio 1996, n. 4089, in Giur. it., 1997, I, 1, 918. In tema di usucapibilità per sdemanializzazione v.: Cass., sez. II, 12 novembre 1979, n. 5835 ("Un bene demaniale non è, per sua natura, suscettibile di usucapione, salva la sdemanializzazione del medesimo, la quale può essere anche tacita e risultare cioè, nonostante la mancanza di un formale atto pubblico di sclassificazione, da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservarne la destinazione all'uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere inconcepibile un'ipotesi diversa da quella che la pubblica amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo..."); Cass., sez. II, 22 aprile 1994, n. 4811; Cass., sez. II, 12 aprile 1996, n. 3451, in Giust. civ. mass., 1996, 555.

Analogo orientamento è stato espresso dalla giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, IV, 16 marzo 1987, n. 155, in Foro amm., 1987, 450 ("La cessazione della qualità di bene demaniale di un immobile di proprietà pubblica (nella specie un compendio immobiliare aeroportuale) non può desumersi implicitamente dalla semplice circostanza che il bene medesimo non sia più adibito, anche da lungo tempo, all'uso pubblico, essendo invece necessario, in proposito, che la situazione di fatto si prospetti in modo tale da impedire per il futuro la reviviscenza dell'uso stesso, unitamente ad un comportamento dell'amministrazione assegnataria che possa univocamente interpretarsi come definitivo disinteresse alla conservazione della destinazione del bene in questione"); Cons. Stato, 27 febbraio 1991, n. 27, in Cons. St., 1991, I, 5 ("La cessazione tacita della patrimonialità indisponibile, così come della demanialità, postula che il bene abbia subito un'immutazione irreversibile tale da non renderlo più idoneo a servire all'uso della collettività, ed a tal fine non è sufficiente la semplice circostanza obbiettiva della sospensione anche per lunghissimo tempo dell'uso pubblico"); Cons. Stato, V, 17 marzo 1998, n. 287, in Foro amm., 1987 ("La sdemanializzazione di un bene può derivare, oltre che dall'emanazione di un provvedimento formale di cessazione della demanialità, da atti univoci della pubblica amministrazione, anche da comportamenti incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene al suo uso pubblico, atteso che l'art. 829 cod. civ. ha natura meramente dichiarativa e che le prescrizioni contenute in tale norma si limitano ad imporre un mero dovere giuridico all'amministrazione, nell'interesse della certezza delle situazioni giuridiche, e non possono essere interpretate nel senso di accordare prevalenza ad un elemento di carattere puramente formale su quelli che sono gli effettivi elementi costitutivi della demanialità").

[25] V.: Cass., sez. II, 13 febbraio 1967, n. 2566 ("Ad eccezione dei beni del demanio marittimo - i quali, ai sensi dell'art. 35 cod. nav., possono essere sdemanializzati soltanto con decreto del ministro della Marina mercantile di concerto con quello delle Finanze - per gli altri beni del demanio accidentale la demanialità cessa con il venir meno della destinazione all'uso pubblico, indipendentemente da un atto espresso dell'amministrazione. L'atto di sclassificazione - come risulta dalla stessa letterale formulazione dell'art. 829 cod. civ. - ha un'efficacia meramente dichiarativa, nell'interesse della certezza delle situazioni giuridiche. Di qui l'ammissibilità nell'ordinamento vigente della c.d. sdemanializzazione tacita, la quale, però, deve risultare da atti univoci e concludenti dell'amministrazione, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico").

[26] Cass., sez. II, 20 ottobre 1997, n. 10253, in Dir. eccl., 1998, 16. Si può ricordare come la giurisprudenza costante in tema di "sdemanializzazione tacita" abbia già da tempo indicato la strada per evidenziare, a livello dottrinale, le incongruenze della distinzione voluta dal legislatore del 1942 tra beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili: in questo senso, M.S. Giannini, I beni pubblici, cit., 29.

[27] Sulla distinzione teorica tra beni pubblici in senso soggettivo e in senso oggettivo, v. M.S. Giannini, I beni pubblici, cit., 9 ss.

[28] Su questo punto v., per tutti, M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl. 1/1976: in questo noto contributo alla teoria giuridica dei beni culturali, Giannini non ha esitato ad affermare che tali beni sono pubblici non nel senso dell'appartenenza, ma della fruizione; e ciò che giuridicamente interessa è la fruibilità universale, non la fruizione effettiva.

[29] Secondo la nota definizione della Commissione Franceschini (su cui v. supra nota 12).

[30] In questi termini, cfr. L. Piscitelli, I beni culturali di proprietà pubblica, in G. Cofrancesco (a cura di), I beni culturali tra interessi pubblici e privati, Roma, 1996, 68: "...i beni culturali sono pubblici per struttura e non per destinazione. Sono infatti soggetti al regime della proprietà pubblica in quanto beni culturali e non in quanto in concreto ed individualmente destinati ad una funzione pubblica...".

[31] Sul fondamento teorico dell'abrogazione e sull'incidenza dell'effetto abrogativo, v. A. franco, I problemi della coerenza e della completezza dell'ordinamento, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto. La teoria del diritto oggettivo, Torino, 1994, 161 ss.

[32] H. Kelsen, La dottrina del diritto naturale ed il positivismo giuridico, appendice in Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1994, 405 ss.

[33] A. Franco, op. cit., 162.

[34] Ai sensi dell'art. 15 prel.: "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore".

[35] Ipotesi che sembra da escludere date le precedenti argomentazioni.

[36] A. Franco, op. cit., 179 ss.

[37] In questo senso, vedi, di recente, A. Fiale, La commerciabilità dei beni culturali, in N. Assini - P. Francalacci (a cura di), Manuale dei beni culturali, Padova, 2000, 424: l'autore rinvia ad una pronuncia del Consiglio di Stato (sez. VI, 7 maggio 1988, n. 568, in Foro amm., 1988, I, 3688) per cui "gli artt. 822, 823 e 824 del codice civile stabiliscono l'inalienabilità dei beni immobili d'interesse storico o artistico appartenenti a enti pubblici territoriali rinviando alla disciplina speciale. Pertanto è tuttora in vigore l'art. 24 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, il quale consente il trasferimento di tali beni a privati, purché, a giudizio del ministro per i Beni culturali e ambientali, non ne derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento". Così anche L. Piscitelli, I beni culturali di proprietà pubblica, cit., 64.

 



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