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"Vengan denari...". Risorse, criteri e meccanismi
per il finanziamento dello spettacolo dal vivo

di Michele Trimarchi


Sommario: Introduzione. - 2. Le risorse finanziarie per la cultura e lo spettacolo. - 3. Un’analisi critica delle relazioni tra Stato e mercato. - 4. Verso un assetto negoziale del sostegno pubblico.



1. Introduzione

Che le attività culturali siano meritevoli del sostegno finanziario pubblico è un punto sul quale converge un ampio consenso. Gli economisti della cultura hanno dedicato più di uno sforzo al tema, cercando di articolare un ventaglio quanto più ricco possibile di giustificazioni teoricamente coerenti, ma a ben guardare le comunità - sia nazionali che locali - concordano sulla capacità della produzione artistica e culturale di contribuire al perseguimento di fini sociali.

Va osservato, tuttavia, che il problema del finanziamento pubblico delle attività culturali viene spesso visto da due prospettive opposte, che appaiono entrambe piuttosto semplicistiche rispetto alla sua complessità; da una parte, infatti, si tende ad alimentare un ecumenico scetticismo nei confronti dell’utilità stessa del sostegno pubblico, interpretato in quest’ottica come il foraggio per un club privilegiato di operatori; dall’altra, al contrario, si mettono a fuoco i limiti che deriverebbero alla produzione culturale dall’esiguità dei fondi pubblici ad essa destinati.

Pur non apparendo del tutto prive di fondamento, queste letture del finanziamento pubblico delle attività culturali finiscono per porre l’accento su problemi certo importanti ma non determinanti nella definizione e nella sintonizzazione del rapporto tra le risorse pubbliche destinate alla cultura e gli obiettivi collettivi che la produzione culturale contribuisce a perseguire. Abbiamo assistito, di recente, a campagne elettorali locali basate sul taglio dei "privilegi" delle istituzioni teatrali, ma anche - sul piano opposto - a soddisfatti proclami sull’aumento dei fondi pubblici per la produzione culturale.

 

2. Le risorse finanziarie per la cultura e lo spettacolo

Chiedersi se in Italia il governo centrale e quelli locali spendano poco o molto per la cultura equivale a porre scorrettamente la questione. Potrebbe risultare molto più interessante investigare sui meccanismi effettivi del finanziamento pubblico, sul "come" piuttosto che sul "quanto", in modo da evidenziare i criteri e i meccanismi di un sostegno che, proprio perché cruciale e condiviso, dovrebbe preoccuparsi in massimo grado della propria efficacia.

Si tratta di una questione tutt’altro che trascurabile, proprio alla luce delle recenti trasformazioni istituzionali che hanno toccato il governo della cultura e che si presentano come l’avanguardia di una fiumana di cambiamenti più o meni radicali, più o meno rilevanti, ma che nel complesso condurranno a una modifica sostanziale dell’intera geografia del sostegno pubblico delle attività culturali.

Un lucido esame della questione appare ancora più delicato e importante se si considera che alcune di queste trasformazioni rischiano di ridursi a operazioni di maquillage istituzionale, come a suo tempo fu l’abolizione del ministero per il Turismo e lo Spettacolo, il cui effetto più rilevante ha consistito per anni nel cambiamento della carta intestata e della targhetta sul portone di via della Ferratella in Laterano.

E come, per molti versi, appare la trasformazione degli enti lirici in fondazioni di diritto privato, costrette dallo stesso meccanismo della legge ad adottare lo statuto scritto dal legislatore senza alcun grado di autodeterminazione, nonché a traghettare in blocco tutto il personale dall’ente pubblico alla fondazione, con lo stesso contratto e con la stessa regolamentazione (non si intende qui discutere sulla validità di queste scelte sul piano sostanziale, ma sulla pertinenza di un’etichetta che sembra molto lontana dall’apparenza privatistica, almeno in termini economici e sostanziali).

In questo senso, è certamente un dato incoraggiante che il fondo unico dello Spettacolo venga aumentato di anno in anno, mettendo a disposizione della produzione di spettacoli dal vivo una dotazione crescente di risorse finanziarie; tuttavia, a ben guardare, l’aumento di per sé non appare condizione necessaria né sufficiente affinché si esca dall’attuale palude del sostegno statale, capace di assicurare la sopravvivenza a quelle istituzioni che già godono dei fondi pubblici da anni ma del tutto inadeguato a sostenere, agevolare e se si vuole anticipare le trasformazioni di un settore tendenzialmente mobile e veloce.

Al contrario, in un momento in cui si fa un gran parlare di recupero degli spazi dell’autonomia negoziale delle istituzioni non pubbliche, le regole obsolete e rigide che continuano ad amministrare le erogazioni del fondo unico dello Spettacolo producono l’effetto di imbalsamare il settore destinatario, costringendo le istituzioni produttrici di spettacolo dal vivo in una rete di scelte e attività che riproducono iterativamente il modello di comportamento delineato nelle circolari e nelle prassi ministeriali.

È evidente che qualsiasi trasformazione ipotizzabile non può essere introdotta "ex abrupto", ma con la necessaria gradualità. Ed è percettibile, nelle scelte inerenti la destinazione del Fus negli ultimi anni, uno sforzo sia pure embrionale a limitare in qualche misura la dispersione dei fondi tra un nugolo di destinatari, cui somme tutto sommato irrisorie non spostano certo la frontiera della tranquillità finanziaria. Oltre alle complicazioni derivanti dai tempi di erogazione, dalla necessità di ricorrere al prestito bancario, dalla cavillosità delle procedure.

L’approvazione del nuovo regolamento che sostituisce la catena delle circolari di settore, introducendo principi corretti come la progettualità su un arco triennale e il riferimento all’anno solare come orizzonte delle attività da sostenere finanziariamente, potrebbe paradossalmente rappresentare, per alcuni versi, un’accentuazione del grado di complicatezza delle istanze, forzando le istituzioni richiedenti a comprimere programmi altrimenti svariati ed eterogenei nel binario rigido di un progetto del quale si deve mostrare coerenza interna e svolgimento pertinente.

Soprattutto, ciò che sembra assolutamente assente è una desiderabile disaggregazione dei molteplici obiettivi delle attività culturali e della produzione di spettacoli dal vivo, in modo da porre in evidenza i diversi indirizzi verso i quali è mirata l’attività progettuale delle istituzioni culturali, consentendo finalmente di identificare le forme di sostegno (sia finanziario che reale) più appropriate per ciascun obiettivo perseguito, o se si vuole per ciascun filone di attività. Si deve ritenere, infatti, che una delle cause più rilevanti dell’attuale stasi sia de ricercare nel meccanismo "a blocchi" del finanziamento pubblico, accordato come somma totale a fronte di un’attività complessiva, enunciando una molteplicità di obiettivi (la formazione del pubblico, la qualificazione dell’occupazione, lo studio e la ricerca, la promozione di specifiche forme d’arte, etc.) senza però distinguere le diverse specifiche attività che si mostrano capaci di perseguirne ciascuno.

Non è una responsabilità da attribuire esclusivamente al legislatore, né alla burocrazia ministeriale; sono gli stessi operatori del settore a trovare comoda, per quanto perfettibile, una situazione in cui chi fa parte del novero delle istituzioni finanziate non ne esce più e si avvantaggia della garanzia di un sostegno il cui livello si mostra tendenzialmente stabile o muta comunque in proporzione più che sopportabile. Salvo a ribadire con regolarità - e con teatrale efficacia - la consueta protesta sul settore dello spettacolo povero e privo di risorse.

I problemi più rilevanti sono altri, a ben guardare: per esempio, la presenza di forti barriere formali e sostanziali all’ingresso (e all’uscita) di nuove istituzioni nel mercato dei finanziamenti statali; la presunta - e mai dimostrata - impossibilità di ridisegnare il ciclo produttivo dello spettacolo dal vivo sulla base del timore di perdere qualità; l’assenza totale di incentivi alla creazione di poli produttivi complessi e adeguatamente dislocati nel territorio; la competizione tra i produttori, mirata essenzialmente a evitare mutamenti rilevanti nella distribuzione dei contributi pubblici.

 

3. Un’analisi critica delle relazioni tra Stato e mercato

L’insufficienza finanziaria dei produttori di spettacolo dal vivo è oggetto di una riprovazione sempre più diffusa. In un contesto in cui il pareggio del bilancio - o, meglio ancora, il conseguimento di un surplus - viene visto come una virtù di per sé, si vorrebbe che la produzione culturale e di spettacolo venisse "messa a reddito", come con un’espressione del tutto infelice si cerca di descrivere l’indirizzo desiderabile: fare qualunque cosa che possa incrementare il grado di autonomia finanziaria delle istituzioni produttrici.

E’ un problema mal posto, che nasconde una percezione distorta dei rapporti tra Stato e mercato nel settore in questione. Infatti, per una lettura comune ad altri settori, viene spesso sottolineato che la cultura debba "tornare" al mercato, recuperando margini di virtù gestionale e finanziaria. A ben guardare, nel mercato in quanto tale la cultura non ha mai goduto di un vero e proprio diritto di cittadinanza, essendo storicamente incubata e prodotta nelle corti e comunque sotto la protezione di aristocratici, cardinali, commercianti, in una parola soggetti e istituzioni che certo non si possono assimilare al mercato e che - per le epoche nelle quali operavano - assumevano in buona parte un ruolo che oggi è ricoperto dallo Stato.

La produzione di cultura (e lo spettacolo del quale si discute qui appartiene certamente all’insieme più generale, distinguendosi da quello definito "leggero") ha cominciato a entrare nel mercato, molto lentamente e con più di un tentennamento, da poco tempo; si tratta di un ingresso ancora non compiuto, ma se si vuole certamente rallentato e in parte ostacolato dalle maglie fitte e farraginose della regolamentazione statale, che finisce per disegnare direttamente e indirettamente i tratti costitutivi di questo embrione di mercato ancora tutto da sviluppare.

Per fare un esempio, molte delle regole del sostegno finanziario pubblico dello spettacolo dal vivo costituiscono un vero e proprio incentivo all’indifferenza rispetto alla quantità e all’evoluzione del pubblico degli spettatori, inferendo il merito del sostegno stesso da indicatori diversi e spesso rigidi. Più in generale, la garanzia fornita al produttore di spettacoli dal vivo con l’accettazione nella lista dei beneficiari del sostegno pubblico comporta il corollario della scarsa rilevanza di qualunque possibile riscontro di mercato.

Le regole del finanziamento inducono i produttori di spettacolo a ritenersi in competizione tra loro, cosa che appare del tutto paradossale in un settore il cui prodotto è per sua natura non standardizzato, unico e irriproducibile, e per questo consente un elevato grado di monopolio soprattutto nella normalità dei casi, ossia nelle città di provincia in cui spesso i produttori di spettacoli sono pochissimi e parlare di competizione appare un controsenso.

La competizione è però percepita se si fa riferimento al mercato dei finanziamenti pubblici, in cui ogni lira in più concessa a un altro è automaticamente - e aritmeticamente - una lira sottratta a me. E’ del tutto evidente che un sistema del genere finisce per snaturare il rapporto tra offerta e domanda, attribuendo una valenza molto forte al finanziamento pubblico che appare come una sorta di certificazione di qualità e come sintomo primario del peso relativo di ciascun produttore rispetto a ciascun altro: in altre parole, quelle che sarebbero le quote di mercato in un altro settore produttivo nello spettacolo dal vivo vengono determinate dall’approvazione delle commissioni ministeriali e dal consenso degli addetti ai lavori. Il pubblico rimane eventuale; è necessario che ci sia ma non rileva granché a quanto ammonti, come si articoli e soprattutto in che modo si trasformi e si evolva.

Un primo passo da compiere, per uscire dalle secche di un sistema ormai mummificato (basti ricordare, in questo senso, che il fondo unico dello Spettacolo è tuttora ripartito tra i diversi settori per quote percentuali rigide), consiste nella rilettura dei rapporti tra Stato e mercato in termini di interazione e complementarietà istituzionale. Un mercato luogo delle libertà negoziali e uno Stato protettore e regolatore rispondono a un modello obsoleto della produzione e degli scambi.

Stato e mercato sono (per molti versi sono sempre stati) istituzioni che si giustificano e si alimentano reciprocamente. Anche nel settore dello spettacolo dal vivo ciascuna di queste istituzioni vede perseguiti e soddisfatti propri specifici fini, talvolta in una situazione di compatibilità, altre in un contesto conflittuale. Una produzione multiobiettivo come quella culturale inevitabilmente persegue fini eterogenei, coprendo una gamma indefinita che va dall’apprezzamento edonistico del singolo consumatore al progresso culturale dell’intera società.

Tra i non pochi paradossi che caratterizzano il settore qui esaminato si può annoverare anche la sommarietà del sostegno pubblico, concesso in termini generici e a fronte di una lista lunga ed eterogenea di fini perseguiti contestualmente. Il produttore di spettacoli propone un programma integrale e ne ottiene un sostegno altrettanto integrale. Che all’interno della sua progetto alcune unità siano più idonee di altre a perseguire specifici fini (pubblici) non rileva, allo stato attuale della legislazione, della regolamentazione e della prassi.

Per di più, il sistema del finanziamento per blocchi è reiterato anche ai livelli inferiori di governo, con l’effetto assolutamente discutibile di giungere a quadruplicare il sostegno finanziario pubblico per lo stesso progetto e del tutto indifferentemente rispetto agli obiettivi e agli orizzonti temporali e territoriali delle diverse amministrazioni (centrale e locali). Che i governi locali perseguano fini propri, non indispensabilmente coincidenti con quelli del governo centrale, dovrebbe essere ben chiaro a tutti, soprattutto in un periodo in cui si fa un gran parlare di federalismo, di devoluzione, di sussidiarietà.

Da quanto si può osservare oggi, e dall’assenza totale di proposte e indirizzi in questo senso, si può ritenere che, qualunque sia il grado di effettivo trasferimento delle competenze tra i diversi livelli di governo, anche in questo caso si potrebbe trattare di un mero spostamento di fondi e di destinatari senza alcuna innovazione quanto ai criteri ed ai meccanismi. I produttori di spettacoli dal vivo si rivolgerebbero dunque a un diverso livello di governo, limitandosi a modificare l’indirizzo postale dell’istanza di finanziamento e senza dover mutare la sostanza né la forma della propria richiesta di sostegno.

Se una lettura del genere può suonare eccessiva, si consideri in ogni caso che il dibattito evidenzia, come problemi più cruciali derivanti dalla devoluzione, il presunto aumento di precarietà nelle erogazioni nel caso di regioni più povere e, dal punto di vista dei produttori, l’eventuale "declassamento" nel caso di attribuzione di una rilevanza territoriale limitata. Effetti tutti da dimostrare, che mostrano con evidenza come il dibattito non abbia colto l’aspetto più rilevante di un’effettiva devoluzione: l’opportunità di sintonizzare congiuntamente il progetto produttivo, il sostegno pubblico e le aspettative del pubblico e della comunità locale.

 

4. Verso un assetto negoziale del sostegno pubblico

La macchina del sostegno finanziario pubblico (in particolare, di quello statale) funziona semplicemente: le istituzioni produttrici di spettacoli dal vivo dimostrano di esistere, autocertificando la qualità e altre eventuali caratteristiche della propria produzione e dimostrando di rientrare nella categoria di appartenenza, le commissioni operano una valutazione che tiene conto comunque del livello passato dei finanziamenti ottenuti, e il programma presentato viene eseguito con un grado più o meno elevato di fedeltà.

Una volta erogato il finanziamento lo Stato ignora del tutto i modi con cui gli impegni assunti dal produttore siano stati realizzati, e non esiste - al di là delle ispezioni, che sono occasionali - un sia pur rudimentale meccanismo di monitoraggio e sanzione. La presentazione del bilancio consuntivo non appare, di per sé, un elemento capace di permettere inferenze pregnanti.

Naturalmente, il tema degli indicatori di performance appare del tutto delicato in un settore come questo dello spettacolo dal vivo, in cui l’ambito della libertà creativa, artistica e organizzativa deve rimanere al di fuori del controllo pubblico. Il rischio di ingerenze nelle scelte estetiche e culturali va evitato con tutti i mezzi possibili. Il punto non è, comunque, costruire dei parametri di riferimento in modo da poter valutare il grado di avvicinamento ad essi da parte di ciascun produttore, ma domandarsi quali sono gli elementi rilevanti che spingono il settore pubblico a sostenere finanziariamente la produzione di spettacoli.

Va chiarito che tra gli obiettivi possibili alcuni non sono misurabili in modo oggettivo. La qualità artistica (che, si badi, oggi è un elemento chiave nella valutazione delle commissioni), il contributo all’identità e alla coesione delle comunità locali, la capacità di stimolare studi e ricerche o di generare ulteriori produzioni artistiche, tutte queste caratteristiche di una produzione non si possono quantificare, e la loro valutazione è inevitabilmente appesa alla soggettività dei giudizi.

Non è così relativamente ad altri obiettivi, primo fra tutti la diffusione presso il pubblico, con tutte le sue possibili sfaccettature: il rapporto tra presenza e partecipazione, l’allargamento a spettatori nuovi, la proporzione tra le diverse fasce d’età, l’iniziazione delle nuove generazioni, etc.; allo stesso modo, appaiono facilmente misurabili la vita del prodotto artistico, la lunghezza e l’ampiezza della sua circuitazione, la cascata produttiva e informativa che ne può scaturire (riproduzioni, testi critici, etc.).

Ma il punto non è strettamente questo, nel senso che la sostituzione di valutazioni soggettive, per quanto dotte, con maglie rigide che generalizzino gli indicatori per istituzioni diverse ed eterogenee non porta a un miglioramento radicale. Al contrario, l’indirizzo che potrebbe rivelarsi fertile, sotto questi profili, sarebbe quello della disaggregazione orizzontale delle diverse aree di attività da parte delle istituzioni produttrici di spettacoli dal vivo, e della parallela riattribuzione verticale degli obiettivi e delle azioni in capo ai diversi livelli di governo.

In questo modo si permetterebbe di articolare il quadro del sostegno finanziario pubblico secondo gli specifici obiettivi perseguiti da ciascun livello di governo (ad esempio, la sperimentazione e la ricerca al governo centrale, la diffusione nel territorio al governo regionale, la didattica e la formazione ai governi provinciale e comunale), consentendo d’altra parte al produttore di identificare con precisione i diversi indirizzi della propria programmazione e di misurare la corrispondenza tra risultati attesi e conseguiti, senza che questo comporti la minima violazione del proprio territorio di libertà creativa, artistica e organizzativa.

Per di più, un sistema del genere potrebbe consentire un ampio margine negoziale tra i governi locali e i produttori di spettacoli dal vivo, spingendo verso una sintonizzazione effettiva alle aspettative della comunità locale nonché permettendo di modificare termini e condizioni del sostegno pubblico anno per anno, senza rischi di uscita dal mercato dei finanziamenti a carico dei produttori stessi.

E’ ovvio che un sistema del genere va sperimentato con cautela e filtrato attraverso tutta una serie di problemi operativi e tecnici che la sua semplice descrizione non può affrontare. Va detto però che un processo di decentramento del governo dello spettacolo dal vivo che riproduca pedissequamente, moltiplicandoli, criteri, meccanismi e distorsioni dell’attuale griglia di valutazione e approvazione finirebbe per suonare come l’ennesima trasformazione nominale a danno degli interessi di lungo periodo dei produttori, dei consumatori e dell’intera comunità.



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