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Tavola rotonda sul Testo Unico per i beni e le attività culturali
(Bologna, 16 maggio 2000)

 

Ritrovamenti e scoperte: l'ultimo monopolio?

di Carlo Marzuoli



1. Dinanzi ad una delega ed alla sua attuazione è naturale chiedersi se si poteva fare di più, se si è fatto abbastanza, ecc., specie se non si dimenticano i casi in cui la delega è stata ritenuta decisamente elastica (troppo elastica, vedi il d.lg. 80/1998 nella parte riguardante la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).

Vorrei accantonare questo profilo, per evitare che possa far velo ad altri aspetti. Il testo unico infatti è comunque un risultato molto importante: è la conclusione di un'opera e perciò anche posizione di una nuova e più adeguata base per il futuro.

D'altra parte, la necessità di continuare il lavoro è determinata dall'esigenza di provvedere al regolamento di attuazione (art. 12 d.lg. 490/1999) e all'ulteriore decreto legislativo di aggiornamento (art. 1, comma 4, legge delega 352/1997), strumenti che possono appunto consentire di rivedere e integrare la disciplina vigente.

Mi limiterei perciò a segnalare, nella prospettiva indicata, ciò che più mi ha colpito quando ho preso in considerazione le norme di cui mi sono occupato, gli articoli 85-90 ("ritrovamenti e scoperte").

 

2. La materia dei ritrovamenti e delle scoperte del bene archeologico e culturale ha carattere intrinsecamente tecnico-scientifico-culturale e perciò le funzioni sono conferite ad un apparato amministrativo fortemente specializzato sotto tale aspetto. L'amministrazione dei beni culturali deve fare i conti con la tecnica, con la scienza, con la cultura; di più: è essa stessa non tanto e non solo amministratrice di conoscenze ma soggetto attivo nella produzione di conoscenze, di tecniche, di valori di cultura.

Senonché, se questi sono i connotati della materia, è sorprendente (ripeto: si tratta solo di sottolineare un dato oggettivamente riscontrabile) che la disciplina vigente non contenga alcuna previsione volta a costruire un rapporto scientificamente e pluralisticamente produttivo con altre istituzioni anch'esse protagoniste dei processi della tecnica, della cultura, della scienza. Penso alle Università, ad esempio, che sono (per dettato costituzionale) competenti per gli aspetti ora enunciati.

Per chi ritiene che la conoscenza sia di per sé immancabilmente pluralista e aperta al confronto e al contraddittorio, il problema non è secondario, soprattutto in relazione ad un'amministrazione (i beni culturali) che afferma e rivendica la propria specialità proprio in nome della dimensione tecnico-scientifica-culturale.

 

3. Le conseguenze negative di un assetto giuridico e istituzionale quanto meno troppo chiuso e troppo separato sono numerose e di vario genere. Merita di esserne ricordata almeno una (e già lo ha fatto il curatore nel saggio introduttivo), perché è centrale dal punto di vista degli strumenti che il diritto mette a disposizione per governare la realtà.

Mi riferisco al rilievo giuridico delle valutazioni tecniche dell'amministrazione o più in generale e comunque alle valutazioni non consistenti in scelte di interessi e pertanto non coincidenti con apprezzamenti in qualche misura politici. Il principio di disciplina giuridica di alcune di tali valutazioni è nel senso che esse non possono essere sostituite da quelle di soggetti diversi dall'amministrazione. Possono essere controllate, ovviamente, anche in sede giurisdizionale; ed è anzi auspicabile che il giudice possa utilizzare tutti i mezzi utili allo scopo, come la consulenza tecnica. Però, una volta fatte tutte le indagini del caso, se la valutazione dell'amministrazione appare corretta, per quanto opinabile e discutibile, essa rimane ferma e non può essere sostituta dalla valutazione di altri.

Questo - giuridicamente - è un privilegio. In quanto tale può sussistere solo se giustificato o giustificabile. La ragione allo scopo invocabile non può che consistere nel valore tecnico-scientifico-culturale delle istituzioni a cui risulta dunque rimessa l'ultima parola (ad esempio, sul valore culturale del bene).

Ma, allora, ritorna in primo piano l'esigenza sopra prospettata: la valutazione dell'amministrazione può avere un'effettiva autorevolezza (e dunque una corrispondente legittimazione) solo se emerge in un contesto di partecipazione e confronto con altre istituzioni dotate anch'esse di particolare competenza (e dunque legittimazione) per quanto riguarda la dimensione tecnico-scientifica-culturale. Ove questo non si verifichi, si affaccia inevitabilmente l'immagine di una separatezza in funzione di una copertura della conservazione di dati e di valori già acquisiti e di resistenza al progredire della conoscenza: l'immagine insomma di una dimensione tecnico-scientifica-culturale che pretende di imporsi non in virtù del valore della conoscenza ma grazie alla forza dell'autorità (a un privilegio giuridico).

Quando questo accade, allora il concetto giuridico della valutazione tecnica dell'amministrazione come valutazione nel merito di esclusiva competenza dell'amministrazione è destinato a soccombere e ad essere travolto.

La conseguenza è che la valutazione dell'amministrazione: o sarà ritenuta pienamente sostituibile da quella di chiunque sia ritenuto idoneo dal giudice (o magari dal giudice medesimo), oppure, per contenere questa intromissione, sarà ricondotta all'interno delle valutazioni in qualche misura coinvolgenti aspetti politici, cioè quel tipo di elementi che sono ritenuti in grado di fare barriera al sindacato in sede giudiziaria (al sindacato di tipo pieno e sostitutivo, di "merito", naturalmente).

Nella prima evenienza avremo che giudizi spesso estremamente delicati e in parte opinabili, e perciò affidati ad apposite istituzioni e dunque ad un complesso sistema di regolazione giuridica, volto a limitare il margine dell'arbitrio del giudizio individuale (sia pure dovuto a pure e nobili passioni di ordine tecnico-scientifico-culturale), saranno d'un colpo azzerati dal giudizio di un soggetto (l'esperto nominato dal giudice) che interviene per il singolo caso e per circostanze casuali; nella seconda avremo l'inquinamento - in termini istituzionali - del giudizio tecnico-scientifico-culturale con la scelta politica fra interessi.

Né l'uno né l'altro esito sembrano auspicabili al fine di una strumentazione giuridica in grado di rispettare l'autonomia della dimensione tecnico-scientifica-culturale e di soddisfare le esigenze poste dai beni culturali. Ma, per evitarli, occorre mantenere una forte legittimazione dei corpi e delle istituzioni preposte alle valutazioni di ordine tecnico-scientifico-culturale. E ciò significa aprire, non chiudere.

Se si dovesse esserne convinti, gli strumenti per rimediare fin d'ora al silenzio, sul punto, del testo unico, non mancano.

A parte ciò che si potrà fare con il regolamento e con il decreto legislativo di aggiornamento, se si guarda al sistema giuridico nel suo insieme (come bisogna fare), si può constatare che molti e ben costruiti sono i principi e le norme che sollecitano e consentono forme di partecipazione, di dialogo, di accordo fra le istituzioni portatrici di competenze essenziali per il buon governo anche dei beni culturali.



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