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Giornata di studio su "L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali" nel quadro delle riforme amministrative

 

Interesse, compiti e strutture nel riassetto del settore culturale

di Guido Clemente di San Luca

 

La presente, breve riflessione, sollecitata dalle stimolanti relazioni di Luigi Bobbio e di Giovanni Pitruzzella, è fondata sulla convinzione della necessità di combinare in un unico ragionamento i tre principali elementi della discussione avente ad oggetto il riassetto del settore culturale: a) i compiti di conservazione, valorizzazione, gestione/utilizzazione e fruizione del patrimonio storico-artistico; b) l’interesse culturale; c) le strutture organizzative preposte alla cura dell’interesse, le quali, per ciò, assumono i compiti relativi.

Con riferimento al primo elemento, occorre far chiarezza sulla presunta, e non dimostrata, pur se dichiarata da molti, incompatibilità o inconciliabilità dei compiti di conservazione e di valorizzazione.

La cd. "tutela", invero, concettualmente comprende tanto l'una quanto l'altra attività. Le esigenze di conservazione non si pongono, o meglio non possono esser poste, in contraddizione con quelle di valorizzazione. Se, infatti, l'interesse primario del quale ci si occupa è l'interesse culturale, della cultura in senso ampio, le attività di valorizzazione del patrimonio storico-artistico - che sono indispensabili non solo per la fruizione "elitaria", ma anche e soprattutto per la diffusione "divulgativa" - si aggiungono alle attività (opere di manutenzione e di restauro) di conservazione e, per così dire, ne completano il compimento, in una prospettiva di piena reciprocità, giammai potendo entrare in contrasto con esse.

Certo, laddove per valorizzazione si intenda la sola azione volta ad aggiungere valore economico ai beni culturali, ai fini, appunto, del loro "sfruttamento economico" alla stregua di qualsiasi altro bene, sul presupposto - ad avviso di chi scrive inaccettabile - che la loro valutabilità economica può condurre all'azzeramento di ogni specificità del valore di "testimonianza materiale avente valore di civiltà" e quindi dell'interesse culturale, allora è più che evidente che ne derivi la sua contrapposizione con la conservazione.

Ma se della valorizzazione si accoglie il significato di aggiunta di valore culturale, è facile constatare la piena omogeneità dei due compiti, trovando entrambi, non solo comune riferimento, ma perfino stessa ragion d'essere nell'unico interesse che li giustifica, quello culturale.

La contrapposizione concettuale fra conservazione e valorizzazione si incarna, per così dire, nella sua soggettivazione, consistente nella contrapposizione fra struttura statale periferica e struttura organizzatoria delle autonomie regionali e locali, diventando così contrapposizione fra tutela del patrimonio culturale, da un lato, e urbanistica (nel suo significato attuale ormai pacificamente accolto di politica di gestione del territorio), dall'altro.

Il valore, e dunque l'interesse che permea di sé la materia de qua - venendo così al secondo elemento della riflessione - è invece unico, pur se "plurale". L'affermazione merita un, benché rapido, approfondimento.

Tutti i detti compiti e le relative attività - occorre osservare - fanno capo, perché altrimenti non se ne spiega la esistenza, al valore della cultura - intesa nella sua accezione antropologica - e, per conseguenza, alla tutela dei beni materiali e immateriali (le attività) che di essa sono testimonianza e che permettono, attraverso la loro fruizione (consistente, ove si tratti di cose, nella contemplazione e nello studio), una consapevole evoluzione antropologica (delle tradizioni, degli usi, dei costumi, ecc.) della comunità - intendendosi per quest'ultima tanto quella territorialmente definita, quanto, più in generale, quella umana (nel senso di "universale").

La dichiarata unicità dell'interesse - va chiarito a scanso di equivoci - non implica necessariamente la negazione della sua consistenza "plurale", ché anzi la cultura ontologicamente si presenta fondata sulle diversità, nutrendosi costantemente di esse. E fra i tanti aspetti della diversità si collocano proprio quelli, qui in discussione, relativi ai distinti tipi di compiti che l'unicità del valore culturale comunque implica: conservazione, valorizzazione, utilizzazione/gestione, fruizione.

In altre parole, l'interesse culturale trova tanti diversi modi di manifestarsi nelle tante diverse attività necessarie per assolvere a tali compiti. Nel caso, però, il loro svolgimento, incontri in concreto contingenti ostacoli dovuti a "presunte" inconciliabilità, deve superarli (risolvendosi, perciò, le dette inconciliabilità) attraverso il conseguimento del valore unico per il quale esse stesse si giustificano: il primario interesse culturale. Si tratta, semmai, di capire a chi spetti di definire nei contenuti, storicizzandolo, siffatto interesse (sul punto si tornerà fra breve).

Ma se la cultura è in sé "plurale" - ci si chiede - come fa ad attribuirsene la cura ad un soggetto pubblico, che giocoforza la asservirebbe ad interessi di parte?

Si incrociano sul punto, con ogni evidenza, due diversi, pur se connessi, profili di analisi: il rapporto fra "pubblico" e "privato", e quello fra la sovranità (e relative istituzioni) nazionale e le autonomie (e relative istituzioni) locali.

Con riferimento al primo, la risposta all'interrogativo consegue all'accoglimento della concezione liberista o democratica della libertà.

Se - come fa chi scrive - si sposa la seconda, non v'è libertà individuale - tranne le ccdd. "libertà fondamentali" (e quelle economiche non sono fra esse !) - che non trovi qualificazione giuridica, e perciò definizione contenutistica, nella volontà popolare, dunque nella legge e, più in generale, nelle fonti giuridiche prodotte da istituzioni democratiche, cioè esponenziali, rappresentative del popolo.

Se ne può dedurre che il rischio di asservimento della cultura ad interessi politici di parte si dissolve nelle garanzie di democraticità del sistema, e, fra queste, nella piena libertà di voto dalla quale si deriva la possibile alternanza dei diversi schieramenti politici al governo delle comunità, nazionale e locali.

Ora, se il "pubblico" - purché autenticamente democratico - è riconoscibile come il migliore, o, se si vuole, il meno peggior garante del pluralismo sociale, resta però ancora da risolvere l'interrogativo con riguardo al secondo profilo di analisi enunciato: di quale "pubblico" si deve trattare, del pubblico "nazionale", o del pubblico "locale"? Si è giunti così all'ultimo elemento della riflessione: la questione della struttura organizzatoria.

Seppure si è affermato che la dichiarata unicità dell'interesse culturale non nega affatto la sua consistenza "plurale", essendo anzi caratterizzato in modo peculiare da siffatta consistenza, non sembra comunque potersi sostenere altrimenti che unica debba essere anche la istituzionale struttura organizzativa preposta ad esso, quantunque in via prevalente.

Occorre allora domandarsi se sia più corretto considerare maggiormente adeguata allo scopo quella statale ovvero quella regionale. Al riguardo - come è noto - la tendenza di gran lunga prevalente, che del resto trova conferma nei più recenti orientamenti del legislatore (Capo V del d. lg. 112/1998, spec. art. 149; e d.lg. 368/1998, spec. artt. 1 e 2), è nel senso di ritenere, tra le altre, proprio la materia di cui si discute sottratta al generale processo di trasformazione dell'ordinamento verso un modello più marcatamente in linea con l'impronta autonomistica consacrata nella Costituzione (art. 5: "La Repubblica" riconosce e promuove").

In altri termini, mentre si è diffusamente concordi nel ridisegnare l'assetto istituzionale nella prospettiva del cd. "federalismo (almeno) amministrativo" (o, come altrimenti, più correttamente, viene denominato, del "regionalismo forte"), la tutela dei beni culturali permane - secondo l'opinione "vincente" (tanto che lo stesso Progetto di revisione costituzionale approvato dalla Commissione Bicamerale (art. 58, lett. v) mantiene allo Stato la competenza legislativa in materia) - nel novero dei settori che devono restare allo Stato, pur presentandosi come quello che, forse più di tutti, è connotato in modo peculiare quale attribuzione regionale, fino al punto che si segnala per essere, ancor più che mero oggetto di una materia di competenza, fondamento stesso del potere pubblico manifestantesi nelle forme dell'autonomia territoriale locale.

Più esplicitamente: la cultura rappresenta la ragion d'essere della sostanza autonomistica del potere pubblico, essendo basata su di essa, sulle diversità antropologiche, l'essenza pluralistica del sistema istituzionale.

Ma allora - viene di domandarsi - perché v'è una così ostinata volontà di non voler riconoscere nelle regioni i titolari principali del valore e dell'interesse culturale?

L'unica risposta comprensibilmente accettabile sembra risiedere in una ragione d'ordine tecnico, o meglio nella valenza tecnica della struttura organizzativa.

Al di là, infatti, delle ragioni corporative - sempre presenti e di tuttaltro che marginale consistenza - di resistenza degli apparati burocratici alle innovazioni (ciò che non può essere sottovalutato, ma che va considerato come un "nemico" da vincere), il vero ostacolo da doversi sormontare è costituito dalla mancanza, nella regione, di un corpo amministrativo adeguatamente dotato dell'indispensabile know how affinché venga assicurato il perseguimento dell'interesse culturale.

L'indubbio, obiettivo intreccio fra "cultura" ed "urbanistica", invero, potrebbe costituire un rischio per la tutela del patrimonio culturale, laddove il vertice politico di settore, nella regione, non fosse adeguatamente controbilanciato da una struttura amministrativa custode per tradizione dell'interesse e particolarmente forte perché specificamente attrezzata con riguardo alla relativa conoscenza/capacità tecnica.

Senza il necessario contrappeso di una struttura professionalmente depositaria della primigenia filosofia conservativa, l'interesse culturale potrebbe veramente finire col soccombere di fronte agli interessi imprenditoriali che - è bene sottolinearlo, ad evitare ogni ingannevole illusione manichea - "fisiologicamente" premono, in sede di pianificazione urbanistica, sulla componente politica al vertice del settore a livello locale.

Una via per risolvere il problema ci sarebbe. Anzi, allo stato attuale delle cose, è meglio dire che essa si sarebbe potuta intraprendere se solo il d. lg. 112/1998, prima, e il d. lgs. 368/1998 (che, com'era quasi fatale, ha ulteriormente enfatizzato l'impostazione "ministeriale"), poi, avessero accolto, almeno soltanto in parte, la soluzione suggerita dalla cd. "proposta Cammelli", anziché sposare in toto il "progetto Cheli", che pure ha l'indubbio merito di presentarsi dotato di un indispensabile, sano, ma forse eccessivo, realismo.

Riproporre un'idea che è già stata bocciata, contro ogni ragionevole prospettiva di un possibile, seppur ritardato, accoglimento, potrebbe apparire come un mero, inutile esercizio intellettualistico. Epperò non lo è, se si è convinti - come chi scrive - che il problema, la sostanza del quale essendo quella descritta, non può che trovare risposta nel trasferimento in blocco delle Sovrintendenze alle regioni.

Ciò significherebbe superare - e semplicemente attraverso la legge (!) (pur se sul punto appaiano pienamente condivisibili le preoccupate osservazioni di Bobbio, circa le assai modeste possibilità di cambiare le cose mediante il solo strumento normativo) - il "dualismo immobile", fatto di reciproci veti incrociati fra l'amministrazione periferica statale e la regione; dualismo che, da un lato, blocca il funzionamento delle istituzioni, e, dall'altro, crea innumerevoli disagi al cittadino, incapace della minima intelligibilità del sistema, perduto com'è nell'indistinzione dei ruoli.

Ciò significherebbe, in definitiva, ricondurre finalmente ad unità un interesse, quello culturale, che è uno ma plurale, e perciò postula, per la sua cura unitaria, d'essere affidato ad un soggetto istituzionale idoneo ad esprimere nelle politiche del settore le diversità antropologiche caratterizzanti il complesso e variegato tessuto culturale italiano.



copyright 1999 by Società editrice il Mulino


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