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La catalogazione dei beni culturali
tra competenze del ministero e iniziativa regionale:
quadro storico e prospettive di sviluppo

di Nicoletta Gazzeri

 


Malgrado l'assenza di esplicite competenze quanto alla catalogazione dei beni culturali, diverse regioni italiane hanno sviluppato autonomamente programmi in tal senso sin dagli anni settanta, fino a costituire cospicue banche dati e a configurare di fatto un esercizio condiviso dei compiti di catalogazione riservati per legge alle Soprintendenze e all'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione del ministero per i Beni culturali. Dagli anni Novanta il ruolo delle regioni nel censire e quindi certificare l'appartenenza dei beni a rischio di furti o esportazioni illecite è stato valorizzato anche dal ministero, soprattutto grazie all'estensione alle regioni dei finanziamenti straordinari per la catalogazione. Le regioni hanno sviluppato in alcuni casi interessanti applicazioni del catalogo ai fini propri di governo del territorio e di gestione dei beni culturali locali. Tuttavia permangono tra i diversi enti difficoltà di comunicazione e ragioni di attrito.


Malgrado l'assente definizione normativa delle competenze regionali quanto a tutela e valorizzazione dei beni culturali, che si è prolungata fino alla recente riforma ex d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 , nonché la mancanza di una chiara ripartizione di compiti tra regioni e Istituto centrale del catalogo e della documentazione (Iccd) per il censimento del patrimonio culturale, sin dagli anni settanta diverse regioni hanno avviato autonomi programmi in questo campo, seguiti con interesse e collaborazione discontinui dagli organi del ministero.

L'intervento regionale nel settore ha attraversato varie fasi, conoscendo negli anni novanta, malgrado il contributo molto disuguale delle diverse regioni, un deciso incremento, tanto che l'Istituto centrale del catalogo ha dovuto tenerne conto, giungendo nel 1994 a formulare un protocollo d'intesa con il Coordinamento regionale per i beni culturali [1] in vista dell'avvio del Sistema informativo del catalogo generale (documento non ancora sottoscritto, peraltro, dai competenti organi del ministero).

Si è prodotto, cioè, un decentramento o piuttosto un ampliamento dei soggetti incaricati del censimento dei beni culturali grazie all'iniziativa autonoma delle regioni, per molti versi originale e significativamente differenziata rispetto alla parallela attività ministeriale.

Le diverse fasi dell'intervento regionale in questo settore possono essere riassunte come segue.

Una prima fase corrispondente agli anni settanta, caratterizzata dalla spinta verso l'integrazione tra l'attività statale e quella delle regioni, da poco investite dei compiti di pianificazione urbanistica e territoriale con forti ricadute sulla conservazione dei centri storici e del paesaggio. L'intervento regionale è stato spesso sorretto da un'idea "partecipativa" e di promozione culturale e sociale, in base al modello delle Campagne di catalogazione sull'Appennino emiliano della Soprintendenza alle gallerie di Bologna e alle teorie di Andrea Emiliani. Tale fase non si è estrinsecata, salvo poche eccezioni, in una programmazione coerente e in iniziative durature [2]. Il punto d'arrivo può essere considerato la redazione del Protocollo d'intesa fra Stato e regioni per la creazione dei Centri di documentazione regionale (cosiddetto Vernola - Meyer) del 1983. I centri avrebbero dovuto essere servizi informativi e di supporto tanto per le funzioni di tutela proprie dello Stato quanto per il governo del territorio espletato da regioni ed enti locali e a tale fine avrebbero dovuto promuovere "programmi di catalogazione concordati tra i suddetti organi (del ministero per i Beni culturali e delle regioni, N.d.A.) e raccogliere la documentazione da questi prodotta e acquisita al fine di assicurarne la disponibilità pubblica anche mediante forme di elaborazione e diffusione".

Una seconda fase, negli anni ottanta, ha corrisposto col fallimento dell'ipotesi dei Centri regionali di documentazione [3] e della collaborazione Stato regioni, nonché con un generale ripiegamento dall'idea della diffusione della conoscenza e della promozione pubblica del patrimonio culturale tramite il catalogo. I Centri di documentazione nati in questi anni - come quello della regione Veneto - ripetono in sostanza la strutturazione e le funzioni degli uffici del catalogo esistenti nelle Soprintendenze: sviluppano propri programmi di censimento rispettando standard e schede dell'Iccd e raccolgono il materiale prodotto per una consultazione essenzialmente interna o riservata a studenti e ricercatori. L'attenzione a livello regionale prende a spostarsi piuttosto sulla razionalizzazione delle procedure di finanziamento, affidamento e direzione dei lavori, sulle metodologie di confezione dei dati e sul loro immagazzinamento con mezzi informatici, anche per la forte spinta impressa dai "Giacimenti Culturali".

Una terza fase si apre con l'Atto Unico Europeo, la prospettiva dell'apertura delle frontiere e il varo di finanziamenti straordinari per la catalogazione dei beni culturali a rischio (legge Facchiano 84/1990, legge 145/1992, e successive prosecuzioni). L'avvicinarsi dell'apertura delle frontiere e il conseguente pericolo di esportazioni incontrollate di opere d'arte inducono gli organi del ministero per i Beni culturali a considerare con maggiore interesse che in passato il contributo al censimento e, quindi, alla certificazione dei beni che può venire dall'attività regionale. La legge Facchiano ammette alla presentazione di progetti di inventariazione e catalogazione anche "regioni e ... soggetti pubblici e privati", d'intesa con le Soprintendenze e sotto la loro direzione. La legge rappresenta per diverse regioni l'occasione e lo stimolo per dare il via a consistenti investimenti in questo campo, dotandosi di strumenti informatici per la gestione delle banche dati create coi risultati del censimento e, in alcuni casi, di veri sistemi informativi, che superano nettamente per ampiezza di funzioni ed efficienza le dotazioni informatiche a disposizione degli organi statali [4]. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, tra organismi regionali e Soprintendenze o Istituto centrale del catalogo non si instaurano uno scambio o una cooperazione duratura su questo punto; finita la fase di collaborazione innescata dai finanziamenti straordinari e scioltisi i consorzi pubblico/privati creati a tale fine ciascun ente torna a lavorare per proprio conto coi propri mezzi [5].

La situazione venutasi a creare con l'intervento spontaneo delle regioni nel campo della catalogazione impone di riflettere almeno su due aspetti: da un lato il decentramento di fatto che essa rappresenta rispetto ai compiti di coordinamento e normazione fissati dalla legge per l'Iccd, in parte aggirati dallo sviluppo originale e assai rapido delle esperienze regionali; d'altro lato, l'evidentissima disparità che emerge tra le diverse regioni, molte delle quali, soprattutto al Sud, sono rimaste estranee alla materia.

Il rapporto con l'Iccd e il ministero si è tradotto nella maggior parte dei casi nell'adozione dei tipi di schede e degli standard di catalogazione ministeriali [6]; tuttavia, su questo terreno molte sono state le innovazioni prodotte a livello locale, soprattutto per tipologie specifiche di oggetti (come l'architettura industriale, i beni demo-etno-antropologici, ecc.), quanto a schede, metodologie di raccolta, elaborazione e presentazione dei dati, organizzazione dei materiali eccetera. D'altronde proprio sul piano degli standard fissati dal ministero si registrano diffuse tensioni, soprattutto per le persistenti carenze degli "standard di descrizione" o di sintassi compilativa delle voci, nonché per la lentezza della strutturazione informatica delle schede, che ha già costretto in passato alcune regioni ad anticipare per proprio conto la conversione informatica delle schede ministeriali, in assenza di direttive specifiche dall'Iccd [7].

Tuttavia, non è forse tanto sul piano strettamente relativo all'individuazione e alla formalizzazione dei dati di catalogo che si registrano le più incisive novità prodotte dalle regioni rispetto agli indirizzi del ministero, quanto sotto l'aspetto delle funzionalità del catalogo: ovvero di una pianificazione della raccolta dei dati, della tempistica e delle procedure, delle modalità di confezione, gestione e utilizzo dei dati stessi che tengano conto in modo diretto delle applicazioni cui il catalogo potrà servire in vista delle attività dell'ente o di altri obiettivi.

Finora, questo tipo di valutazione funzionale delle possibili applicazioni del catalogo quanto alla conoscenza, alla preservazione e alla migliore valorizzazione del patrimonio culturale da parte dei proprietari o degli enti territoriali è stato largamente manchevole da parte del ministero per i Beni culturali. La programmazione delle attività ha tenuto conto solo eccezionalmente, in occasione dei finanziamenti straordinari del 1990, delle esigenze, per un verso, e per l'altro di un concorso attivo degli enti locali; ordinariamente si è prodotta in esclusivo riferimento alle decisioni delle Soprintendenze e ai tempi di risposta, finanziamento e coordinamento degli uffici centrali del ministero.

Si pensi, inoltre, ai limiti posti alla riproduzione dei dati del catalogo (in genere impedita) e al loro utilizzo a fini di divulgazione e di promozione dei beni, assoggettato al rilascio di particolari autorizzazioni: limiti che hanno finora ostacolato la circolazione dei risultati della catalogazione fuori dalle Soprintendenze e la loro applicazione nelle politiche di salvaguardia e di intervento degli enti locali.

Ciò detto, si ravvisano nei rapporti fra regioni e ministero alcune aree di attrito che corrispondono in genere a:

  1. tempi di realizzazione: quelli del catalogo ministeriale sono troppo lenti secondo i responsabili di diverse regioni, non corrispondenti alla informazione rapida ed estensiva che necessita agli enti locali per la pianificazione di attività su larga scala.
  2. standard di catalogazione: in genere considerati troppo complessi, almeno quanto al livello più completo di catalogazione che generalmente è lasciato cadere, preferendo un rilevamento più rapido di tipo inventariale; troppo incerti, a causa dei lunghi tempi di redazione e di aggiornamento, che hanno costretto diverse amministrazioni ad anticipare autonomamente formalizzazioni di schede da anni in preparazione; insufficienti per le specifiche necessità locali, che impongono integrazioni o modifiche.
  3. strumenti informatici di gestione dei dati: i problemi nascono dall'adozione da parte dell'Iccd di un prodotto di mercato soggetto al pagamento di una licenza, cosa che diverse amministrazioni regionali hanno considerato scoraggiante in vista dell'allargamento dell'attività al maggior numero di soggetti possibili, inducendo molte regioni a dotarsi ciascuna di uno o più diversi prodotti da distribuire gratuitamente.
  4. controlli e direzione scientifica: è il terreno di maggior resistenza delle Soprintendenze, restie a concedere un nulla-osta all'attività di gruppi di schedatori che si sottraggono al diretto controllo dei funzionari ministeriali. Negli anni questa indipendenza del lavoro regionale ha causato in diversi casi una aperta indifferenza da parte dell'Iccd e degli uffici periferici verso gli sviluppi del censimento a livello locale.
  5. personale impiegato: anche in questo caso, vi è una richiesta di controllo da parte delle Soprintendenze.
  6. mancanza di ascolto e di disponibilità da parte del ministero: in genere il compito riservato all'Iccd di definire metodologie e programmi viene percepito in ambito regionale come l'avocazione centralistica di una facoltà di giudicare, controllare e soprattutto frenare e respingere le innovazioni prodotte sul territorio, spesso nascenti da effettive esigenze locali. Da più parti si vorrebbe un ascolto più metodico e costruttivo delle esperienze regionali, soprattutto per quelle materie e quelle categorie di beni per cui non esiste una chiara disciplina a livello nazionale.

Riguardo a tali punti le posizioni sostenute dalle regioni sono, peraltro, molto differenziate a seconda delle scelte operate da ciascuna e del rispettivo grado di operatività, organicità, innovazione.

Riassumo di seguito alcuni tra i principali aspetti dell'attività regionale che presentano, a mio avviso, particolare interesse per la migliore funzionalità della catalogazione ai fini di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale.

Altre, fondamentali opportunità di applicazione del catalogo nascono là dove si è inteso creare un collegamento fra la catalogazione e la pianificazione urbanistica o territoriale degli enti locali, unendo le banche dati catastali e territoriali a quelle del catalogo o configurando strumenti normativi specifici [10].

La scelta comune di un livello di catalogazione inventariale, più rapido, concorre alla speditezza nelle operazioni di censimento, talvolta notevolissima. In alcune delle regioni considerate l'apporto regionale si confronta dignitosamente con la somma delle schede di catalogo redatte da tutte le Soprintendenze attive sul territorio, in un arco di tempo evidentemente molto più lungo [11].

Questo insieme di considerazioni dovrebbe indurre a ritenere che, a fronte della maggiore rapidità dimostrata dalle regioni nel dotarsi di strumenti operativi e nel realizzare il catalogo, nonché della loro maggiore prontezza nel rispondere alle specifiche esigenze informative, gestionali, d'intervento emergenti dagli enti e istituti culturali del territorio, la strada più produttiva da seguire anche a livello nazionale per accelerare la realizzazione del catalogo e, soprattutto, superarne l'inerzia applicativa ai fini di una più diffusa conoscenza e protezione dei beni, anche nel difficile rapporto con le amministrazioni locali, sia quella di valorizzare al massimo la cooperazione tra centro e periferia, tra ministero e uffici regionali di catalogo in modo da evitare dispersioni di preziose esperienze locali e garantire la circolazione di competenze, risultati, prodotti che oggi è piuttosto scarsa.

Tale avviso sembra essere stato recepito nel processo di revisione del decreto di riforma da poco approvato. Nella sua formulazione definitiva, infatti, l'art. 149 comma 4, lett. e) elenca, tra le funzioni riservate allo Stato, "la definizione, anche con la cooperazione delle regioni, delle metodologie comuni da seguire nelle attività di catalogazione, anche al fine di garantire l'integrazione in rete delle banche dati regionali e la raccolta ed elaborazione dei dati a livello nazionale". È stata dunque accolta nella sostanza l'integrazione richiesta su questo punto dal coordinamento interregionale, che sancisce per la prima volta in modo permanente il ruolo delle regioni in materia di catalogazione in una posizione attiva e cooperativa nei confronti dello Stato.


Note

[1] La redazione del protocollo è stata curata effettivamente da un gruppo di lavoro composto dai rappresentanti delle regioni Lombardia, Umbria, Emilia - Romagna, Lazio e Veneto. Si tratta del documento più avanzato nel senso di un riconoscimento da parte del ministero per i Beni culturali delle specificità e dei possibili, originali apporti della catalogazione svolta dalle regioni. Vi è prefigurata una diversificata organizzazione e articolazione territoriale dei sistemi catalografici regionali, facendo preciso riferimento al rispetto delle "specifiche esigenze dell'Ente Regione, delle Province, dei Comuni singoli e associati, degli Enti ecclesiastici, di ogni altro soggetto pubblico e privato interessato e degli istituti culturali attivi in ambito locale...". Si afferma esplicitamente che l'attività di catalogazione "possa essere espletata (...) anche dai musei locali e dagli altri istituti di cultura operanti sul territorio". Ciascuno dei livelli di strutturazione accennati, ad ogni modo, sarà il prodotto di specifici accordi e convenzioni tra le regioni e l'Iccd oppure, trattandosi degli aspetti locali, le Soprintendenze coinvolte. L'intesa configura nel suo insieme l'interconnessione fra sistemi informativi distinti e autonomi, sulla base di una programmazione coordinata e della comune adozione di una serie di standard necessari al collegamento degli archivi. Tali standard riguardano: uniformi strutture logiche dei dati per i vari livelli di catalogazione, terminologie, tracciati minimi di identificazione e allineamento delle informazioni di base nelle diverse schede, sempre tra loro interrelate secondo il rapporto oggetto - contenitore - territorio, infine formati di scambio e sistemi di data - entry automaticamente compatibili. Oltre a questi, si stabilisce di adottare criteri comuni per la ripresa e la stampa delle immagini e per la rappresentazione cartografica dei dati relativi alla distribuzione territoriale dei beni, per consentire la condivisione di tali dati fra le diverse amministrazioni. Grazie all'interazione automatica fra i diversi archivi, si prevedono processi di verifica dei dati attivati dal centro. Sarà garantita in ogni caso la piena, reciproca disponibilità di dati e immagini, anche in originale.

[2] Come esempi culminanti dell'attività regionale in questi anni possono citarsi l'Istituto per i beni culturali e ambientali della regione Emilia - Romagna - che peraltro, più che un'attività di catalogazione configurata dall'esempio della Soprintendenza alle Gallerie di Bologna, ha prodotto negli anni un lavoro di ricerca e documentazione, accanto ai suoi ulteriori compiti istituzionali - e inoltre il "Piano per il censimento e la catalogazione dei beni culturali e ambientali" della regione Lazio, varato nel 1979, il quale ha avuto fino ad ora un'attuazione molto parziale nel quadro dell'attività del Centro regionale di documentazione. Va certamente citato tra gli istituti nati con più tempestività e operativi con continuità negli anni, secondo metodologie in parte originali, il Centro di catalogo regionale di Passariano (Udine), attivato già nel 1971, per quanto si tratti dell'iniziativa di una regione autonoma come il Friuli che, sebbene non investita di competenze esclusive sulla tutela del patrimonio culturale, configura tuttavia un caso differente rispetto a quelli delle regioni a statuto ordinario discussi in questo articolo.

[3] A quanto mi risulta, le sole ipotesi di convenzione fra Stato e regioni per l'avvio dei Centri di documentazione ad essere state esaminate sono state quella laziale e quella (1987) della regione Veneto, che si è scontrata contro ostacoli frapposti dal ministero per i Beni culturali. L'unico Centro di documentazione ad essere effettivamente partito è, dunque, quello della regione Lazio, che ha dovuto attendere fino al 1987 la stipula della convenzione con lo Stato, peraltro non applicata su un punto essenziale quale la consegna al Centro stesso di copia delle schede di catalogo prodotte dalle Soprintendenze della regione. Anche per questo motivo il Centro regionale del Lazio non è tanto caratterizzato quale centro di consultazione e divulgazione dei materiali di documentazione, quanto per i programmi di ricerca e di censimento che svolge autonomamente.

[4] D'altra parte, data la sovrabbondante varietà di strumenti messi a punto in questa fervida stagione di sperimentazione, si è giunti, credo, a un punto in cui la nascita di nuove iniziative locali indipendenti e la mancata adozione su ampio raggio degli strumenti già disponibili rischia di produrre effetti inevitabilmente antieconomici. Da questo punto di vista è abbastanza preoccupante che, prima ancora di dare l'avvio alla citata intesa fra regioni e Iccd (si veda nota 1) e al Comitato paritetico nazionale ivi previsto, si sia aperto un bando di gara per la fornitura in modalità di appalto degli strumenti software e hardware necessari al Sistema informativo del catalogo generale (G.U. dell'8.1.1996, Serie II), trascurando quindi di avviare una interazione fra Istituto centrale e organismi locali a questo livello di progettazione, che avrebbe attivato importanti sinergie.

[5] L'eccezione è rappresentata dal caso emiliano. Per i fini indicati dalla legge 84/90 le Soprintendenze dell'Emilia-Romagna unitamente all'Istituto per i beni artistici, culturali e ambientali della Regione hanno dato vita a Crc, Centro regionale per il catalogo: una società a capitale misto ( Ibacn al 69%, comune di Bologna al 20% e all'11% Memar.Sit srl) che si candida a valorizzare in modo permanente l'innovazione tecnologica, l'impiego continuativo e razionale del personale addetto al censimento nonché gli utili d'impresa tanto a vantaggio della regione quanto degli organi ministeriali.

[6] Si vedano i casi del Centro regionale di documentazione del Lazio (almeno quanto all'Ufficio documentazione in materia archeologica, storico-artistica ed architettonica), del Centro regionale di documentazione del Veneto, del Centro regionale per il catalogo dell'Emilia-Romagna, del Piemonte, dell'Umbria, della Val d'Aosta, ecc.

[7] La punta più avanzata di questo dissenso con l'Iccd è rappresentata dalla Lombardia, che nel proprio Sistema informativo ( Sirbec) ha decisamente mirato ad una coerente e generale messa a punto di standard di rappresentazione, sintassi e contenuto, a costo di modificare su alcuni punti la strutturazione dei dati dell'Iccd. Ciò rientra nell'obiettivo della regione di avviare e condurre in tempi rapidi un rilevamento esteso a varie tipologie di oggetti, garantendo un'omogeneità di impianto ai diversi tipi di schede ma senza scontare i tempi imprevedibili della normalizzazione degli standard a livello ministeriale. La strategia seguita dalla regione ha inteso garantire successivi feed-back per ottenere una piena reversibilità dei dati col Sistema informativo centrale sulla base di standard nazionali, una volta che questi siano stati univocamente definiti: a tal fine i dati sono stati parzializzati al massimo e strutturati in modo da poterli manipolare efficacemente anche in vista di conversioni future. Il dissenso tra regione e organi del ministero si impernia sulla mancata reversibilità attuale delle schede regionali rispetto al Sistema informativo centrale del catalogo generale (sul quale peraltro, in attesa della sua nuova configurazione per cui si veda a nota 4, sono confluite pochissime schede di catalogo regionali, tutte prodotte coi finanziamenti delle leggi straordinarie del '90 e del '92).

[8] Nel caso dell'Umbria il decentramento è ancora in corso, nel quadro di una ripartizione di competenze tra i musei locali che riguarda preminentemente l'organizzazione degli uffici e l'assegnazione di risorse sia tecniche sia finanziarie sia umane e non, quindi, la configurazione di un sistema informatico unificato. Nel Sistema museale regionale i musei diventano i nodi su cui converge ogni attività di indagine e di documentazione, nonché di valorizzazione per il territorio circostante. Nel caso della Lombardia, già precedentemente richiamato, il principio-base del Sistema informativo adottato è stato quello di lasciare ai proprietari e gestori dei beni il compito di effettuare il censimento dei beni stessi e la piena disponibilità dei dati prodotti, nonché la facoltà di accesso alle banche dati della regione grazie ad un collegamento telematico in rete. Per questa impostazione di partenza si sono tenute presenti nella configurazione delle schede impiegate a livello locale le esigenze di ogni singola istituzione e di ogni museo, aggiungendo quelle voci o quelle funzioni che meglio rispondevano alle particolari esigenze di gestione dell'ente. La definizione degli standard impiegati a livello regionale copre soltanto il nucleo essenziale delle informazioni comuni a ogni scheda, oltre alle norme di rappresentazione di particolari tipi di oggetti e a criteri più generali di compilazione delle diverse voci.

[9] Si vedano le ancora attuali osservazioni di A. Paolucci, Il catalogo dei beni culturali di pertinenza ecclesiastica nelle Province di Firenze e Pistoia, Bollettino d'arte, II-III, 1973, 186 ss.

[10] A questo proposito può essere citata come esempio la legge regionale 35 del 14.3.1995 del Piemonte per l'individuazione, tutela e valorizzazione dei beni culturali architettonici nell'ambito comunale. Essa prevede un censimento dei "caratteri architettonici, costruttivi e decorativi con significato culturale, storico, architettonico, ambientale degli edifici" realizzato dai comuni con il concorso tecnico e finanziario della regione, i cui risultati vanno a costituire un allegato al Regolamento igienico edilizio di ogni singolo comune e forniscono, quindi, la base per l'erogazione di contributi ai proprietari dei beni per la salvaguardia di questi. La scheda di censimento, messa a punto dal Csi - Piemonte (che cura il Sistema informativo per i Beni culturali e ambientali della regione), è un estratto parzialmente rielaborato della scheda inventariale dell'Iccd, che presenta una notevole chiarezza e agilità prestandosi ad un facile uso da parte delle amministrazioni comunali.

[11] In realtà ogni valutazione quantitativa del lavoro di censimento a livello nazionale è ostacolata dalla mancanza di dati completi e aggiornati, che integrino il quadro fornito dal Rapporto sull'attività di catalogazione in Italia. Anni 1970-1987, a cura di S. Papaldo e G. Zuretti Angle, 1988, quadro peraltro comprensivo delle sole schede di catalogo e non di quelle inventariali o di precatalogo.


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