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La nozione di paesaggio

“Paesaggio”: storia italiana, ed europea, di una veduta giuridica [*]

di Giuseppe Severini

Sommario: 1. Alle origini: la comune cultura europea per la difesa del paesaggio e le "bellezze naturali". - 2. I grandi periodi. - 3. Prima e dopo la legge Croce (1922). - 4. Luigi Parpagliolo. - 5. Dalla legge Croce del 1922 alla legge Bottai del 1939. - 6. La Costituzione e il lungo silenzio. - 7. La fine del lungo silenzio: A.M. Sandulli e A. Predieri. - 8. I due scritti di Predieri. - 9. Le varie concezioni a confronto. - 10. Conclusioni.

“Landscape”: italian and european history of the legal concept
The text shows the evolution of the legal concept of landscape in Italian law and legal doctrine from the beginning of the twentieth century, with the 1905 law for the preservation of the pinewood of Ravenna. The legal concept was formed at that time, in a common European context, to respond to the worries of alterations generated by social and territorial transformation. The Italian doctrine on the subject has several seasons and concerns, in a continuity of thought reasons and legislation, above all the "beauties of nature", understood in a historical and cultural sense. A long silence on the theme follows the post-war period, in the age of reconstruction development. Then comes a new attention: this is the moment of Predieri's writings, which calls for an integral landscape protection because form of whole the territory. Its historical contextualization, compared to the great infrastructural transformations of the time, allows us to grasp a new interpretation.

Keywords: Landscape; Protection; Legal history.

1. Alle origini: la comune cultura europea per la difesa del paesaggio e le "bellezze naturali"

Nel linguaggio normativo italiano la parola "paesaggio" compare solo settant'anni fa, all'art. 9 della Costituzione. Tra le leggi arriva molto più tardi, con il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42): che pone anche una definizione del concetto all'art. 131, commi 1 e 2 ("Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni // Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali") [1], così distinguendolo dai più ristretti e qualificati (per dichiarazione amministrativa, per legge, per piano paesaggistico) "beni paesaggistici" (art. 134), cioè "gli immobili e le aree indicati [...] costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge"), componenti il patrimonio culturale insieme ai beni culturali (art. 2, comma 1). Distinzione di grande rilievo, perché manifesta due livelli di rilevanza giuridica del valore del paesaggio: da un lato conferma le normative precedenti circa la selezione di quello di particolare interessi sottoposto al regime della tutela, dall'altro afferma implicitamente che comunque l'intero paesaggio, quale che sia, va in ogni caso considerato come un valore identitario. Si compone così nella legge, proporzionatamente, una contrapposizione concettuale che data almeno mezzo secolo e di cui vanno ripercorsi i tratti essenziali.

Prima del Codice, dal 1922 - cioè dalle origini della legislazione organica di tutela, posta con la legge 11 giugno 1922, n. 778 - al 2004, nell'ordinamento non si parlava di "paesaggio", ma di "bellezze naturali"; o al più si utilizzavano aggettivi derivanti da "paesaggio", come il "piano territoriale paesistico" dell'art. 5 l. 29 giugno 1939, n. 1497 per le "vaste località incluse nell'elenco" delle "bellezze d'insieme"; o, come il "vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497", evocato dalla legge Galasso n. 431 del 1985.

L'endiadi "bellezze naturali" - confermano queste aggettivazioni, i lavori preparatori delle leggi e i lavori della dottrina - stava, all'ultimo, per "paesaggio": o meglio per "beni paesaggistici", a considerare la distinzione segnata nel 2004 dal Codice. Ma l'endiadi si riferiva a un'accezione dal significato particolare, implicante una perimetrazione della rilevanza giuridica e una finalizzazione degli strumenti amministrativi: a contrario, esistevano dunque anche altri ambiti di paesaggio, privi di rilevanza - almeno immediata - per la legge. Del resto, la stessa progressiva, lunga concettualizzazione pregiuridica di "paesaggio" era contrassegnata da una relatività di fondo [2]. Nel contenuto - nell'ambito artistico e letterario in cui nei secoli si era formata - era comunque rimasta incerta anche dal punto di vista dei valori che raffigurava. Dal che la difficoltà dell'identificazione non solo dei modi tecnici della tutela, ma anche dell'àmbito della rilevanza giuridica una volta che, all'inizio del secolo XX, la difesa del paesaggio è stata teorizzata e tradotta in legge [3]. Non solo: la crescente mobilitazione di opinione pubblica a cavallo tra XIX e XX secolo che era alla base dell'innovazione legislativa, era sollecitata dalle offese percepite che le nuove trasformazioni recavano al senso estetico diffuso e al valore identitario dei luoghi: il che conferiva dell'idea di paesaggio da proteggere un'accezione non integrale e uniforme, ma orientata soprattutto a quei particolari valori. È su quel bisogno di diritto, socialmente emergente, che si andava modellando l'idea di "quale" paesaggio tutelare e di come quest'idea potesse giustificare, per la prima volta nello Stato moderno, l'introduzione di eccezionali limiti qualitativi all'utilizzazione della proprietà privata immobiliare.

Il rapporto tra dimensione giuridica e dimensione extragiuridica, del resto, era e rimane tuttora intrinseco all'oggetto. Per il giurista - di allora come di oggi - si tratta di un tema che, a estendere quanto dice M.S. Giannini [4] dei vicini "beni culturali", corrisponde a una "nozione aperta, il cui contenuto viene dato da teorici di altre discipline": cioè di una "nozione liminale, ossia nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio contenuto, una propria definizione per altri tratti giuridicamente conchiusi, bensì opera mediante rinvio a discipline non giuridiche"; che molto deve alle concezioni extragiuridiche, le quali a loro volta molto variano nel tempo.

La tendenziale surroga precodicistica di "paesaggio" con "bellezze naturali", per chiamare ciò che si voleva rilevare per il diritto, aveva dunque la funzione vuoi di segnare la consistenza di bene giuridico (il "paesaggio" fuori dalle "bellezze naturali" restava senza rilievo [5]), vuoi di codificarlo per uno dei possibili significati o aspetti che avrebbe potuto rappresentare: quello preminente, certo, ma non l'unico. Il che avvenne utilizzando quell'endiadi suggestiva che presto però divenne tralaticia: e che - come qui si vedrà - in origine segnava una dimensione minore di quella poi coperta dalla realtà che in diritto vi si andava concretando.

2. I grandi periodi

La questione della rilevanza giuridica del paesaggio nell'Italia unita copre l'arco di poco più di un secolo: per essere precisi, centotredici anni.

Il dato autorizza a evidenziare la dimensione storica: è un "secolo lungo", fatto anche da intermittenze. Al suo centro si colloca - come a segnare il vertice di una curvatura - lo scritto di Alberto Predieri del 1969 sul "Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio [6].

Si tratta di un percorso che concerne legislazione, dottrina e giurisprudenza costituzionale; dal quale restano a lungo poco implicate la giurisprudenza amministrativa e ordinaria [7]. Ne cercheremo le ragioni.

Com'è reso chiaro dalla vicenda nominale, anche in questo tema conta considerare che, se davvero gli ordinamenti si materializzano nell'esperienza quotidiana, è la realtà effettiva che fa del diritto un fenomeno che riflette ed esprime i valori percepiti della società [8]. Il percorso storico del significato giuridico di "paesaggio" ne offre una dimostrazione. È bene muovere dal dato formale, identificando le pietre miliari di questo percorso: consentono di periodizzare, com'è buon metodo per un'indagine storica.

In effetti, la storia della normazione specifica sul paesaggio o sulle bellezze naturali può essere ripartita - messa a parte l'anticipatoria, ma episodica e particolare, legge Rava 16 luglio 1905, n. 411 per la conservazione della pineta di Ravenna - in tre grandi stagioni:

I) un primo periodo è segnato dalla legge Croce 11 giugno 1922, n. 778 (Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico), dopo poco più di tre lustri sostituita - in buona sostanza, aggiornata e arricchita - dalla legge Bottai 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), con relativo regolamento per l'applicazione (r.d. 3 giugno 1940, n. 1357). Vi fece stretto stretto seguito l'articolo 9 della Costituzione che - come efficacemente scrive S. Cassese - costituzionalizzò le teste di capitolo della legge del 1939 [9].

II) un secondo periodo è caratterizzato dal d.l. Galasso 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito dalla l. 8 agosto 1985, n. 431, che legificava il contenuto principale del d.m. 21 settembre 1984 [10] e generalizzava per categorie legali il "vincolo paesaggistico" della l. n. 1497 del 1939.

III) un terzo periodo (a parte la breve durata del Titolo II - Beni paesaggistici e ambientali, del d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 - Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352, che solo compilava le norme generali precedenti) è segnato dalla Parte III del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) con la messa a punto avvenuta con la sua seconda integrazione e correzione di cui al d.lg. 26 marzo 2008, n. 63.

A sua volta, il lungo intervallo tra la prima e la seconda stagione è connotato da una quasi sospensione dell'indagine giuridica specifica, interrotta solo nel 1967 con i lavori e la Relazione della Commissione Franceschini, cioè la Commissione d'indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, artistico e del paesaggio, istituita in base alla L. 26 aprile 1964, n. 310 per l'indagine su tutela e valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio; e - come meglio si vedrà - in dottrina dallo scritto di A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione [11] e dal volume di G. Pasini, La tutela delle bellezze naturali. Contributo ad una ricerca sistematica, Napoli 1967.

Questo secolo lungo del diritto del paesaggio parrebbe evocare un fiume carsico, che si interra a lungo per poi riemergere. Ma non è l'immagine giusta: la normazione specifica sul paesaggio non esaurisce il tema, perché l'oggetto è, negli intervalli, trattato altrove. È semmai preferibile l'immagine di una confluenza, ma solo temporanea, nell'alveo di un altro fiume, l'urbanistica, e poi in parte di un altro ancora, la tutela dell'ambiente.

Infatti, tra il primo e il secondo periodo, e dopo lo scritto di Predieri del 1969, il tema del paesaggio non viene dimenticato: ma viene preso in considerazione dalla legge in àmbito parallelo, essenzialmente sub specie di governo del territorio, cioè di rapporto con l'assorbente - si voleva specie da parte delle neonate regioni - "urbanistica" e dunque sull'asse delle competenze tra Stato e regioni, a muovere dal d.p.r. 15 gennaio 1972, n. 8.

Questo tratto parallelo mostra il suo apice normativo nell'art. 80 e nell'(originario) art. 82 d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616. Mentre l'art. 82 (Beni ambientali) aveva delegato alle regioni le funzioni relative alla protezione delle "bellezze naturali", l'art. 80 (Urbanistica) aveva sublimato l'accezione "panurbanistica", per risolvere in quell'onnicomprensiva prospettiva ogni vicenda incidente sul "governo" o "gestione del territorio". Una questione essenzialmente - poi sempre più è apparso chiaro - di lotta per le competenze e che appunto culminò in quell'art. 80, per il quale "Le funzioni amministrative relative alla materia "urbanistica" concernono la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente". A questa accezione seguì nel 1985 il deciso revirement della normativa Galasso, che - sulla base del non soddisfacente uso fatto dalle regioni dei poteri acquisiti - segnò l'avvio del secondo periodo di tempo di cui ci occupiamo.

Un elemento, inoltre, che va preso in considerazione e che si colloca a cavallo del secondo e terzo tratto è la Convenzione europea del paesaggio, adottata dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell'Ambiente del Consiglio d'Europa il 19 luglio 2000, sottoscritta a Firenze il 20 ottobre 2000, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14.

3. Prima e dopo la legge Croce (1922)

Conviene passare ad approfondire la prima stagione, dove si pongono le fondamenta. Come si va a vedere, è attorno alla legge Croce del 1922 - alla sua nascita, alla sua prima interpretazione - che si individuano i valori essenziali del bisogno di norme, che poi emergeranno con chiarezza definitiva nella formulazione del principio fondamentale dell'art. 9 della Costituzione.

Il dato testuale, anzitutto. La legge Croce 11 giugno 1922, n. 778 (Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico), stabilì all'art. 1:

"Sono dichiarate soggette a speciale protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. // Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche".

Diciassette anni dopo, su quella stessa linea, la legge Bottai 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), stabilì all'art. 1, primo comma:

"Sono soggette alla presente legge a causa del loro notevole interesse pubblico:

1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;

2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d'interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza;

3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;

4) le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze".

Notevole fu il dibattito che precedette la legge Croce (presentata ad iniziativa di Benedetto Croce, ministro della pubblica istruzione nell'ultimo governo Giolitti), ricco di rapporti e comparazioni con coeve iniziative straniere. In quasi tutta l'Europa occidentale, infatti, si muoveva verso la giuridificazione della protezione del paesaggio o della natura.

Le principali, prime leggi non italiane a rilevare furono quella francese del 21 aprile 1906 ["organisant la protection des sites et monuments naturels de caractère artistique", che prevedeva l'iscrizione in un'apposita lista dipartimentale "des propriétés foncières dont la conservation peut avoir, au point de vue artistique ou pittoresque, un intérêt général" [12]] e quella prussiana del 15 luglio 1907.

In quel primo decennio del '900 emergeva la polarizzazione tra due idee distinte, per quanto entrambe selettive e non "integrali", di paesaggio di pregio da proteggere, pur se nella pratica poco distanti: il che rifletteva la divergenza di fondo tra - per usare un'opposizione concettuale oggi in uso - Kulturladschaft e Urladschaft (o Naturladschaft), cioè tra paesaggio come prodotto dell'interazione storica tra uomo e natura, e paesaggio come creazione originaria ed eminente della natura: la prima, sin da allora, prevale nel mondo latino, la seconda in quello germanico [13].

La legge francese, detta Beauquier [14], del 1906 "ayant pour objet la protection des sites pittoresques", riferendosi testualmente riferimento al "pittoresco" [15], dava valore all'attrazione estetica e pittorica: la quale, per sua caratteristica, non si ferma al puro "bello di natura" perché il bello dell'oggi può consistere anche in risalenti interventi dell'uomo. Quella prima legge vennepoi assorbita dalla legge 3 maggio 1930 e questa completata dalla legge 1 luglio 1957 e il tutto dalla legge sul paesaggio del 1993 (oggi: artt. da L.341-1 a L.341-22 del Code de l'environnement). Si basava appunto sull'idea "pittoresca" del paesaggio, paesaggi grandiosi e bellezze naturali che avevano ispirato i pittori: il paesaggio dunque come "quadro naturale". La legge del 1930 parla così di: "monuments naturels et [...] sites dont la conservation ou la préservation présente, au point de vue artistique, historique, scientifique, légendaire ou pittoresque, un intérêt général" [16].

La legge prussiana rifletteva l'accezione romantica e il proto-ecologismo tedesco e le sollecitazioni del vasto movimento delle associazioni spontanee Heimatschutz. Era stata preceduta da una legge del Granducato di Assia-Darmstadt (1902) e recepiva l'accezione prettamente naturalistica che derivava dall'idea del naturalista esploratore e botanico Alexander von Humboldt (1769-1859): il quale nella Relation historique del suo viaggio in America meridionale e centrale (1799-1804) aveva elaborato il concetto di Naturdenkmal (monument de la nature). Egli, fratello del filosofo, linguista e diplomatico Wilhelm von Humboldt, aveva catalogato una quantità di curiosità o particolarità geologiche e della flora trovate nei suoi viaggi per il mondo. Quest'idea di valore naturalistico del paesaggio si radicò in Germania ma ad es. anche negli Stati Uniti, dove fu recepita dall'Antiquities Act dell'8 giugno 1906 (e dove già nel 1872 era stato istituito il parco nazionale di Yellowstone). Gli assunti di von Humboldt si incontrarono con quelli successivi dell'austriaco Alois Riegl (1858-1905), presidente della Reale e Imperiale commissione per lo studio e la conservazione dei monumenti storici artistici, a proposito del "culto moderno dei monumenti" [17] (1903), che aveva elaborato l'idea del valore di vetustà (Alterswert) come valore sentimentale della popolazione, non già esclusivo, aristocratico, o specialistico. Da queste basi si affermò allora negli stati tedeschi un'idea della tutela imperniata sull'idea di Denkmal ("monumento"), coi connessi valori di permanenza e di memoria, che poi si estese fino a parlare di Kunst-, Geschichts- e Naturdenkmäler (monumenti dell'arte, della storia e della natura), e così al paesaggio. Su queste basi fu formulato nel 1919 l'art. 150 della Costituzione di Weimar, per il quale "Die Denkmäler der Kunst, der Geschichte und der Natur sowie die Landschaft genießen den Schutz und die Pflege des Staates" [I monumenti dell'arte, della storia e della natura come anche il paesaggio beneficiano della tutela e della cura dello Stato] [18]. L'impronta della legge prussiana venne poi ripresa e generalizzata dalla nota Reichsnaturschutzgesetz (RNG) del 26 giugno 1935, rimasta in vigore in Germania occidentale fino al 1976, in DDR fino al 1976, in Austria fino al 1997 [19].

Per il vasto mondo italiano attento al tema, che comunicava intensamente con quello francese [20], occorre muovere, prima che dalla legge Croce del 1922, dall'episodica quanto significativa legge Rava 16 luglio 1905, n. 411 per la conservazione della pineta di Ravenna, anticipatoria non tanto sul piano delle formulazioni normative quanto del concetto sostanziale di paesaggio da proteggere. Si presenta come una legge-provvedimento che nulla esplicitamente dice circa la protezione del paesaggio, perché solo ne organizza lo sviluppo in una vicenda concreta, e in realtà in senso nemmeno conservazionista quanto ricostruttivo. Il suo carattere fondativo sta però nelle motivazioni che la mossero e che si ricavano dal vivace dibattito che la precedette e dai lavori preparatori.

Infatti la legge n. 411 del 1905 (Recante dichiarazione d'inalienabilità, a scopo di rimboscamento, di relitti marittimi nella provincia di Ravenna, per la conservazione della pineta) è simbolicamente finalizzata al rimboschimento dei relitti marittimi [21] della compromessa pineta demaniale: non nomina né il "paesaggio" né le "bellezze naturali". Promossa dal ravvennate Luigi Rava, ministro dell'agricoltura (che poi da ministro della Pubblica istruzione patrocinò la legge Rosadi n. 364 del 1909), al movimento che la supportò si deve la connotazione storico-culturale che è andata a caratterizzare la salvaguardia del "paesaggio": era voluta per proteggere non solo una particolare porzione del litorale adriatico, ma anche il luogo celebrato da una novella del Decamerone - quella di Nastagio degli Onesti - e dalle tavole della scuola del Botticelli [22]: e fondava l'intervento sulla storia del sito e le sue memorie, da Odoacre e Teodorico alla "divina foresta spessa e viva" di Dante, a Dryden, a Byron, a Giuseppe e Anita Garibaldi [23].

Ferma quest'importante anticipazione, la sollecitazione dell'opinione pubblica e dei tanti movimenti era di giungere ad una legge che proteggesse in via generale le bellezze naturali. Il movimento era vasto e diffuso, aggregato intorno alle prime, numerose, associazioni protezioniste, di escursionisti e di turisti in bicicletta, nuovo ed economico mezzo per viaggiare che faceva accedere a luoghi lontani dalle ferrovie e meglio conoscere l'Italia: ad es. il Club alpino italiano (Torino, 1863), il Touring club italiano (Milano, 1894); la Lega nazionale per la protezione dei monumenti naturali, 1912) [24]. Ma anche alcuni giuristi si mobilitarono e da loro prese il via l'idea della definitiva giuridificazione della protezione del paesaggio.

Già da quei primi passi era manifesto il collegamento paesaggio e cultura, arte, storia, letteratura [25]. Queste associazioni raccoglievano nuove figure sociali acculturate e interessate, per formazione, alla conoscenza e alla salvaguardia delle "bellezze naturali" del "Bel Paese" [26] a reagire alle alterazioni causate dalla scomposta trasformazione urbana post-unitaria. I loro assunti essenziali riflettevano una circolazione di idee comuni con la Francia, in reciproca "duplice influenza" [27], che si rispecchiava nella legge generale francese del 1906.

È stato ricostruito [28] che Rosadi, nel presentare la proposta di quella che sarebbe stata la legge del 1909, usò le parole di Gabriele D'Annunzio ne Il Piacere (1889) a proposito dello strame dei romani "cipressi ludovisii". E che D'Annunzio, che oggi è additato come antesignano del protezionismo [29], aveva ripreso concetti dallo scrittore Maurice Barrès (1862-1923), esponente della droite républicaine e poi del nazionalismo francese, per il quale il paesaggio è "émanation du génie d'un peuple", in stretto legame morale tra Patria e patrimonio nazionale [30] [31].

La giusta sede legislativa sarebbe stata quella dell'incipiente, seppur dalla nascita a sua volta tormentata, legge sulla protezione delle antichità e belle arti (la legge Rosadi-Rava 20 giugno 1909, n. 364 - che stabilisce e fissa norme per l'inalienabilità delle antichità e delle belle arti). Così, nel 1908 al disegno di legge Rosadi fu introdotto in itinere un emendamento, provocato da alcuni lavori su Villa Borghese, che avrebbe voluto assoggettare alla tutela delle cose d'arte anche "i giardini, le foreste, i paesaggi". Ma la previsione poi cadde in Senato con quelle sulle "bellezze naturali", da un ordine del giorno rimandate a un'apposita legge sul paesaggio per l'opposizione dei senatori Fabrizio Colonna e Baldassarre Odescalchi, principi romani "bianchi" e componenti dell'Ufficio centrale del Senato che esaminò l'iniziativa, contrari a ogni norma sul paesaggio. Sicché la legge Rosadi finì per trattare solo delle cose d'arte (e nemmeno delle cose di stretto interesse storico) e - salva la sua estensione con la legge Credaro 23 giugno 1912, n. 688 alle "ville, ai parchi e ai giardini che abbiano interesse storico o artistico" - solo con la legge Croce n. 778 del 1922 si arrivò davvero a una normativa sulla "tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico".

Dopo lo stralcio del 1908, il dibattito in effetti non si sopì, anzi incontrò il valido supporto di importanti giuristi, che posero i fondamentali di quella che sarebbe stata l'accezione della tutela giuridica del paesaggio italiano. Passata la Grande Guerra, ne sarebbe nata la legge promossa da Benedetto Croce ministro della pubblica istruzione.

Tra i primi scritti giuridici di particolare rilievo meritano attenzione quello del giovane avvocato abruzzese (Caduto nel 1916) Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa, Firenze 1914, per il quale le ragioni per salvaguardare le "armonie viventi" del paesaggio a beneficio delle future sono estetiche e storiche (ma anche etiche) e quello di P. Gentile, La protezione giuridica delle bellezze naturali, in Dir. e giurispr., 1914, 329.

Di particolare rilievo fu il testo, denso e ricco di annotazioni comparatistiche, di una conferenza tenuta al Circolo giuridico di Roma nel 1912 da Mario [Mariano] D'Amelio sulla Tutela giuridica del paesaggio [32]. Vi si legge quello che per tre decenni almeno diverrà un ritornante leitmotiv: la frase, attribuita a John Ruskin (1819-1900), per cui il paesaggio è "il volto amato della Patria" [33]. D'Amelio riteneva che già la legge n. 364 del 1909 - da cui la tutela del paesaggio era stata scorporata nel lavori parlamentari - sarebbe bastata a tutelare le "bellezze naturali", salvo che per i paesaggi meramente naturali, cioè le "bellezze spontanee della contrada" e i "paesaggi puramente pittoreschi", le cascate d'acqua, le spiagge, le caverne, le grotte: perché "non sono artistiche" e "il loro valore estetico non si può confondere con il pregio artistico".

4. Luigi Parpagliolo

Il principale esponente di questo pensiero, che legherà in continuità concettuale la legge Croce del 1922 e la legge Bottai del 1939, fu un'esemplare figura di grande servitore dello Stato, funzionario colto e capace (dal 1900), poi dirigente ministeriale (fino al 1936), il calabrese Luigi Parpagliolo (1862-1953), membro di entrambe le commissioni che elaborarono le leggi del 1922 e del 1939. Egli divenne direttore generale per le antichità e belle arti del ministero della Pubblica istruzione (poi dell'educazione nazionale), e - anche dopo la cessazione dal servizio - restò componente preminente della cerchia del ministro (1935-43) Giuseppe Bottai. In tale veste, Parpagliolo fu membro tra i più attivi della commissione per la revisione della legge Croce e collegò generazioni di funzionari per tutti gli anni '20 e '30; le sue proposte confluirono nella legge Bottai n. 1497 del 1939.

Nell'attività ministeriale a Parpagliolo si riferivano figure di spicco nella storia della tutela del patrimonio nazionale e a sua volta egli si riferiva a figure preminenti suoi predecessori nella direzione generale, come Corrado Ricci (1858-1934: ravennate, direttore generale per le antichità e belle arti (1906-19); senatore dal 1923, tra i principali promotori della legge Rosadi) [34], Arduino Colasanti (1877-1935; romano, direttore generale per le antichità e belle arti (1919-1928)) e Roberto Paribeni (1876-1956: romano, archeologo, direttore generale per le antichità e belle arti (1928-1933)); e in contatto con lui era il fecondo gruppo della Pro Montibus et Sylvis, promotore già in via privata (1922) del Parco d'Abruzzo, con Giambattista Miliani (1856-1937: fabrianese, industriale della carta, ministro dell'agricoltura nel 1917, senatore dal 1929), Alessandro Chigi (1875-1970: bolognese, zoologo, rettore dell'Università di Bologna (1930-43), senatore nel febbraio 1943), Pietro Romualdo Pirotta (1853-1936: pavese, botanico), Erminio Sipari (1879-1968: frusinate, cugino di Croce e primo presidente del Parco d'Abruzzo) ed altri.

Nei decenni '20 e '30 Parpagliolo collaborò con una figura di primo rango dell'architettura italiana, Gustavo Giovannoni (1873-1947: fondatore della facoltà di architettura di Roma, padre della riforma della didattica in materia architettonica del 1919), tra i primi teorici europei del recupero dei centri storici, per il quale i monumenti vanno preservati insieme al loro contesto [35].

Luigi Parpagliolo fu autore di saggi rimasti essenziali, a muovere da un'indagine, nel 1905, sulla legislazione degli altri paesi europei, sintetizzata in La protezione del paesaggio, in Fanfulla della domenica, 1905, 36 e 37; e poi Per le bellezze naturali d'Italia (in Nuova Antologia, 16 novembre 1911); Per una legge che tuteli le bellezze naturali d'Italia (in Nuova Antologia, 1 aprile 1914); La legislazione estera in materia di tutela delle bellezze naturali e del paesaggio, Touring Club Italiano, 1922. Testimonianza evidente di una comune matrice europea, nei concetti come nella strumentazione, per la definizione giuridica della tutela del paesaggio.

Lo scritto preminente di Parpagliolo, il più noto, è rimasto La difesa delle bellezze naturali d'Italia, Roma 1923: i primi due capitoli sono dedicati a Del sentimento della natura e del dissidio con le esigenze della vita moderna, e a Del movimento in Italia a favore delle bellezze naturali e le prime provvidenze legislative. Segue una trattazione dei fondamenti giuridici delle leggi sulla difesa delle bellezze naturali. In appendice un articolo su I parchi nazionali all'estero e in Italia [36]. Parpagliolo, sul concetto di "bellezze naturali" agli effetti della l. n. 778 del 1922 sottolinea che "nulla è sottoposto a maggiore relatività del bellezza"; poi che per "difesa del paesaggio" alcuni intendono "i luoghi che hanno un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale, altri di siti e di paesaggi, altri di monumenti naturali, altri di siti semplicemente pittoreschi. 'Paesaggio', si dice, è una parte di territorio i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco o estetico a causa della disposizione delle linee, delle forme e dei colori. 'Sito' è una parte di paesaggio di un aspetto particolarmente interessante. 'Monumento naturale' è un gruppo di elementi dovuti alla natura come rocce, alberi, cataclismi, accidentalità di terreno e simili [...], Si aggiunge che un paesaggio può comprendere degli elementi puramente naturali, oppure riunire in sé, nel suo insieme, delle opere dell'uomo come costruzioni, rovine, campanili, piccoli centri abitati ecc., Non diremo che codeste definizioni sono perfette nel senso che esse abbracciano veramente tutta la materia, compresa, a nostro avviso, nell'espressione 'bellezze naturali' [...]".

Richiamando poi l'esempio paradigmatico del villaggio alpino - prospettato nel 1919 da G. Giovannoni nella commissione che predispose la legge Croce (riprendeva un concetto già espresso nel 1918 dal magistrato e letterato napoletano Giuseppe Lustig (1862-1930) [37]) per assumere che il paesaggio è sia quello naturale, sia anche quello "opera degli uomini" - Parpagliolo precisa il significato dell'espressione "complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale", dell'art. 1, primo comma, n. 3), l. n. 778 del 1922: "[...] vanno comprese tra le cose da difendere anche quelle che, essendo espressione non della natura ma dell'uomo, hanno essenziale valore paesistico: e questo valore ha assunto, nel tempo e per l'inquadratura degli elementi circostanti, carattere tradizionale di ambiente".

Questo scritto di Parpagliolo aveva carattere volutamente ellittico, giuridico ed extragiuridico. Ma la sua impronta restò determinante nel pensiero giuridico, seguito da altri suoi scritti di rilievo: da Per la migliore tutela delle Bellezze Naturali. La Consulta, in Le Vie d'Italia, XV, 1935 o La protezione delle bellezze naturali, in Le vie d'Italia, settembre 1939; a, soprattutto, le voci, in buona parte simili tra loro, La protezione del paesaggio, in Enc. Italiana Treccani, 1935, XXV, 908 e Bellezze naturali, in Nuovo dig. it., Torino 1937, II, 257.

Quanto al contenuto, Parpagliolo muoveva dalla definizione di "paesaggio" secondo i principi del paesaggio pittoresco della legge francese del 21 aprile 1906: "una parte di territorio i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco od estetico a causa della disposizione delle linee, delle forme e dei colori". Di fronte a questa limitazione, egli propose di estendere "l'aspetto delle città storiche, gli spazi liberi che circondano le grandi città" e ad elementi dell'ambiente e della "tradizione" popolare.

Egli, analizzando la legge Croce nella voce Bellezze naturali del Nuovo digesto italiano (che, vale rammentare, era diretto da M. D'Amelio) [38], diceva evidente che "la ragione della [speciale] protezione legale sta tutta nell'interesse che emana dalla bellezza delle cose immobili e dalla loro particolare relazione con la storia civile e letteraria": e distingueva le "bellezze naturali" [e storico letterarie: es. "la Grotta azzurra di Capri, il Bosco di San Benedetto a Subiaco, i cipressi del Carducci a San Guido"] di cui all'art. 1, primo comma ["le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale "] da "le bellezze panoramiche" "o meglio il paesaggio, che sfugge a una precisa identificazione" di cui all'art. 1, secondo comma ("la Riviera ligure, la Conca d'Oro, Posillipo, Taormina"); il paesaggio dunque "mal si presta ad essere raggiunto dalla stessa norma legislativa dettata per le cose individuabili nei loro confini e nelle loro caratteristiche".

È patente la distinzione che poi la legge Bottai andrà a codificare, indicando le prime - cioè le "bellezze individue" - all'art. 1, nn. 1) e 3) ["1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; 2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d'interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza"]; le seconde - cioè le "bellezze d'insieme" - all'art. 1, nn. 3) e 4) ["3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; 4) le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze"].

Parpagliolo ribadirà il concetto e la citazione di Giovannoni nel 1939 [39]. Insomma, la sua linea è connessa al pensiero europeo ed è base sia della legge Croce che della legge Bottai ("valore estetico o tradizionale", "quadri naturali"). Sono concetti oggi assorbiti all'art. 2, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 ("espressione dei valori storici [...] ed estetici del territorio") e dalla ricordata 'culturalità' predicata dallo stesso Codice dei 'beni paesaggistici' (artt. 131, 134). Queste considerazioni indicano che la rappresentazione letteraria o pittorica (autorevole o reiterata) può essere di buon supporto testimoniale alla valutazione tecnico-discrezionale che presiede alla funzione di tutela.

Con il governo Nitti (giugno 1919-giugno 1920), su impulso del direttore generale Corrado Ricci fu istituito un Sottosegretariato alle antichità e belle arti. Vi fu preposto lo scrittore e storico veneziano senatore Pompeo Molmenti, già protagonista parlamentare dell'approvazione delle leggi del 1909 e del 1912, poi sostituito da Giovanni Rosadi che vi rimase anche con i governi Giolitti e Bonomi. Fu Molmenti a istituire nel dicembre 1919 la Commissione che avrebbe elaborato la legge Croce. Ne facevano parte Giovanni Rosadi (presidente), l'artista Giulio Aristide Sartorio, presto sostituito da un altro pittore, Camillo Innocenti, Luigi Parpagliolo, il nuovo Direttore Generale Arduino Colasanti, il deputato socialista Matteo Marangoni, critico d'arte e più tardi fondatore della rivista La casa bella (poi Casabella), l'archeologo Vittorio Spinazzola (soprintendente a Napoli), l'avvocato erariale Luigi Biamonti. Benedetto Croce, senatore, ministro della pubblica istruzione (governo Giolitti, giugno 1920-luglio 1921) presentò in Parlamento il disegno di legge [40].

5. Dalla legge Croce del 1922 alla legge Bottai del 1939

La legge Croce n. 778 del 1922 rifletteva, con questo pensiero, un'impronta identitaria, al tempo stesso nazional-liberale ed europea, radicata nella percezione dominante e coerente con il neoidealismo. Grazie agli evidenti scambi che vi avevano presieduto, rifletteva quanto presente altrove, specie in Francia, su simili sollecitazioni per i guasti dell'industrializzazione, dell'urbanesimo e delle infrastrutturazioni; il diffondersi del turismo specie ciclistico o alpinistico, il movimento di letterati, artisti e uomini di cultura; il sorgere spontaneo di innumerevoli associazioni di protezione del "volto amato della Patria".

La legge ebbe applicazione negli anni a seguire, in continuità di concetto e di protagonisti e indifferente al mutamento di regime politico. Ferma l'impostazione giuridica, con il ministro dell'educazione nazionale Giuseppe Bottai prese vita il suo aggiornamento, in vista del quale fu organizzato il Convegno dei soprintendenti del 4, 5, 6 luglio 1938, presieduto dal ministro. Lì la legge Croce fu icasticamente detta, per voce dell'autorevole soprintendente A. Bertini Calosso, "una legge provvida, ma a chi ha la responsabilità della sua applicazione appare in troppi casi insufficiente" [41]. Al convegno partecipò Parpagliolo e insieme a lui diversi altri. Mette conto, per cogliere le linee di pensiero, considerare i principali interventi.

Gli interventi al convegno erano in gran parte in continuità con la linea di D'Amelio (all'epoca primo presidente della Corte di Cassazione) e dello stesso Parpagliolo. Del resto, la legge n. 1497 del 1939 che ne sortì per gran parte è una messa a punto della legge del 1922. Grazie a questa continuità di pensiero, cardine della formula continuava ad essere lo schema di intervento essenzialmente liberale delle legge Croce, incentrato sulla coppia sequenziale di fattispecie giuridiche vincolo/autorizzazione: incardinato su un'idea non costruttivistica e conformativa de futuro del paesaggio, ma conservativa e di vaglio autorizzatorio, inteso come limitazione delle facoltà proprietarie per superiori ragioni di interesse pubblico, da svolgere sulla base di un giudizio tecnico di compatibilità dell'innovazione con la preesistenza storico-naturale da "tutelare". Il paesaggio, insomma, come "patrimonio ereditato" e su cui poter intervenire sì, ma in una prospettiva di continuità e di saldatura tra passato e futuro.

Ma quest'approccio non esaurisce il panorama. Era infatti già dato cogliere alcune accentuazioni in diverso senso, connesse alla trasformazione dell'accezione del ruolo pubblico in senso pianificatorio, dirigista e interventista, proprie della forma mentis politica degli ultimi anni '30; cui probabilmente non era estranea l'esperienza ancor in atto del paesaggio "fondato" delle zone di bonifica, specie pontine, ivi e delle nuove città di fondazione: vale a dire di modellazioni di un "paesaggio", agrario e urbano, e incentrate sul rapporto tra un presente che programma organicamente e un futuro dove si consolida la "nuova", ideata, forma del paese.

È perciò bene qui passare in esame i principali interventi di quel convegno, o comunque espressi in riviste in quella temperie. Mentre il rilievo della dimensione antropica ("il lavoro dell'uomo") era accetto e ben presente in tutti (ricusando definitivamente l'accezione strettamente naturalistica del paesaggio), non vi era uniformità di vedute sul carattere meramente conservativo dell'azione pubblica. È questo era il lato più rilevante per cogliere alcuni tratti di quello che sarà l'effettivo sviluppo degli orientamenti nel quarantennio successivo. Bati mettere a confronto due figure di prim'ordine nella elaborazione della legge Bottai, anche dal punto di vista del rilievo politico: Gustavo Giovannoni e Marino Lazzari.

Il consigliere di Stato Leonardo Severi, presidente della commissione ministeriale che elaborò la legge n. 1497 del 1939 e che ne aveva esteso la relazione ministeriale [42], sottolineò che "il concetto di bellezza naturale è quanto mai vago e indeterminato perché, come avverte la relazione ministeriale [da Severi stesso redatta] al disegno di legge davanti alla Camera dei fasci e delle corporazioni, v'è dentro tanta incertezza quanta ne trasferisce il concetto stesso di bellezza". A proposito dei "paesaggi", Severi rimarcava che il nuovo testo contemplava due categorie di "bellezze d'insieme", i "paesaggi" e i "panorami" (la cui differenza non è messa in rilievo dalla legge). Il paesaggio è "il prodotto della spontanea concordanza e fusione tra l'espressione della natura e quella del lavoro umano, mente il panorama è dalla legge chiamato un quadro naturale: epperò è difficile da ritenere che nel paesaggio l'elemento lavoro umano sia visibile e efficiente, e nel panorama sia inesiste e irrilevante"; meritevole di tutela quel paesaggio che "sia il prodotto della spontanea concordanza e fusione tra l'espressione della natura e quella del lavoro umano" [43].

Gustavo Giovannoni, come si è ricordato figura centrale per l'urbanistica e l'architettura italiane di allora, commentando a caldo La nuova legge sulla difesa delle bellezze naturali [44], esordì evocando "la difesa del sacro volto della patria" e la forza della letteratura come mediatrice con l'intuizione. Sottolineò che il riferimento della legge a "3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale" "comprende [...] nella tutela anche le cose che sono opera non della natura del lavoro dell'uomo quando abbiano assunto [...] talvolta nel mimetismo con l'ambiente naturale un valore paesistico di bellezza di tradizione": evoca i tradizionali paesaggi urbani, li chiamava bellezze "quasi naturali"). E per quanto egli si collocasse nella linea di pensiero consolidata, l'attrazione dei paesaggi urbani tradizionali (i centri storici, si sarebbe detto anni dopo) nell'ambito dei paesaggi protetti manifestava uno spostamento verso il tema della città da salvaguardare [45].

L'intervento più significativo per l'emergere di un nuovo orientamento, interventista e costruttivista, fu quello di Marino Lazzari, direttore generale alle antichità e belle arti (1938-43), che pure aveva stilato le conclusioni del Convegno dei soprintendenti. Evocando Oscar Wilde, The picture of Dorian Gray (1891) [46], rimarcava che "la natura imita l'arte più che l'arte non imiti la natura" [47]). Scrivendo nel 1940 de Il 'nostro' paesaggio, mettendo in relazione il "bello artistico" al "bello naturale", affermò che in realtà anche quest'ultimo è sempre effetto dell'interpretazione dell'artista: sicché il soggetto deve prevalere sull'oggetto e il paesaggio deve avere per l'uomo un "valore didattico, umano e moralizzatore". Egli - precorrendo alcuni dei temi che trent'anni dopo rivedremo in Predieri - sottolineava che "principio fondamentale della nuova interpretazione è l'impossibilità di contrapporre l'immobilità della natura al divenire della storia". Il che, per Lazzari, portava a ridefinire la tutela anche nell'ottica degli "scopi essenzialmente educativi di una politica totalitaria". La tutela, "non applicandosi più a un dato storico fisso e con valore documentario finito, ma ad una interpretazione storicamente in atto della realtà, non potrà più coincidere con il concetto di 'conservazione'. È chiaro infatti che l'interesse per il paesaggio non potrebbe neppure esistere se non esistesse un continuo rapporto tra il paesaggio e l'attività dell'uomo [...]"; "poiché è impossibile pensare un paesaggio [...] che non abbia lentamente subito l'azione dell'operosità umana" [...]. Se ne deduce che il paesaggio da tutelare non è quello che ci offre la natura indomita e vergine delle solitudini alpestri o negli illimitati orizzonti marini, ma è tutto il paesaggio d'Italia, con i segni del lavoro umano, con le sue reti di strade, con i suoi paesi, le sue opera di bonifica, e di sfruttamento agricolo o industriale, con le sue zone apriche o deserte, con la sua montagna e il suo mare. Ogni limitazione di quest'opera di tutela sarebbe, più che un errore, un disconoscimento irrimediabile dell'altissimo valore educativo che la presenza costante della natura assume nella moralità stessa del lavoro umano". Perciò alla "illimitata estensione dell'oggetto della tutela paesistica" consegue che "nessuno può ragionevolmente proporsi di conservare inalterato l'aspetto del paesaggio italiano, di interrompere d'un tratto quel processo di modificazione che dura da secoli [...]. Un'azione sistematica di tutela deve invece individuare la legge interna di quel processo di modificazione ed evitare le divagazioni arbitrarie". In questa direzione, Lazzari contestava apertamente l'assunto di Giovannoni sul "mimetismo" (o "occultamento") definendolo "un principio [...] che va confutato ed eliminato" perché comportante "una completa sfiducia nell'architettura moderna". Sicché Lazzari plaudeva al nuovo concetto dei "piani regolatori paesistici" perché "prevedono una tutela non più statica e conservativa, ma affiancata al naturale processo di mutamento e di sviluppo del paesaggio". Era questa la sua "nuova concezione di bellezze naturali" [48].

Sulla scia di Lazzari, il soprintendente reggente ai monumenti della Campania Giorgio Rosi, pur allievo di Giovannoni, in un eloquente saggio su Urbanistica e paesaggio, uscito in vista della riforma urbanistica del 1942, affermò che il paesaggio è una realtà collettiva in continuo divenire, da conservare e valorizzare nella sua ultima facies come sommatoria degli apporti delle varie epoche storiche. Egli propugnava dunque una "concezione evolutiva" del paesaggio, da cui seguiva "innanzi tutto l'erroneità di qualsiasi tentativo di immobilizzare l'aspetto dell'ambiente nel quale viviamo, tentativo che risulterebbe antistorico e innaturale" [49].

6. La Costituzione e il lungo silenzio

Benché il tema dell'art. 9 della Costituzione sia di rilevanza massima per la tutela del paesaggio italiano, che vi viene solennemente enunciata con la dignità di "principio fondamentale" costituzionale [50], per ragioni di economia della presente indagine non pare qui il caso né di ripercorrerne il significato né di ricostruire il pur fondamentale dibattito in Assemblea costituente e il ruolo determinante che vi ebbero Concetto Marchesi e Aldo Moro (il cui padre, Renato, era stato un ispettore scolastico collaboratore del ministro Bottai). Basti accennare quanto appaia visibile che all'art. 150 della democratica Costituzione di Weimar era improntata la prima versione di quello che sarebbe stato l'art. 9 e che fu da loro proposta il 18 ottobre 1946: "I monumenti artistici, storici e naturali del Paese costituiscono un tesoro nazionale e sono posti sotto la vigilanza dello Stato" [51].

Per quanto qui rileva riguardo tanto alla societas che al ius, dopo la costituzionalizzazione delle teste di capitolo della legge Bottai [52] a lungo la tutela giuridica del paesaggio, come tema specifico, entrò paradossalmente in penombra, destinata a protrarsi fino ai secondi anni '60: e per quel tratto restò affidata essenzialmente all'ordinaria amministrazione, fatta per lo più di introduzione di vincoli in via amministrativa e di uso talvolta attivo ed efficace, talvolta meno, del potere soprintendentizio di autorizzazione dell'art. 7 della legge Bottai.

È questo dunque il lungo ventennio del grande silenzio sul tema specifico del paesaggio: né il "paesaggio", né le "bellezze naturali" venivano trattate espressamente dalla dottrina giuridica. La parte più attenta della società civile, peraltro, davanti alle nuove trasformazioni riprendeva la sua mobilitazione e nel 1955 veniva costituita l'associazione Italia Nostra per sollecitare la protezione del patrimonio storico-artistico e del paesaggio.

Era un silenzio singolare, visto che faceva seguito a questa collocazione della tutela del "paesaggio" tra i "principi fondamentali" della Costituzione. Un silenzio che si contrapponeva all'intensa, vivace, elaborata, continuativa attenzione degli studiosi - e sulla spinta loro del legislatore - che aveva punteggiato i primi tre decenni del secolo, a muovere dalla legge Rava che aveva dichiarato "monumento nazionale" la pineta di Ravenna, e coronati dall'elaborazione della legge Bottai n. 1497 del 1939 e del suo regolamento di applicazione (r.d. 3 giugno 1940, n. 1357) [53].

È questo il tratto di tempo dove la legge n. 1497 del 1939 - passata la seconda guerra mondiale che sopravvenne appena un anno dopo la sua promulgazione (la legge fu pubblicata in G.U. il 14 ottobre 1939) e nove giorni prima dell'emanazione del regolamento (pubblicato in G.U. solo il 5 ottobre 1940), e che per gli ultimi due anni sconvolse il territorio nazionale - cominciò a operare in luogo della legge Croce del 1922, che era stata applicata lungo tutto il Ventennio.

Fu un tempo caratterizzato, nella realtà amministrativa, e nel suo specchio giurisdizionale, dall'introduzione di molti "vincoli" per i siti più sensibili (vincoli - lo ha riportato all'attenzione la recente Cons. Stato, Ad. plen., 22 dicembre 2017, n. 13 - spesso arrestatisi al consolidamento de facto (ex artt. 2, 3 e 7) degli effetti provvisori del vincolo preliminare insito nelle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico pur non seguite formalmente dal decreto ministeriale di approvazione).

Eppure il dato costituzionale, con la collocazione tra i Principi fondamentali, avrebbe dovuto segnare la definitiva acquisizione generale del principio della tutela. Ma quanto alla dottrina, le poche voci iniziali che accennarono all'art. 9 Cost. furono di sottovalutazione se non di banalizzazione, per quanto si trattasse di giuristi autorevoli come Vezio Crisafulli [54] o Luigi Bianchi d'Espinosa [55]. Il tema della rilevanza costituzionale della tutela del paesaggio fu insomma segnato da un abbassamento d'attenzione: nell'epoca della ricostruzione post-bellica era ormai assorbito dalla questione urbanistica.

Quel silenzio normativo fu interrotto, ma sul terreno proprio dell'urbanistica, nel 1967 dalla c.d. legge ponte 6 agosto 1967, n. 765, che gettò le basi per coordinare i procedimenti della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 con le dichiarazioni della l. n. 1497 del 1939; e dalla relazione finale della Commissione Franceschini (Commissione d'indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico archeologico, artistico e del paesaggio, istituita in base alla legge 26 aprile 1964, n. 310 per l'indagine su tutela e valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio) [56] che - riprendendo e sviluppando nei fondamentali l'accezione "culturale" del paesaggio che era alla base della legge Croce del 1922 e della legge Bottai del 1939 - alla Dichiarazione I incluse nell'idea di Patrimonio culturale della Nazione "tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà", inclusi "i beni di interesse [...] ambientale e paesistico"; e alla Dichiarazione XXXIX, dedicata ai "beni culturali ambientali", li definì costituiti dalle "zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall'opera dell'uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività. Sono specificamente considerati beni ambientali i beni che presentino singolarità geologica, floro-faunistica, ecologica, di cultura agraria, di infrastrutturazione del territorio, e quelle strutture insediative, anche minori o isolate, che siano integrate con l'ambiente naturale in modo da formare un'unità rappresentativa".

7. La fine del lungo silenzio: A.M. Sandulli e A. Predieri

Quanto alla dottrina, come accennato il silenzio terminò con lo scritto di Aldo M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione [57], - cui usualmente viene contrapposto lo scritto di Alberto Predieri del 1969 - circa il rapporto con le "bellezze naturali" della legge n. 1497 del 1939; e dal coevo ma meno noto libro di Gustavo Pasini, La tutela delle bellezze naturali. Contributo ad una ricerca sistematica [58]. Per Sandulli si dibatteva della nozione di "bellezze naturali", perché a suo avviso "in queste ultime è da identificare l'oggetto della tutela del paesaggio considerata nell'art. 9 Cost." [59].

Per comprendere alcune delle ragioni di quel lungo silenzio e cogliere l'effetto della sua fine, è importante considerare che quel ventennio di grande parentesi che segue la Costituzione è il periodo in cui forse più evidente, rispetto alle preesistenze, è stata l'incidenza degli interventi di trasformazione del paesaggio italiano.

È il periodo in cui domina dapprima l'esigenza fondamentale della ricostruzione, poi quella dell'accelerazione dello sviluppo (con il "miracolo economico"): elementi che naturalmente favoriscono un approccio anche concettualmente costruttivistico. È il periodo della ripresa post-bellica e della grande urbanizzazione; e della migrazione interna, dal sud al nord e dalle campagne alle città, come del primo emergere della "seconda casa" lungo le coste e in montagna; e, per le città, si focalizzava l'attenzione piuttosto sulla rendita urbana, tema preferito al pur frequente vulnus al paesaggio.

È l'epoca dell'industrializzazione diffusa, specialmente al Nord e nei poli industriali del Mezzogiorno, e delle grandi opere pubbliche, prime tra tutte - per l'impatto sulla quotidianità e la trasformazione della percezione geografica d'insieme - le autostrade [60]. All'opposto delle Reichsautobahnen germaniche degli anni '30, al cui adattamento col paesaggio aveva presieduto un apposito apparato diretto dal paesaggista Alwin Seifert (1890-1972), le autostrade italiane del dopoguerra vennero realizzate come espressione innovativa per antonomasia dello sviluppo che segue la ricostruzione: mettendo in atto un criterio manifestamente interventista e costruttivista, l'idea di un rapporto forte di innovazione della "linea diritta" di queste grandi infrastrutture sulle accidentate e faticose preesistenze naturali. Così in particolare avvenne per il percorso di maggior intervento sulla forma del territorio, e simbolico per l'intero Paese che vi trovava il nuovo e veloce allaccio interno necessario, vale a dire i circa novanta chilometri del tratto tra Bologna e Firenze dell'Autostrada del Sole, per metà composto da sessantasette ponti e ventiquattro gallerie. Per accelerarne la celebrata costruzione, che avvenne in soli quattro anni, l'opera venne ripartita in ventisette lotti per altrettanti aggiudicatari incaricati ciascuno della progettazione, dando luogo a ponti, viadotti, gallerie, contrafforti, diversi uno dall'altro e alcuni tra i maggiori d'Europa. Modo che evidentemente pretermetteva l'unicità del linguaggio architettonico in un medesimo tipo di paesaggio e che rimase prioritario almeno fino alla realizzazione dell'autostrada Verona-Brennero, nei secondi anni '60, a mitigare il cui impatto fu chiamato, e in un secondo momento, il paesaggista fiorentino Pietro Porcinai, che con Seifert era da lungo in rapporto [61].

Questi indirizzi, che incidevano sull'idea percepita della protezione del paesaggio ponendola in una sorta di presunzione assoluta di compatibilità rispetto all'infrastrutturazione generale, si accompagnavano a un mutamento di classe dirigente e a un sostanziale abbassamento d'attenzione verso la tutela paesaggistica. Dominavano le politiche urbanistiche e delle opere pubbliche, su cui tutto si riversava. E su queste si innestava il movimento, cui si è accennato, di riforma della legge urbanistica del 1942 che condusse alla c.d. "legge ponte" del 1967 che - per porre un freno all'incontrollato sviluppo edilizio - obbligò tutti i comuni allo strumento urbanistico (con, nelle more, misure di salvaguardia), estese l'obbligo della licenza edilizia all'intero territorio comunale, pose le basi per la protezione urbanistica dei centri storici e - collegando il procedimento urbanistico con i vincoli paesaggistici - legò l'approvazione dei piani regolatori al parere della Soprintendenza nel caso di vincolo della legge n. 1497 del 1939.

La stagione della legge-ponte, con il suo incidere sul tema delle espropriazioni, fu dunque lo strumento con cui, quando ancora l'interesse di legislatore e studiosi era animatamente concentrato sull'urbanistica, si mediò il rapporto tra pianificazione territoriale e protezione del paesaggio. Si immaginava infatti che la questione del paesaggio potesse essere meglio risolta mediante una buona urbanistica, attenta alle esigenze locali, perché si cercava di vedere nelle amministrazioni locali il miglior presidio per l'assetto del paesaggio.

Arrivò però la fine del lungo silenzio. Quel lungo tempo fu infatti seguito da un'intensa e crescente successione di analisi giuridiche, di norme - anche oscillanti (spesso di primo rilievo, perché riguardanti le competenze delle regioni) -, di elaborazione giurisprudenziale costituzionale e amministrativa, di dibattito anche al di fuori del mondo dei giuristi.

8. I due scritti di Predieri

Queste contestualizzazioni e periodizzazioni consentono, grazie anche al tempo passato, di meglio cogliere il momento, la dimensione e l'impatto dal capitale scritto di Predieri sul "Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio" e di guardare alla sua importanza in una prospettiva storica.

Il saggio pone comunque una pietra miliare, separa un prima e un dopo da cui non è più dato prescindere. Significativamente, Predieri pubblicò lo scritto contestualizzando nello stesso volume i due temi per lui connessi, l'"urbanistica" e le "espropriazioni" [62].

Da pietra miliare, segna una nuova distanza proponendo un'accezione del "paesaggio" dell'art. 9 Cost. come "forma del paese nella sua interezza" "creata dall'azione cosciente e sistematica della comunità umana che vi è insediata", "paesaggio integrale", un "fatto fisico oggettivo" e un "un farsi, un processo creativo continuo", di "perenne non staticità".

Ne consegue la rappresentazione della "tutela" che "non può essere limitata alla protezione di quelle bellezze, né tantomeno alla loro semplice conservazione", che "potrà essere [solo] uno dei mezzi con cui viene attuata l'azione di tutela, in riferimento a talune cose per le quali è reputato necessario il mantenimento delle condizioni attuali dello statu quo", la "tutela del paesaggio" consiste "nel controllo e nella direzione degli interventi della comunità nel territorio (che agiscono sul paesaggio)" e "avrà lo scopo di assicurare una ordinata mutazione dell'ambiente modellato nei secoli perché non venga distrutto, anche se non può essere sottratto - nella sua interezza - ai mutamenti che l'opera dell'uomo necessariamente vi apporta" [63].

Circa un decennio dopo, quest'enunciazione sarebbe stata portata a conseguenze ulteriori dallo stesso Predieri nella voce Paesaggio dell'Enciclopedia del diritto [64]: dove la "tutela del paesaggio" va a consistere in "ogni intervento umano che operi nel divenire del paesaggio", cioè in "una direzione nella costruzione del paesaggio", o "pianificazione del mutamento", "ordinata mutazione dell'ambiente" pur con "l'accento ai valori culturali che hanno taluni (non tutti) [i] beni costituenti il territorio o posti sul territorio", "regolazione conformativa globale del territorio", "regolazione del paesaggio [...] che coincide con la pianificazione del territorio o urbanistica"; la tutela dell'art. 9 Cost. dunque è da intendere come "direzione della costruzione del paesaggio, nella scelta tra i diversi interessi e le diverse possibilità di uso e di destinazione. Essa è pianificazione del mutamento, intendendo la parola nel senso più ampio, cioè come regolazione cosciente [...] ordinata mutazione dell'ambiente". Insomma, il paesaggio è, più che un valore, "un fatto oggettivo, frutto dunque di scelte e valutazioni a carattere soggettivo e procedurale".

Con questo nuovo orientamento la cura del "paesaggio" diviene cura della forma, quale che ne sia la preesistente qualità, di "tutto" il territorio: in questi sensi è "paesaggio integrale". Non è più qualificazione differenziata e salvaguardia di alcune sue porzioni di accertato pregio estetico. Ed è questa la via che conduce alla connessione con la disciplina "urbanistica". La forma non può andare disconnessa dal contenuto programmatorio, sicché va a divenire anch'essa programmata. Sembrerebbe dunque che la cura del paesaggio si dissolva nell'urbanistica: ed è l'assunto della panurbanistica, che vi ravviserà il proprio fondamento.

Questo orientamento merita di essere contestualizzato. La formulazione nasceva in un'epoca connotata da quelle intense trasformazioni della forma del territorio e - certo fatto non meno importante, perché la battaglia concettuale si traduceva in lotta per le competenze - in vista dell'imminente introduzione dell'ordinamento regionale: per il quale segnava un perimetro nuovo e ampio all'"urbanistica" dell'art. 117 Cost., materia di legislazione concorrente, il più omnicomprensivo. Questa infatti sarà poi spesso indicata dalla legislazione regionale come "uso del territorio", per poi divenire formalmente "governo del territorio" nella legge costituzionale n. 3 del 2001. In questa prospettiva, è conseguenza naturale, e non premessa, che il "paesaggio" dell'art. 9 Cost. - all'opposto della tesi di Sandulli del 1967 cui lo scritto rispondeva - sia coesteso all'intero territorio e non limitato alle dichiarate "bellezze naturali".

Ci si interroga spesso, oggi, sulle derive di quell'approccio e gli si addebita di aver contribuito all'indebolimento della tutela. Il recupero di competenze statali operato nel 1985 dalla riforma Galasso ne è testimonianza [65]. Ma a parte che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente ricusato la confusione della tutela paesaggistica nell'urbanistica (e definitivamente, dopo Corte cost. 23 novembre 2011, n. 309), un'analisi storicizzante, attenta al momento e alle prospettive che allora si figuravano, porta a valutazioni differenziate: nel senso che - malgrado quanto poi la realtà dell'urbanistica regionale e soprattutto locale ha mostrato - nella prospettiva di allora il nuovo indirizzo non mirava a una dissoluzione finale della tutela nella lata discrezionalità amministrativa dell'urbanistica. Al contrario, poiché si immaginava nella pianificazione urbanistica un momento forte delle distribuzione organizzata dello sviluppo futuro, ne sarebbe dovuto sorgere, nell'intenzione, un rafforzamento - per intensità e per estensione - della salvaguardia del paesaggio, seppur mediante strumenti nuovi e decentrati.

E se si muove dal dato di partenza del tempo, della sostanziale debolezza dell'apparato di tutela (soprintendenze) per quanto di elevata professionalità, e dell'ancora limitato numero di vincoli (non a caso la riforma Galasso li moltiplicherà introducendo vincoli ex lege), è immaginabile che la visione "integrale" di paesaggio di Predieri intendesse caratterizzare l'intera "pianificazione territoriale", di qualsiasi livello - dunque anche infrastrutturale -, come necessariamente adattata ai valori paesaggistici.

Sta comunque che lo scritto del 1969 di Predieri è stato considerato - a ragione o a torto - il riferimento di base dell'orientamento "panurbanistico", risolvente nell'onnicomprensiva prospettiva urbanistica qualsiasi vicenda incidente sul "governo" o "gestione del territorio", inclusa la cura del "paesaggio". Il che dava vita a una questione - come poi si è rivelato - di lotta per le competenze. In termini legislativi, quell'indirizzo è culminato nel ricordato art. 80 d.p.r. n. 616 del 1977.

Prendendo a prestito quest'impostazione - nei termini dell'oltre l'intenzione dell'Autore - acquistò spazio una nuova e diffusa tendenza, dirigistica, localistica, costruttivistica, di intervento sul "paesaggio", procedente - malgrado l'illusione della decentralizzazione - dall'altro verso il basso. Fondata su un'accezione di "paesaggio" da preservare ormai lontana da quella ad impronta liberale, procedente dal basso verso l'alto che, sul solco dell'elaborazione comune europea di inizio '900, era fatta propria della leggi del 1922 e del 1939.

Seppur sia ancor oggi presente in alcune impronte regionali, questa tendenza - poggiante sull'anacronistico e regressivo assunto che il paesaggio appartenga non tanto alla Nazione (come vuole l'art. 9 Cost.) quanto alla popolazione che vi risiede -, è stata come detto poi sconfessata sia dalla giurisprudenza e dalla legislazione generale

Al giurista di oggi è ormai chiara quale ne era l'implicazione: l'abbandono del carattere tecnico-discrezionale dei vincoli e delle autorizzazioni, convertiti alla discrezionalità amministrativa dell'ente locale; come la confusione, a rischio di conflitto d'interessi, nella latissima e insindacabile discrezionalità urbanistica. Il prezzo dell'effettività non sarebbe stato effetto collaterale, ma obiettivo non sottaciuto [66].

9. Le varie concezioni a confronto

Non è il caso di proseguire oltre nel percorso storico, perché si sconfina nell'attualità e perché già l'indagine è stata utile a mettere in evidenza i riferimenti di base. Basterà solo ricordare che dopo la complessa stagione culminata nella c.d. legge Galasso (d.l. 27 giugno 1985, n. 312 convertito dalla l. 8 agosto 1985, n. 431), che introdusse i vincoli per categorie legali e che recuperava competenze allo Stato; e la contestuale emanazione dei c.d. decreti "galassini", sono sopravvenuti, a chiudere definitivamente il cerchio, il d.lg. 29 ottobre 1990, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), che però nulla innovava e poi il d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che riordina e ridefinisce i concetti fondamentali.

L'ultima espressione legislativa nazionale della panurbanistica si è avuta con l'art. 148 (definizioni) d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) che definiva "beni ambientali", "quelli individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell'ambiente nei suoi valori naturali o culturali". Questa previsione è stata espressamente abrogata dall'art. 184 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

A questo punto, è semmai utile tentare una sistemazione delle varie accezioni di "paesaggio" e di esigenza della sua tutela che si sono incontrate in questo percorso storico.

Come si è accennato, le oscillazioni sul significato giuridico di paesaggio sono state forti nella dottrina e sono riflesse dalla legislazione. Ma restano in un primo tempo assenti, o poco rilevanti, nella giurisprudenza amministrativa [67]. In effetti, per portarle definitivamente a emersione, occorre rilevare l'eccesso di potere per inattendibilità della valutazione di discrezionalità tecnica: il che è relativamente recente nella giurisprudenza: si vedano i casi particolari di Cons. St., VI, 30 dicembre 2011, n. 7004 sul vincolo dell'Agro romano [68]; Cons. St., VI, 3 marzo 2011, n. 1366 sul caso cagliaritano di Tuvixeddu, sui vincoli "del terzo genere"; Cons. St., VI, 3 luglio 2012, n. 3893, sul sistema dei laghi di Mantova [69].

Recentemente è stata proposta una classificazione delle accezioni, sia non-giuridiche che giuridiche, di paesaggio: le prime sono state ha sintetizzate nelle seguenti: il paesaggio come natura e come storia; il paesaggio come spazio, fisico ed economico; il paesaggio come arte o rappresentazione visiva o letteraria; il paesaggio come percezione per chi lo guarda, cioè come vista, memoria, emozione, affetto [70].

A trarre considerazioni di fondo, fermo che la polisemia della parola rende difficile arrivare a conclusioni definitive [71], si tracciano essenzialmente due direttrici sul significato giuridico di paesaggio che riflettono in due diverse concezioni delle ragioni della tutela e, per conseguenza, due diverse concezioni del suo oggetto e della sua latitudine. Per brevità, le possiamo chiamare [72] "oggettiva" e "soggettiva".

Per la concezione "oggettiva", o meglio "oggettivizzante", il paesaggio è un valore di suo per come si presenta, in senso geografico, territoriale, indifferenziato: di spazio, fisico ed economico [73]. Ed è la concezione, al fondo, dei geografi [74] e dei naturalisti. In questa prospettiva, è secondario il particolare pregio estetico di una porzione di territorio e con esso i parametri di valutazione delle compatibilità degli interventi innovativi. La dimensione attraverso cui vengono vagliate le innovazione è, al fondo, quella della ponderazione discrezionale degli interessi, non difformemente da quanto si pratica per il resto del "governo del territorio".

In questa prospettiva, il paesaggio "appartiene" ed è disponibile da parte delle "popolazioni" in esso insediate, dunque ad opera delle loro rappresentanze istituzionali. È il concetto di fondo della panurbanistica, che enfaticamente si dice riecheggiare nella citata Convenzione europea del paesaggio, Firenze, 20 ottobre 2000, art. 1: "'Paesaggio' designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni".

All'opposto, per la concezione "soggettiva", o "relazionale", è dirimente il carattere di componente del "patrimonio culturale", perché il paesaggio esprime un "primario" valore estetico-culturale (così l'art. 9 Cost. per Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151, 152 e 153): valore percepito come termine relazionale che (talvolta in moltiplica di relazioni) può rinviare:

- al valore "ambientale" ("patrimonio naturale", piuttosto che "culturale") presunto, per "tipologie paesaggistiche ubicazionali o morfologiche rispondenti a criteri largamente diffusi e consolidati nel lungo tempo" secondo "un tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale, alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale"; una tutela del paesaggio dal "carattere non più conservativo e statico, ma gestionale e dinamico"; dunque di "nuova concezione" perché "si sostanzia di una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce della primarietà del valore estetico culturale" (legge Galasso del 1985, oggi art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio: così Corte cost., n. 151 del 1986, che però assorbe i concetti di Predieri attribuendo il potere al legislatore, non al consiglio comunale) [75];

- alla "cultura" in senso lato [76];

- alla rappresentazione pittorica o letteraria ("pittoresco", "sublime": si presta a una rappresentazione pittorica perché desta interesse o emozioni estetiche): il bello di natura che si giustappone al bello d'arte; salvaguardia della sua già esistente bellezza [77].

o anche:

- alla storia (dunque all'antropizzazione: "il lavoro dell'uomo", "l'opera dell'uomo" come sedimentata lungo la storia), la "tradizione" nel linguaggio della legge Croce [78]; il paesaggio come "testimonianza di un ambiente socio-economico e del suo evolversi nel tempo" [79];

- alla memoria e all'identità collettive [80];

- alla coscienza della Nazione di cui è testimonianza materiale: "il volto amato della Patria", per la ritornante espressione attribuita a John Ruskin e da tutti evocata nei primi tre decenni del XX sec., finanche negli scritti ufficiali di Croce [81] e di Mussolini [82].

Un'autorevole sintesi di questa concezione ravvisò il fondamento della l. n. 1497 del 1939 "nell'esigenza di proteggere quei monumenti della natura che, al pari delle opere d'arte, sono fonte di godimento e mezzo di educazione dello spirito e che facendo più bello e attraente il paesaggio attraggono il visitatore straniero e sono fonte di ricchezza per la Nazione: per questo valore spirituale e commerciale della bellezza naturale nelle sue diverse manifestazioni, si pone appunto a necessità di proteggerla con un adeguato sistema di tutela giuridica" [83]. È, al fondo, questo il senso recepito, oggi, dal Codice dei beni culturali e del paesaggio [84] (come già dalle leggi del 1922 e del 1939) quando, all'art. 2 (beni del patrimonio culturale), comma 3, afferma che "Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all'articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge"; e all'art. 131 (Paesaggio) [dopo il d.lg. n. 63 del 2008] "1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. / 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali" [85].

In termini tecnico-giuridici, la distinzione tra la concezione oggettiva e quella soggettiva si misura sul "livello di giuridificazione" del valore posto base della protezione.

La concezione oggettiva tende ad affidarlo, di volta in volta, alla pressoché insindacabile discrezionalità amministrativa, quando non alla libera scelta politica. Non è una concezione neutra rispetto al valore del paesaggio, diversamente non lo prenderebbe in considerazione: ma, sul piano applicativo, tende a negarne il dato paradigmatico in un giudizio tecnico di compatibilità, prescrittivo, limitativo; e tende piuttosto ad affidarne l'apprezzamento, di volta in volta, alla valutazione pressoché insindacabile della discrezionalità amministrativa, quando non alla libera scelta politica. All'opposto, la seconda concezione giuridifica questo valore, eleva la preesistenza a dato imprescindibile che lo sintetizza e assume la doverosità tecnica della tutela, nelle forme della discrezionalità tecnica, in linea con la ragione della costituzionalizzazione quale limite alla politica.

L'interpretazione usualmente data ai due scritti di Predieri del 1969 e del 1981 tende a collocarli nel primo ambito, quello oggettivo, per farne appunto la base ideale della panurbanisitica. La derivazione è innegabile, specie se vi si include anche la materia delle espropriazioni e delle occupazioni. Ma se destoricizzata, finisce per essere portata a conseguenze eccessive nell'implicare la dissoluzione della tutela del paesaggio nell'insindacabile discrezionalità amministrativa delle opzioni urbanistiche.

Alla seconda accezione si ispira il percorso seguito dalle normative di sistemazione, prima compilative (il d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 - Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352) e poi organiche (il d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 - Codice dei beni culturali e del paesaggio). Non solo: in sede di seconda revisione e correzione di quest'ultimo, la constatazione, per restituire effettività alla tutela pur senza abbandonare la funzione gestionale del piano paesaggistico [86], ha indotto il legislatore (specie con il d.lg. 26 marzo 2008, n. 63) alla rivalutazione dello schema vincolo/autorizzazione. Bene del resto ha rilevato S. Settis che si è "logorata agli occhi di tutti (anche dei più restii ad ammetterlo) l'ormai antica petitio principii secondo cui la tutela del paesaggio è quanto più efficace quanto più vicina ai cittadini [...]. Decenni di esperienza hanno mostrato che non è quasi mai così; che, anzi, più le amministrazioni sono locali, più sono vulnerabili a fattori di distorsione della tutela, dalle congenite fragilità di bilancio all'uso del territorio come merce di scambio elettorale" [87].

Dopo Predieri, l'accezione oggettiva di paesaggio si confronta dunque con un'elaborazione della concezione relazionale. Viene ripresa (e nel Codice del 2004 esplicitata all'art. 131) la ragione, emersa nei lavori preparatori della legge Bottai ma già presente nelle legge Croce per la connessione alla storia civile e letteraria, dell'accezione storicistica di paesaggio. Con la definitiva composizione e razionalizzazione compiuta dal Codice, va ad assorbire l'intera accezione relazionale: ed è base della moltiplica di relazioni, come ad es. quella per l'identità nazionale [88].

Per le premesse, vale considerare quanto scrisse T. Alibrandi [89] negli anni '80 (lo scritto appare nel 1988, tre anni dopo la legge Galasso, ma è visibilmente anteriore perché tra le fonti non cita le innovazioni del 1985) per evidenziare l'accezione storicistica di paesaggio:

Egli sottolineò la reductio ad unitatem - tale da configurare un sostanziale corpus unico - con la legge n. 1089 del 1939, sulla distinzione tra "bello di natura" (dell'art. 1, n. 1, l. n. 1497 del 1939) e "bello d'arte". Parlando di "beni ambientali", al "canone estetico" aggiunge la possibile ricorrenza di: 1) "criterio scientifico" (geologico); 2) "criterio storico-sociale o tradizionale" (es.: centri storici); 3) "criterio della fruibilità pubblica per le bellezze panoramiche". Cose, queste, "prodotto della creatività umana": sicché non solo beni puramente naturalistici. Per conseguenza "il paesaggio [...] si pone come entità essenzialmente storicistica: paesaggio come testimonianza (traccia lasciata visibilmente sul territorio) di un certo ambiente socio economico e del suo evolversi nel tempo".

Simili concetti furono poco dopo espressi (dopo la legge Galasso) da P.G. Ferri [90] (e da entrambi nel loro manuale, testo classico della materia), per il quale nella legge n. 1497 del 1939 "prevale un criterio estetico [...], il dato paesaggistico è concepito come un 'quadro naturale' che esprime il 'bello di natura'". Però "il criterio estetico opera [...] anche in combinazione con quello scientifico (ad es. per le c.d. 'singolarità geologiche') e quello storico-tradizionale (applicato di norma ai centri storici)".

Facendo dichiarato riferimento anche alla legge Galasso (e salvaguardandone, malgrado le apparenze, il carattere "relazionale"), Ferri aggiungeva: "Ma la più recente evoluzione legislativa, richiamandosi all'art. 9 della Costituzione, assume oggi come base fondante il concetto di 'paesaggio', inteso nella sua accezione geografica, che include una visione storicistica: paesaggio è il segno lasciato sul territorio dagli eventi naturali e dalle vicende umane. Questo indirizzo, che appare dominante nella configurazione dei beni ambientali adottata nelle normative statali e regionali che fanno capo all'urbanistica, ha finito con l'influenzare anche l'applicazione della l. n. 1497 del 1939; questa tendenza è stata da ultimo convalidata e sviluppata dalla recentissima l. 8.8.1985, n. 431".

Come si vede, dunque, malgrado l'uso della locuzione "beni ambientali", Alibrandi e Ferri tenevano ferma la concezione relazionale nella declinazione storicistica e, quel che è notevole, vi riconducevano la legge Galasso.

Lo stesso Ferri, commentando il d.lg. n. 490 del 1999 (redatto da una commissione ministeriale da lui presieduta), evidenziò: "il carattere essenzialmente culturale degli elementi territoriali considerati espressione del paesaggio da proteggere, presenta un solido fondamento nelle strutture che compongono l'ambiente tipico del nostro Paese, dove i valori naturalistici sono diffusamente, quanto significativamente, connotati da influenze antropiche necessariamente espressive di cultura". E, con l'occasione, mosse un attacco diretto alla panurbanistica: dopo il d.p.r. n. 616 del 1977, "gli strumenti d'azione dati dalla legge n. 1497 del 1939 non sono stati utilizzati come sede autonoma di gestione dei valori ambientali, preferendosi l'impiego degli strumenti urbanistici [...]. Ma alla resa dei conti questo disegno si è tradotto in un preoccupante disegno di indebolimento della politica di tutela ambientale, a causa di una diffusa inadeguatezza della pianificazione urbanistica ad accogliere le istanze di conservazione dei valori paesaggistici [...]. Con il Testo unico "era quindi inevitabile una riqualificazione della tutela paesaggistica in chiave di accentuazione del profilo culturale, mediante la costruzione di un sistema normativo unitario, comune ai beni culturali e ai beni ambientali" [91].

Forse è questa la principale contrapposizione all'interpretazione invalsa degli assunti di Predieri: la confutazione dell'accezione oggettiva a base della panurbanistica.

Efficacemente è stato detto da S. Settis che il Codice dei beni culturali e del paesaggio "prosegue la tradizione legislativa italiana in materia, inglobandone i tratti essenziali: di fatto esso è per molti aspetti una nuova formulazione delle due leggi Bottai del 1939, che a loro volta risalivano alla legge di tutela del patrimonio culturale del 1909 e a quella sul paesaggio del 1922 [...]; ma ha dovuto necessariamente far perno sull'art. 9 Cost., nonché includere molte altre norme, per esempio quelle della legge Galasso del 1985". Sicché il Codice "ha reso giustizia dopo quasi un secolo all'originario progetto di Giovanni Rosadi, che già nella legge del 1909 avrebbe voluto la salvaguardia del paesaggio come parte essenziale della prima legge nazionale di tutela" [92].

10. Conclusioni

In fondo, un secolo fa come oggi è la percezione diffusa delle ferite al paesaggio che fa da elemento rivelatore di quanto gli dà valore, non l'astratta pianificazione urbanistica: il vulnus muove come lesione esteriore della dimensione collettiva e genera il bisogno di protezione, secondo un'esigenza che procede dal basso verso l'alto, non dall'alto verso il basso. Il che rivela la dimensione collettiva e identitaria del valore del paesaggio. Il riferimento al dato pregiuridico, naturalistico o storico, prima dell'intervento del diritto fonda l'esigenza di tutela e osta a considerare il valore del "paesaggio" nel senso di un oggetto programmabile politicamente e realizzabile nel futuro ad opera demiurgica dell'ente locale [93].

La panurbanistica muove da un'idea dirigistica e costruttivistica: è rimasta recessiva sia per la giurisprudenza costituzionale che con la riforma costituzionale (l. cost. n. 3 del 2001) che ha enucleato l'art. 117, secondo comma, lett. s), Cost. che attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali"). Sicché sono venute meno le basi del tentativo di riassumere nell'ellittica nozione di governo del territorio la funzione di "tutela" dell'art. 9, secondo comma, Cost., riducendolo da precetto sostanziale valorialmente orientato a difesa di un bene comune a neutra procedimentalizzazione e secondo parametri di discrezionalità amministrativa, così affievolendo la gerarchia dei valori del principio fondamentale costituzionale. Non solo: l'intuizione che vi presiedeva postula un pianificatore estraneo a suggestioni, pressioni o conflitti di interessi e capace, alla maniera dell'Italia comunale o rinascimentale, di introdurre nel paesaggio innovazioni coerenti con l'esistente e di effettiva e diffusa qualità. Ma l'esperienza ha smentito questi assunti, seppur con talune rimarchevoli eccezioni.

È dunque il caso di domandarsi se gli scritti di Predieri, nell'Italia di mezzo secolo fa, non intendessero contrassegnare un'imprescindibilità integrale, comunque e dovunque, del valore esistente del paesaggio nel pianificare l'uso futuro di qualsiasi territorio. L'integralità intesa come rilevanza del pregio paesistico per ogni porzione di territorio, piuttosto che assorbente totalità della pianificazione urbana, degradante quel valore a una variabile da ponderare con le altre. Come si è ricordato, l'Italia della ricostruzione postbellica e del 'miracolo' economico interveniva nello sviluppo edilizio e nell'infrastrutturazione spesso sopravanzando le virtù del paesaggio. Contestualizzare il pensiero di Predieri consente di intenderlo come indicazione di rispetto dei valori paesaggistici in qualsivoglia intervento, andando oltre lo spazio dei faticosi e ancora pochi vincoli soprintendentizi. Lettura diversa dal vedere la strumentazione urbanistica come un veicolo per neutralizzare la tecnicità della tutela e ridurla a dominio insindacabile delle scelte di opportunità.

 

Note

[*] Questo scritto, con il titolo L'evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, è pubblicato tra gli atti del Convegno organizzato a Firenze l'11 maggio 2018 dalla Fondazione CESIFIN - Alberto Predieri, su Il "paesaggio" di Alberto Predieri. A cinquant'anni dal "Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio".

[1] È questo il testo della disposizione dopo l'art. 2, comma 1, lett. a), dell'integrativo e correttivo d.lg. 26 marzo 2008, n. 63.

[2] Nella lingua italiana, la parola paesaggio è registrata per la prima volta - e in senso pittorico - nel 1552, in una lettera di Tiziano all'imperatore Filippo II d'Asburgo. Il tedesco Landschaft è registrato nel 1520, l'olandese landskap nel 1462, il portoghese paisagem nel 1548, il francese paysage nel 1549, lo spagnolo paisaje nel 1552, l'inglese landscape o landskipe nel 1598. La lingua, come il diritto - insegnavano due secoli fa F.C. von Savigny e J. Grimm con la scuola storica del diritto - riflette la forma mentis collettiva, l'uno conforma l'altro e vi interagisce. Con l'opera pittorica e letteraria il "paesaggio" si distacca dal "paese", acquisisce la sua valenza e si idealizza. È l'invenzione del paesaggio, una connotazione autonoma che sorge all'epoca delle autonomie comunali, rappresentazione identitaria della qualità particolare del rapporto tra un insediamento urbano e il suo territorio, che nelle edificazioni era causa di adattamenti spontanei e compatibili. Si pensi ad alcuni degli affreschi di Giotto ad Assisi (attorno al 1300) e a Padova (1309), o a Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini (1330) o agli Effetti del buono e cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti (1339), entrambi al Palazzo pubblico di Siena; nella letteratura, alla Lettera in cima al Monte Ventoso di F. Petrarca (1336). Dal Trecento si cominciò a passare dalla considerazione del materiale "paese" (il territorio) alla sua elaborazione qualitativa (il "paesaggio") (P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano, 1992, pag. 9). Perciò che la parola reca un contenuto valoriale, esprime quelle sintesi e la loro enunciazione, sempre più additate alla vita collettiva da arte e cultura, nella rappresentazione pittorica e nella descrizione letteraria. Su tali basi, il concetto si è sedimentato come rappresentativo di un bene comune e, alla lunga, di un dover essere. Dal che la sua giuridificazione.

[3] V. per tutti P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, cit.; M. Jakob, Il paesaggio, Bologna 2009; G. Romano, Studi sul paesaggio, Torino 2009.

[4] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, I, pag. 3.

[5] A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. edil., 1967.

[6] A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, pag. 3 ss.; e in Studi per il ventesimo anniversario dell'Assemblea costituente, Firenze 1969, II, pag. 380.

[7] Cfr. Cattaneo, Rassegna critica di giurisprudenza in tema di protezione delle bellezze naturali, in Riv. giur. ed., 1960, II, pag. 253 (vi si dice che la protezione del paesaggio è "fonte di elevazione spirituale dei singoli e della collettività"; "educazione dello spirito realizzata attraverso la contemplazione delle bellezze e delle rarità della natura").

[8] Sia consentito il richiamo a G. Severini, I 'due corpi del giudice', ovvero dell'impersonalità delle decisioni giudiziarie, in www.federalismi.it, 2018.

[9] S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Idem, L'amministrazione dello Stato, Milano 1976, pag. 170; già in Rassegna degli Archivi di Stato, 1975, pag. 124 ss.; è anche in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Roma 2001, pag. 391 ss.; F. Merusi, Commento all'art. 9 Cost., in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1975, che nega trattarsi di sublimazione di quelle leggi; Id., Le leggi Bottai sul paesaggio e sui beni culturali, in La cultura negli anni '30, (a cura di) G. Morbidelli, Firenze 2014, pag. 53 ss. e in www.giustamm.it, n. 11 del 2012; Paper Cesefin, Firenze 29 ottobre 2012.

[10] Illegittimo per Tar Lazio, II, 31 maggio 1985, n. 1548.

[11] In Riv. giur. ed., 1967, pag. 69 ss.

[12] Questa legge francese del 1906 rafforzava la nozione di "patrimoine historique" indicata dalla legge del 30 marzo 1887 "sur les monuments historiques". Nella formulazione inziale, la legge del 1906 concerneva i soli "monuments naturels" per la loro bellezza: rocce singolari o emblematiche, alberi notevoli isolati, grotte, ville e loro parchi; il tutto secondo il solo criterio estetico. Poi sopravvenne a modificarla la legge del 2 maggio 1930, "ayant pour objet de réorganiser la protection des monuments naturels et des sites de caractère artistique, historique, scientifique, légendaire ou pittoresque", che già integrava la legge del 31 dicembre 1913 "relative aux monuments historiques". Così, dal 1930 la protezione concerne sia i "patrimoines naturels" che i siti di carattere artistico, storico, scientifico, leggendario o pittoresco, e introduce il concetto di "site protégé" (oggi "site inscrit" o "classé ": artt. da L. 341-1 a 22 del Code de l'environnement, ordonnance del 18 settembre 2000; anche lì ormai, da dopo la legge dell'8 agosto 2016 "pour la reconquête de la biodiversité, de la nature et des paysages", si distingue questi àmbiti selezionati dai "Paysages", artt. L-350-1 da A a C, dove si ripete la definizione della Convenzione europea del paesaggio, Firenze, 20 ottobre 2000: "Le paysage désigne une partie de territoire telle que perçue par les populations, dont le caractère résulte de l'action de facteurs naturels ou humains et de leurs interrelations dynamiques").

[13] Cfr. L. Scazzosi, Paesaggio, Paysage, Paisaje, Landscape, Landschaft, Landscap, Krajboraz ... politiche e culture del paesaggio in Europa e negli Stati Uniti: una lettura trasversale, in Id. (a cura di), Politiche e culture del paesaggio (esperienze internazionali a confronto), Roma 1999.

[14] Deputato del dipartimento del Doubs, Franca Contea, e secondo presidente della Société pour la Protection des Paysages de France.

[15] L'estetica del "pittoresco" si afferma in Inghilterra (picturesque) all'inizio del XVIII sec., si basa sul rapporto tra arte e natura e trova applicazione in un tipo di pittura (paesaggisti), incentrata sul particolare interessante; come nelle caratteristiche compositive dei giardini all'inglese, senza elementi che li circoscrivono, dove si accostano elementi naturali e artificiali. Nel 1756 Edmund Burke in A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, definisce pittoresca la pittura di Claude Lorrain e Nicolas Poussin, e sublime quella di Salvator Rosa.

[16] http://patrimoines.iledefrance.fr/sites/default/files/medias/2016/10/la_difficile_question_du_paysage1.pdf.

[17] Der moderne Denkmalkultus, trad. it. Il culto moderno dei monumenti, Milano 2011.

[18] È il riferimento dell'art. 9 Cost. per A. Predieri, Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, pag. 505.

[19] Nel preambolo, la legge così diceva della natura: "Heute wie einst ist die Natur in Wald und Feld des deutschen Volkes, Sehnsucht, Freude und Erholung" ["Oggi, come nel passato, la natura nella foresta e nella campagna è aspirazione, gioia e ricreazione del popolo tedesco"]. Il preambolo seguitava alludendo alla legge prussiana e precisando: "Der um die Jahrhundertwende entstandenen 'Naturdenkmalpflege' konnten nur Teilerfolge beschieden sein, weil wesentliche politische und weltanschauliche Voraussetzungen fehlten; erst die Umgestaltung des deutschen Menschen schuf die Vorbedingungen für wirksamen Naturschutz" ["La protezione della natura stabilita intorno al volgere del secolo poteva essere avere una realizzazione solo parziale, perché mancavano le condizioni politiche e ideologiche essenziali; solo la trasformazione dell'uomo tedesco ha creato i presupposti per un'efficace conservazione della natura"]. La legge del 1935 riguardava anche piante ed animali di cui vietava la caccia, monumenti naturali e zone circostanti, territori protetti ed altre parti del paesaggio. Negli anni '50, il Bundesverwaltungsgericht ritenne che, nelle finalità e nella regolamentazione, la legge non era improntata alla Weltanschauung nazionalsocialista (BVerwG del 7 ottobre 1954, DÖV 1955, pag. 186; BVerwG del 26 marzo 1955, BVerwGE 2, pag. 35); invadeva però la competenza dei Länder, come affermò il Bundesverfassungsgericht il 14 ottobre 1958. Ma i commenti contemporanei alla legge ne avevano indicato la correlazione all'ideologia nazionalsocialista e del Blut und Boden.

[20] Cfr. R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana. Dibattiti storici in Parlamento, Bologna 2003: A. Ragusa, Alle origini dello Stato contemporaneo. Politiche di gestione dei beni culturali e ambientali tra Ottocento e Novecento, Milano 2011: Id., "I giardini delle muse". Il patrimonio culturale ed ambientale in Italia dalla Costituente all'istituzione del Ministero (1946-1975), Milano 2014.

[21] O "rilasci di mare", cioè arenili: terreni per circa 5.000 ettari, durante la Restaurazione concessi in enfiteusi dallo Stato pontificio a Bartolomeo Pergami, da Crema, stalliere, valletto e accompagnatore in Italia di Carolina di Brunswick (1768-1821), principessa di Galles, moglie del re Giorgio IV d'Inghilterra, alla quale rimase vicino per sei anni e da cui venne fatto nobilitare; e da lui ricevuti dagli eredi Pergami Belluzzi fino a una transazione col Demanio del 1904: M. Armiero, A vela e a vapore: economie, culture e istituzioni del mare nell'Italia nell'Italia dell'Ottocento, che cita C. Giovannini, La pineta di Ravenna: il monumento e l'invenzione, in Storia urbana, 1996, pag. 76 ss. Secondo altri, alla pineta si associarono via via cospicue porzioni di terreno. Nel 1904 furono rivendicati allo Stato circa 200 ettari di relitti marini presso il Lamone (ora Canale destra Reno); ne fu iniziato il rimboschimento grazie alla transizione. Nell'Ottocento la fascia dei cordoni dunosi litoranei si era spostata di ben alcuni chilometri a levante, in buona parte per l'inalveazione settecentesca dei Fiumi Uniti. Così si erano così generate le "pialasse", spesso allagate da acque dolci e marine. Per contrastare la fine della pineta, il ravennate Luigi Rava, docente universitario e poi parlamentare e ministro, figurò una nuova pineta sulle dune. La sua legge era di due articoli: il primo dichiarava inalienabili i "relitti marini" del litorale pervenuti al Demanio per l'avanzamento della spiaggia, il secondo ne promuoveva il rimboschimento. La relazione di presentazione affermava che vanno considerati "monumenti nazionali" non solo gli edifici e le opere d'arte, ma anche i prodotti della natura ("monumenti naturali"). La "pinetina Rava" venne a crescere per circa 50 chilometri, dalla foce del Reno al confine con la provincia di Forlì: P. Fabbri e A. Missiroli, Le pinete ravennati. Storia di un bosco e di una città, Ravenna 1998.

[22] G. Sciullo, Territorio e paesaggio (a proposito della l.r. Toscana 3.1.2005, n. 1), in Riv. giur. urb., 2007, pag. 282.

[23] "Per la bellezza di Ravenna. Storia, arte e natura nell'opera di tutela di Corrado Ricci e Luigi Rava / 1897-1909", Ravenna 2003.

[24] A. Ragusa, Alle origini dello Stato contemporaneo. Politiche di gestione dei beni culturali e ambientali tra Ottocento e Novecento, Milano 2011, 177, pag. 189.

[25] "[...] sin dall'inizio il movimento per le tutela del paesaggio e del bello naturale assume[va] i tratti di una cura nei confronti, assai più che dell'ambiente [...], di oggetti considerati come 'monumenti naturai' e quindi di grande valore, ancor più che estetico, 'patrimoniale e simbolico', cioè 'all'irrimediabile erosione che la scomparsa di alcuni oggetti naturali (avrebbe causato) alla memoria storica della nazione, se non dell'umanità intera'": A. Ragusa, Alle origini dello Stato contemporaneo. Politiche di gestione dei beni culturali e ambientali tra Ottocento e Novecento, Milano 2011, 172, che cita L. Piccioni, Il volto amato della Patria, Camerino 1999, pag. 44.

[26] Molto contribuì all'idea identitaria che la Nazione fosse composta anche dalle bellezze naturali l'alta tiratura, in più edizioni, del divulgativo volume dell'abate e geologo A. Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d'Italia (1876), il cui titolo richiama il celebre verso "il bel paese ch'Appennin parte, e 'l mar circonda et l'Alpe" di F. Petrarca, Il Canzoniere (sonetto 96) con cui è richiamata l'immagine dell'Italia.

[27] R. Balzani, Tutela del patrimonio, 'politiche della bellezza' e identità nazionali tra Otto e Novecento: un confronto tra Italia e Francia, in Il patrimonio culturale in Francia, (a cura di) M.L. Catoni, pag. 213 ss.; S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, Torino, 2010, pag. 148.

[28] R. Balzani, op. cit., pag. 221 ss.

[29] A. Andreoli, D'Annunzio, Bologna 2004, cap. 2, "L'Italia come 'ornamento del mondo".

[30] Sia consentito richiamare G. Severini, I giardini come beni del patrimonio culturale, in Aedon, 2009, 1.

[31] Cfr. S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, cit., pag. 148.

[32] M. D'Amelio, La tutela giuridica del paesaggio, in Giur. it., 1912, IV, pag. 129. All'epoca D'Amelio (1871-1943) era consigliere alla Corte di Cassazione di Roma. Sarebbe divenuto, dal 1923 al 1941, Primo Presidente della Cassazione unificata. Senatore dal 1924, dal 1927 al 1934 fu Vicepresidente del Senato.

[33] Sulla centralità di questo concetto, L. Piccioni, Il volto amato della Patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia, 1880-1934, 2^ ed., Trento 2014; id., Nazione, patrimonio, paesaggio: alle origini del moderno ambientalismo in Europa 1865-1914, in http://storiaefuturo.eu.

[34] Su Corrado Ricci, v. A. Emiliani e C. Spadoni, (a cura di), La cura del bello: musei, storie, paesaggi per Corrado Ricci, Milano 2008.

[35] Così L. Piccioni, Il paesaggio come concetto chiave del primo ambientalismo italiano (1905-1939), Orvieto 2007. Il tema, in opposta direzione, era stato trattato dalla Carta di Atene (1933), elaborata al IV Congresso internazionale di architettura moderna e pubblicatanel 1938 per iniziativa di Le Courbusier (punti 65-70 dei principi fondamentali della città contemporanea). All'opposto precetto per cui vanno contrastati gli isolamenti artificiali dei monumenti si sarebbe invece giunti con la Carta di Gubbio del 1960 (Dichiarazione di principi sulla salvaguardia ed il risanamento dei centri storici, dichiarazione finale al Congresso Nazionale dell'Associazione Nazionale Centri Storici Artistici).

[36] Poco dopo la legge Croce furono istituiti i primi due parchi nazionali italiani, il Parco nazionale del Gran Paradiso e il Parco nazionale d'Abruzzo: il primo con d.l. 3 dicembre 1922, n. 1584; il secondo con d.l. 11 gennaio 1923, n. 257.

[37] G. Lustig, La tutela del paesaggio in Roma antica, in Il Filangieri, X, 6 e XLIII (1918), pag. 449 ss. e pubblicato a Roma nel 1919. Egli richiama l'interesse generale che presiede alla tutela evocando i concetti romanistici di decor urbis, publica utilitas, dicatio ad patriam.

[38] In Bellezze naturali, in Nuovo dig. it., Torino 1937, II, pag. 257.

[39] L. Parpagliolo, La protezione delle bellezze naturali, in Le vie d'Italia, settembre 1939, in V. Cazzato (a cura di) Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 487.

[40] Come evidenzia S. Settis, Benedetto Croce ministro e la prima legge di tutela del paesaggio, lezione all'Università di Venezia Ca' Foscari (2011) va considerata la relazione introduttiva Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico presentata da Croce il 25 settembre 1920 al Senato, probabilmente dovuta a Parpagliolo e tale da congiungere paesaggio ad "antichità e belle arti": "Che una legge in difesa delle bellezze naturali d'Italia sia invocata da più tempo e da quanti uomini colti e uomini di studio vivono nel nostro Paese, è cosa ormai fuori da ogni dubbio", sulla base dei due voti formulati di Camera (1905) e Senato (1909), la legge sulla Pineta di Ravenna, quella su parchi e giardini del 1912 e la proposta Rosadi del 1910. Una legge che "ponga, finalmente, un argine alle ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo". Il paesaggio esprime un "altissimo interesse morale e artistico legittima l'intervento dello Stato", poiché "altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari [...], con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli" (patente è la citazione della formula de "il volto amato della Patria" attribuita a Ruskin, ricordato come l'iniziatore del movimento europeo in difesa della natura e del paesaggio dal 1862 quando egli "sorse in difesa delle quiete valli dell'Inghilterra minacciate dal fuoco strepitante delle locomotive e dal carbone fossile delle officine". Il riferimento al quadro europeo include l'Heimatschutz tedesco e le esperienze di alla Svizzera, Austria e Belgio, e specialmente della Francia con la legge del 1906. Si connettono paesaggi e "sviluppo dell'anima nazionale", e il riferimento alle "associazioni potenti sorte per mettere in valore le bellezze naturali, e imporre, premendo sull'opinione pubblica, la necessità di sanzioni positive contro le ingiustificate e spesso inutili manomissioni del paesaggio nazionale": dal che la necessità del permesso delle soprintendenze per lavori sia in immobili storici che in luoghi caratterizzati da "bellezze naturali e panoramiche", previa notifica degli immobili e paesaggi di "importante interesse", con speciali limitazioni del diritto di proprietà per "contemperare le ragioni superiori della bellezza coi legittimi diritti dei privati". "I vari interessi contrastanti" devono esser "composti con spirito di conciliazione", perché "ciò che è in cima ai pensieri di tutti, economia nazionale e conservazione del privilegio di bellezza che vanta l'Italia". La relazione fonda la salvaguardia del paesaggio sull'affinità con il "patrimonio d'arte" nel formare l'"identità" nazionale, pur se ravvisa precedenti nei Rescritti Borbonici del 19 luglio 1841 e 17 gennaio 1842 e 31 maggio 1843, che "vietavano di alzare fabbriche, le quali togliessero amenità o veduta lungo la via di Mergellina, di Posillipo, di Campo di Marte, di Capodimonte". Le limitazioni alla proprietà privata consistono in "una servitù per pubblica utilità", a difesa del "godimento di tutti" delle bellezze. La legge aveva sì un prevalente carattere estetico, ma si estendeva anche a altre categorie di "cose immobili", come quelle dalla "particolare relazione con la storia civile e letteraria". Il paesaggio come veduta si riferiva al potere dello sguardo e della storia individuate attraverso il filtro dell'arte: si assimila il paesaggio a un quadro (collegandolo alla legge del 1909). È patente il carattere fondante della legge Croce rispetto alla tradizione italiana di protezione del paesaggio, in particolare per il nesso tra emergenze monumentali e bellezze naturali, per il loro comune riferirsi all'identità nazionale, per il carattere "al contempo estetico e storico delle "bellezze" meritevoli di tutela. La relazione di Croce inoltre richiamava anche la tradizione germanica, cioè i concetti di Alexander von Humboldt e di Alois Riegl. Qualche decennio dopo, a questa relazione e all'art. 150 della Costituzione di Weimar fu improntata la prima versione di quello che sarebbe stato l'art. 9 della Costituzione. Proposto il 18 ottobre 1946 da Concetto Marchesi e Aldo Moro: "I monumenti artistici, storici e naturali del Paese costituiscono un tesoro nazionale e sono posti sotto la vigilanza dello Stato". La stesura finale sarebbe stata diversa, fermo lo spirito.

[41] Così il soprintendente dell'Umbria A. Bertini Calosso, La tutela delle bellezze naturali e del paesaggio, in Le Arti, dic. 1938-gen. 1939, in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 299.

[42] M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Milano 1952, pag. 494. L. Severi (Fano 1882-1958), consigliere di Stato dal 1932, già collaboratore di Croce e di Gentile - specie per la riforma scolastica - sarebbe divenuto dal 1943 e fino all'11 febbraio 1944 ministro dell'educazione nazionale nel primo governo Badoglio e nel 1951-52 presidente del Consiglio di Stato.

[43] L. Severi, La vigente legge sulla protezione delle bellezze naturali e il suo regolamento di esecuzione, in Dir. beni pubbl., 1940, pag. 371 ss., in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 510.

[44] Comunicazione 15 dicembre 1939 alla Reale Accademia d'Italia, in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 495.

[45] Il tema dell'inalienabilità e dell'insostituibilità del valore dei centri storici era stato posto dalla ricordata Carta di Atene (1933). Uno dei suoi punti essenziali concerneva il "patrimonio storico".

[46] Per il quale l'arte modella convenzioni e schemi intellettuali di percezione del mondo.

[47] E poco dopo aggiunge: "chi più rimpiange la malinconia crepuscolare delle paludi pontine e il relativo commento musicale sussurrato dall'anofele della malaria ora che quella terra risanata e risorta per l'umanissima volontà del Duce biondeggia di grano maturo? Non dimentichiamo che neppure il paesaggio è immobile nel tempo: ogni periodo storico ha visto e fissato di esso una particolare bellezza: quella vicina all'anima delle sue genti. Non accettiamo dunque la natura come un mito, ma come un modo tangibile della nostra realtà; non abbandoniamoci al romantico Naturgefühl [sentimento della natura], ma componiamo con fermezza la nostra visione del mondo. Non indugiamo al fragile misticismo naturalistico del Ruskin, che accarezzava nel cottage l'ideale di un'architettura mimetica, dissimulata, confusa con il paesaggio e abbiamo il coraggio di ammettere che l'architettura può creare - che è il contrario di distruggere - il paesaggio. Bisogna amare il paesaggio, ma di un amor virile, senza turbamenti o abbandoni, senza commozioni fittizie o premeditate con l'aiuto dell'asterisco del Baedeker. Il Fascismo ci ha insegnato, camerati, che il sentimento è un'attività, non una passività dello spirito". In V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 314.

[48] In V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 504.

[49] G. Rosi, Urbanistica del paesaggio. Considerazioni generali e criteri di zonizzazione, in Le Arti, dicembre 1942-gennaio 1943, in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 532.

[50] Sia permesso rinviare a G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.), in Codice di edilizia e urbanistica, (a cura di) S. Battini, L. Casini, G. Vesperini e C. Vitale, Utet, Torino 2013; e in www.giustizia-amministrativa.it. Sul tema tra i più acuti e attenti, P. Carpentieri, La tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione nell'art. 9 della Costituzione, in Rivista S.S.E.F.

[51] La vicenda in Assemblea costituente è ricostruita da S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, cit., pag. 187 ss.

[52] S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in Rassegna degli Archivi di Stato, 1975, pag. 124 e in S. Cassese, L'amministrazione dello Stato, Milano, 1976, pag. 153 ss.; e in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 391.

[53] I cui lavori preparatori e l'ampio dibattito che li precedette sono oggi raccolti in V. Cazzato (a cura di) Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit.

[54] V. Crisafulli, Sull'efficacia normativa delle disposizioni di principio della Costituzione, in La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, per il quale si trattava di una pseudo-disposizione priva di valore normativo per indeterminatezza dell'oggetto. V. P. Carpentieri, La tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione nell'art. 9 della Costituzione (2005), in www.giustizia-amministrativa.it.

[55] Il quale - in G. Baschieri, L. Bianchi D'Espinosa, C. Giannattasio, La Costituzione italiana, con pref. di P. Calamandrei, Firenze 1949, pag. 36 - riteneva "infelice" la forma dell'articolo e stonata la sua collocazione tra i principi fondamentali: cit. in M. Ainis e N. Fiorillo, L'ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, 2a ed., Milano, 2008, pag. 88.

[56] Le proposte della Commissione Franceschini sono suddivise in 84 Dichiarazioni; le prime riguardano i profili generali della materia (da 1 a 21), le altre sono suddivise in quattro grandi categorie: i beni archeologici (22-31), i beni artistici e storici (32-38), i beni ambientali (che comprendono anche i centri storici, 39-49), i beni archivistici (50-53), i beni librari (54-57). Le ultime dichiarazioni si occupano di materia amministrativa e finanziaria.

[57] A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. edil., 1967.

[58] G. Pasini, La tutela delle bellezze naturali. Contributo ad una ricerca sistematica, Napoli 1967.

[59] Così Sandulli, cit., pag. 72. Per il resto, ci si riferisce a M. Grisolia, La tutela delle cose d'arte, Milano 1952 (ribadito in Bellezze naturali, in Enc. dir., V, Milano 1959, pag. 80) e M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d'interesse storico e artistico, Padova 1953 (ribadito in Beni culturali e ambientali, in Nov.ss.mo Dig. It., App. I, Torino 1980, pag. 724). Nel 1961 fu tenuto a Sanremo il Convegno di studi giuridici sulla tutela del paesaggio, i cui atti - con una relazione dello stesso Cantucci, Limitazioni e vincoli a tutela delle bellezze naturali, - furono pubblicati nel 1963 (cit. in G.D. Comporti, Piani paesaggistici, in Enc. dir., Annali V, Milano 2012, pag. 1053). Entrambi poggiano la ragione della tutela sul "mezzo di educazione, di affinamento del gusto, del senso estetico, ed in genere come mezzo di soddisfacimento di esigenze dello spirito"; il Grisolia in particolare sulla "esigenza fondamentale, quella di far salvo e non far deturpare l'aspetto esteriore del bene in quanto bellezza della natura". Si veda anche Cattaneo, Rassegna critica di giurisprudenza in tema di protezione delle bellezze naturali, in Rivista giuridica dell'edilizia, 1960, II, pag. 253 (per il quale la protezione del paesaggio è "fonte di elevazione spirituale dei singoli e della collettività"; "educazione dello spirito realizzata attraverso la contemplazione delle bellezze e delle rarità della natura").

[60] Per il tratto Firenze-Bologna, inaugurato nel dicembre 1960 dal Presidente del Consiglio A. Fanfani, Renato Bonelli (Orvieto 1911-2004, storico dell'architettura neoidealista, all'epoca Segretario nazionale di Italia Nostra), Le autostrade in Italia, in "Comunità", n. 86, gennaio 1961, parlò di "[...] altissimi viadotti costruiti da lunghe file di grandi pilastri di cemento, orribili nella loro forma goffa e sgraziata"; analogamente fece subito dopo Bruno Zevi, Autostrade italiane. I dittatori dell'asfalto, L'Espresso, 19 febbraio 1961. Entrambi sono citati in M. Moraglio, Una "forma goffa e sgraziata". Paesaggio e autostrade in Italia nel secondo dopoguerra, in I frutti di Demetra, Bollettino di storia e ambiente, 2009, che sottolinea che "ad eccezione di alcuni rari casi, in Italia non si pose particolare attenzione alla qualità dell'inserimento ambientale delle infrastrutture viarie e in particolare di quelle autostradali". Il paesaggio era "un elemento "trasparente" del progetto, nel senso che era semplicemente ignorato sia da parte dei progettisti sia da parte di altri settori della società del tempo. L'attenzione era piuttosto rivolta al singolo manufatto, non a caso chiamato "opera d'arte" secondo una denominazione ottocentesca".

[61] "Nell'autunno del 1965 Porcinai [1910-1986] viene incaricato dal Ministero dei Lavori Pubblici, su richiesta della Provincia Autonoma di Bolzano, di un consulenza relativa all'inserimento dell'A22 nel paesaggio. Purtroppo il progetto di massima è già stato redatto e nel 1964 sono stati consegnati i primi cantieri. Il paesaggista si trova quindi nella difficoltà di proporre soluzioni di inserimento dell'autostrada nel contesto paesaggistico quando il tracciato è già stato definito nel tratto tra Verona e il Brennero e gli appalti già avviati tra Trento e l'Austria. Inoltre il rapporto autostrada-paesaggio è considerato un aspetto secondario rispetto a quello tecnico-funzionale che l'infrastruttura assolve: essa è cioè stata concepita come elemento estraneo e indipendente dal contesto paesaggistico che attraversa, contesto che è ambientale, ma anche sociale, culturale, storico, umano". Nella sua relazione (1970-71), Porcinai scrisse: "il tracciato di un'autostrada è, in un certo senso, una ferita che si apre sul volto della natura; occorre che questa ferita non sia un volgare sfregio, ma un'opera di alta "plastica", che accresca la bellezza e che, in ogni caso, arrechi il minor danno possibile" (dal sito http://pietroporcinai.it/works/autostrada_del_brennero:_tratto_verona_-_brennero__autostrada_del_brennero). V. anche la mostra, con convegno, Il paesaggio e l'infrastruttura autostradale: la modernità del pensiero di Pietro Porcinai, Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro, 23-25 aprile 2016.

[62] A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, 10 ss.; e in Studi per il ventesimo anniversario dell'Assemblea costituente, Firenze, 1969, pag. 380.

[63] Ivi, 17.

[64] A. Predieri, voce Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, pag. 512.

[65] Cfr. G. Morbidelli, Legge "Galasso": durata e forma d'imposizione dei vincoli di inedificabilità nei piani urbanistico-paesistici, in Riv. giur. urb., 1986, pag. 325; Id., Ancora dei tormentati rapporti tra regioni e legge Galasso, in Giur. cost., 1991, pag. 3656.

[66] Se veda la netta critica a questa deriva, per tutti, di S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, cit., spec. pag. 204 ss.

[67] Cfr. Cattaneo, Rassegna critica di giurisprudenza in tema di protezione delle bellezze naturali, in Rivista giuridica dell'edilizia, 1960, II, 253 (per il quale la protezione del paesaggio è "fonte di elevazione spirituale dei singoli e della collettività";"educazione dello spirito realizzata attraverso la contemplazione delle bellezze e delle rarità della natura").

[68] Merita rilevare quanto la sentenza dice: "L'ulteriore censura di eccesso di delega per avere il Codice introdotto normative idonee alla potenziale coincidenza del bene paesaggistico con l'intero territorio risulta infondata. Nel testo dell'art. 131 del Codice precedente alla modificazione disposta con il d.lg. 26 marzo 2008, n. 63, il "Paesaggio" era identificato con "parti" del territorio "i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni", la cui tutela e valorizzazione "salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili"; a seguito del decreto legislativo n. 63 del 2008 il testo vigente dispone che "1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. / 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali".

La eliminazione del riferimento al paesaggio come costituito da "parti" del territorio non risulta sufficiente a far ritenere che nel testo vigente sia stata stabilita la effettiva o potenziale coincidenza del "paesaggio" con tutto il territorio, considerato che dal comma 1 non emerge tale coincidenza essendo per esso "paesaggio" non tutto il territorio ma la parte di esso espressiva di "identità", in conformità alla valenza del "paesaggio" come fattore identitario della Nazione ai sensi dell'art. 9 della Costituzione ed a quanto previsto dalla Convenzione europea del paesaggio, adottata a Firenze il 20 ottobre 2000 (ratificata con la legge n. 14 del 2006), per il cui articolo 5 il paesaggio è "fondamento" della identità delle popolazioni. La parte del territorio qualificata come "paesaggio" può perciò, in ipotesi, essere anche molto estesa ma deve essere individuata e delimitata in forza del motivato riconoscimento dei tratti identitari che a loro volta si identificano, per l'art. 131, comma 2, del Codice, in "aspetti e caratteri" non generici ma tali da rappresentare in modo "materiale e visibile", e dunque specifico, l'identità nazionale in quanto espressione "di valori culturali" e non di indifferenziate caratteristiche che non attingano la soglia di tali valori. Ciò considerato il testo vigente non risulta, in sostanza, diverso da quello precedente anch'esso distinto dalla identificazione del paesaggio in quanto parte del territorio espressiva, come visto, di "manifestazioni identitarie percepibili".

Non vale in contrario la disciplina dei "piani paesaggistici" quale emerge in particolare dagli articoli 135 e 143 del Codice, poiché il riferimento alla necessità di assicurare che "tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono" (art. 135, comma 1) esprime una complessiva esigenza di conoscenza e di articolate modalità di gestione del territorio nella sua ineludibile correlazione con il "paesaggio" ma non comporta l'assoggettamento a regime vincolistico di tutto il territorio, come risulta chiaramente dall'art. 143, ai sensi del quale la ricognizione del territorio è il presupposto per gli interventi differenziati, per aree e modalità di azione amministrativa, specificati nel comma 1 dell'articolo, in cui è anche inclusa la disciplina necessaria per assicurare altresì lo "sviluppo sostenibile" delle aree interessate attraverso la trasformazione del territorio stesso (lettere f), g) e h)).

[69] Cons. St., VI, 3 luglio 2012, n. 3893, sul sistema dei laghi di Mantova tratta del paesaggio culturale e sottolinea: "La tutela dei beni paesaggistici riguarda o il risultato storico dell'interazione tra intervento umano e dato di natura, o lo stretto dato di natura: così è oltre che per gli art. 1, comma 2, del Codice, per l'art. 2, comma 3 che lega la tutela paesaggistica all'"espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio", e per l'art. 131, comma 2, che la riferisce "a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali".

[70] S. Amorosino, Introduzione al diritto del paesaggio, Roma-Bari 2010, pag. 5.

[71] P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, pag. 394; P. Marzaro Gamba, Paesaggio, in Trattato di diritto dell'ambiente, diretto da P. Dell'Anno e E. Picozza, Padova 2015, III, pag. 315.

[72] Seguendo una contrapposizione indicata da G. Cartei, Il paesaggio, in Tratt. Dir. amm. Cassese, Milano 2003, II, 2010, (che associa alla soggettività il carattere "emotivo", all'oggettività il carattere "conoscitivo"), identificata anche da E. Boscolo, Le nozioni di paesaggio. La tutela giuridica di un bene comune (in appartenenza diffusa) tra valori culturali e identitari, in www.giustamm.it, 2016, 5, pag. 3.

[73] Considerata la relatività del concetto non giuridico, "la connotazione del paesaggio come un valore, piuttosto che fatto oggettivo, frutto dunque di scelte e valutazioni a carattere soggettivo e procedurale, è oggi ben riflessa dalle correnti definizioni normative":G.D. Comporti, Piani paesaggistici, in Enc. dir., Annali V, Milano 2012, pag. 1047 ss.

[74] Cfr. A. Sestini, Il paesaggio, collana Conosci l'Italia, VII, Touring Club Italiano, Milano 1963 [Sestini, Aldo. - Geografo (Brozzi, Firenze, 1904 - Firenze 1988) uno dei più noti geografi italiani del Novecento, maestro degli studi sul paesaggio: è il primo, originale tentativo di descrizione, interpretazione e classificazione dei paesaggi italiani, che classifica in novantacinque tipi, raggruppati in nove forme].

L'originario art. 143 del Codice prevedeva, come fase di elaborazione del piano paesaggistico, "d) individuazione degli ambiti paesaggistici di cui all'articolo 135". Quell'originario art. 135, comma 2, prevedeva che il piano paesaggistico individuasse "ambiti definiti in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici...in base alle caratteristiche naturali e storiche". La previsione fu ribadita dalla novella dell'art. 5 d.lg. 24 marzo 2006, n. 157. Oggi, dopo la novella dell'art. 2, comma 1, lett. e), d.lg. 26 marzo 2008, n. 63 - l'art. 135 dice solo: "I piani paesaggistici, con riferimento al territorio considerato, ne riconoscono gli aspetti e i caratteri peculiari, nonché le caratteristiche paesaggistiche, e ne delimitano i relativi ambiti", per ciascuno dei quali predispone "specifiche normative d'uso" e comunque, come diceva il testo originario dell'articolo, "apposite prescrizioni e previsioni".

[75] Cfr. G. Famiglietti e V. Giuffrè, Il regime delle zone di particolare interesse ambientale, Napoli 1989, dove si evidenzia la "particolare valenza paesistico-ambientale" delle tipologie di territorio identificate dalla legge e si ravvisa la finalità della protezione nella salvaguardia dell'attuale "morfologia", cioè del "profilo fisico", del loro territorio.

[76] M. Cantucci, Beni culturali e ambientali, in Nov.ssmo Dig. It., App. I, Torino 1980, pag. 724; M. Immordino, Paesaggio (tutela del), in Dig. pubbl., X, Torino, 1999, pag. 575, che fa riferimento alla consapevolezza della natura e alla funzione conoscitiva data dal contenuto culturale del paesaggio. Più recentemente, P. Carpentieri, La nozione giuridica di paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, pag. 402 ss., che - dopo aver sottolineato che "la nozione di paesaggio appartiene alla sfera della cultura. Il paesaggio - come risulta chiaro dai proficui apporti degli studi di geografia, urbanistica, architettura, storia, antropologia, semiotica etc., sopra citati - appartiene alle "scienze dello spirito" di storicistica memoria (o "scienze sociali", o "umane"); si inscrive nel Verstehen, nel "comprendere", costituisce una scienza comprendente, e non una scienza descrittiva (o naturale, o empirico-analitica), che opera sul versante del Erklaren, dello "spiegare" - conclude che "vi è un radicamento inestirpabile del paesaggio nella cultura, per cui il paesaggio è una proiezione culturale del territorio. È il profilo di riconoscibilità di un territorio nella lettura dei suoi caratteri identificativi".

[77] E. Boscolo, Le nozioni di paesaggio. La tutela giuridica di un bene comune (in appartenenza diffusa) tra valori culturali e identitari, cit.

[78] Così, evocando il bello di natura, T. Alibrandi, voce Beni culturali, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988, pag. 2: che però parla di "beni ambientali" e al "canone estetico" aggiunge la possibile ricorrenza di: 1) "criterio scientifico" (geologico); 2) "criterio storico-sociale o tradizionale" (es.: centri storici); 3) "criterio della fruibilità pubblica" per le "bellezze panoramiche".

[79] T Alibrandi e P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, 4^ ed., Milano, 2001, pag. 77. P.G. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in Dig. pubbl., II, Torino, 1987.

[80] Il patrimonio culturale, eredità di affetti e di memoria analoga a lingua e storia - costante nella tradizione civile e giuridica italiana, con controllo pubblico dell'identità civica -, è parte costitutiva e irrinunciabile dell'identità nazionale (S. Settis, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Milano 2005, 73 e 286; Id., Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, cit., pag. 157. È quella che ormai sopravvive per E. Boscolo, op. cit., V. inoltre, dello stesso A., Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. app., 2008, pag. 707; Id. La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio "a strati", in Riv. giur. urb., 2009, pag. 57.

[81] Relazione introduttiva Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico presentata al Senato il 25 settembre 1920.

[82] Discorso ai Soprintendenti alle Belle Arti del 7 luglio 1938, cit. in V. Cazzato (a cura di), Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, cit., pag. 485. Per le altre volte in cui Mussolini aveva fatto o fece riferimento al concetto, v. S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, cit., pag. 176.

[83] M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d'interesse storico e artistico, Padova 1953, pag. 29.

[84] Peraltro P. Marzaro Gamba, Paesaggio, cit., 315, ravvisa nell'art. 131 d.lg. n. 42 del 2004 un "sistema complesso di significati".

[85] Non è senza significato che la principale associazione per la salvaguardia, tra l'altro, del paesaggio del secondo dopoguerra (1955) si chiami "Italia Nostra".

[86] Sulla complessa tematica della pianificazione territoriale paesistica v. per tutti G. Morbidelli, Piano territoriale, in Enc. dir., XXXIII, Milano 1983, pag. 705.

[87] S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, cit., pag. 260.

[88] Cfr. art. 131 d.lg. n. 42 del 2008, dopo il d.lg. n. 63 del 2008:

"1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.

2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali".

[89] T. Alibrandi, voce Beni culturali, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988, pag. 2.

[90] P.G. Ferri, Beni culturali e ambientali nel diritto amministrativo, in Dig. pubbl., II, Torino, 1987.

[91] Il Testo unico dei beni culturali e ambientali, in La nuova tutela dei beni culturali e ambientali, (a cura di) P. G. Ferri e M. Pacini, Lavis-Milano 2001, pag. 19.

[92] S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile, cit., pag. 260.

[93] Cfr. G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.), cit.

 



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