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Intorno ai beni comuni

I beni comuni nell'ordinamento giuridico italiano tra "mito" e "realtà"

di Tommaso Bonetti

Sommario: 1. I beni comuni nell'ordinamento giuridico italiano tra "mito" e "realtà". - 2. I beni comuni: profili ricostruttivi. - 3. Commons e beni pubblici: alcune considerazioni a mo' di conclusione.

The Commons into Italian Legal System among "Myth" and "Reality"
The article examines the Italian legal regime of commons. In the first part of the paper, the author attempts to reconstruct the relevant qualifying traits of commons into Italian legal system. In the second part, instead, the author carries out certain considerations about their prospects for legal policy.

1. I beni comuni nell'ordinamento giuridico italiano tra "mito" e "realtà"

L'espressione "bene comune" sembra assumere, con intensità crescente, una valenza sempre più evocativa di ansie, aspettative e bisogni, individuali e collettivi, che tendono a rinvenire il proprio minimo comun denominatore in una "(...) considerazione rinnovata del rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni" [1].

Si tratta di spinte differenziate che, secondo alcune letture interpretative, rappresenterebbero la proiezione materiale di una serie di istanze, interessi e valori involgenti di volta in volta la sfera politica, socio-economica e culturale [2].

Ciò che è interessante notare di un siffatto fenomeno è che tali spinte, riconducibili ad una dimensione metagiuridica o comunque pregiuridica [3], sembrano oggi premere, in maniera indistinta ancorché parzialmente distonica, in vista del pieno riconoscimento formale di tale innovativa categoria di beni in seno all'ordinamento giuridico [4]; un riconoscimento che, per ciò solo, non si pretenderebbe limitato al pur rilevante dato definitorio [5], ma naturalmente esteso alla puntuale definizione del relativo regime giuridico ed, in particolare, dei fondamentali "momenti" della individuazione del bene, delle modalità di fruizione e delle forme di tutela [6].

Rispetto alla categoria dei beni comuni, tuttavia, occorre guardarsi da un uso "improprio" del termine che, favorito dalla relativa vis espansiva e dall'assenza di una puntuale identificazione normativa, rischia di "(...) comprometterne l'efficacia espressiva e banalizzarne il senso", pregiudicando così gli sforzi diretti a configurare il corrispondente statuto giuridico [7].

Riflettere intorno alla rilevanza giuridica della categoria dei beni comuni, anche quale possibile tertium genus rispetto ai beni pubblici e privati, si presenta infatti come un esercizio ormai imprescindibile alla luce delle dinamiche evolutive dell'ordinamento e di prassi comunitariste correlate all'esercizio di azioni collettive [8].

Tutto ciò, però, impone all'interprete una rigorosa opera di ricostruzione dei contorni giuridicamente rilevanti della figura, rivolgendo l'attenzione alla realtà del contesto ordinamentale, in parziale contrapposizione ad impostazioni ermeneutiche che sembrano argomentare nel senso della riconducibilità entro questa categoria anche di "beni" che tali non sono - né giuridicamente, specialmente ai sensi dell'art. 810 c.c., né soprattutto "ontologicamente" [9] -, come il "lavoro", la "salute", la "democrazia" e così via [10].

Nella prospettiva data, viceversa, per beni comuni si intendono le "cose che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona" [11]; beni, cioè, "(...) a consumo non rivale, ma esauribile (...) i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata (in realtà, quasi sempre pubblica, tolto il caso dei beni culturali), esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo delle persone e dei quali, perciò, la legge deve garantire in ogni caso la fruizione collettiva, diretta e da parte di tutti, anche in favore delle generazioni future" [12].

Accanto ai rischi di "banalizzazione", invero, si registra anche un altro pericolo suscettibile di ostacolare una corretta impostazione dei termini giuridici delle questioni inerenti i beni comuni; un pericolo che, richiamandosi ad un lessico per certi versi datato, consiste nella tendenziale sovrapposizione tra la dimensione de jure condito e quella de jure condendo.

Si tratta di una evidente forzatura che affiora in impostazioni metodologicamente segnate da un approccio "neo-realista" insofferente di fronte alla disciplina dei canoni interpretativi propri dell'indagine giuridica; impostazioni che, lungi dal connettersi con il metodo del law in context, pretendono di affermare la "giuridicità" dei beni comuni ex se, quasi che tali beni non possano essere pensati se non come - giuridicamente - esistenti, sulla falsariga della cd. "prova anselmina" [13].

Da qui, fatalmente, la scelta di suddividere il lavoro in due parti. Nella prima, pur nei limiti del presente scritto, ci si concentrerà sulla categoria dei beni comuni rivolgendo l'attenzione all'ordinamento italiano, così da verificare se ed in che termini sia possibile ricostruirne i caratteri qualificanti [14]. Nella seconda parte, invece, si svolgeranno alcune considerazioni intorno al concetto ed al regime giuridico dei beni comuni con riferimento alle possibili prospettive di politica del diritto.

2. I beni comuni: profili ricostruttivi

Il concetto di "bene comune" non è certamente estraneo alla scienza giuspubblicistica italiana, intrecciandosi con il più generale, e ben più articolato, dibattito relativo ai beni pubblici ed ai corrispondenti e differenziati regimi dominicali [15].

Si spiega così perché la scienza del diritto amministrativo della prima metà del ventesimo secolo, influenzata dall'impostazione pandettistica nella costruzione della teoria della "demanialità", risolvesse i termini del problema relativo all'inquadramento giuridico del "mare" e dell'"aria" nell'alveo delle tradizionali categorie giusprivatistiche tra cui, in particolare, quella di res communes omnium [16].

Anche in quel contesto storico-giuridico, peraltro, non mancarono letture interpretative che, pur nella relativa assertività dogmatica, furono in grado di cogliere, se non addirittura di anticipare, temi e questioni che solo la "generazione" successiva avrebbe evidenziato ed adeguatamente sviluppato.

Dense di significati, in questo senso, appaiono ancora oggi alcune pagine di Cammeo il quale si riferiva alle "cose comuni" come a quelle cose che "(...) servono agli usi umani, ma non sono apprendibili e limitate, non formano oggetto di né di rapporti economici, né di rapporti giuridici"; al contempo, però, lo stesso a. ne svelava l'intima e potenziale contraddizione segnalando che le "(...) le cose comuni possono, in quanto apprendibili ed apprese col lavoro, e limitabili e limitate, formare oggetto di rapporti giuridici privati" [17].

Ad un siffatto inquadramento sistematico, in concreto, faceva da pendant un regime organizzativo e gestionale caratterizzato dall'attribuzione allo Stato di potestà di polizia funzionali "ad assicurarne a chiunque l'uso pacifico" [18].

A partire dalla seconda metà del Novecento, tuttavia, si assiste ad un deciso cambio di "rotta".

Le trasformazioni e le torsioni indotte dalle conquiste tecnologiche, dai repentini incrementi demografici e, per altro verso, dall'avvento di nuovi attori nell'arena globale inducono ad una profonda rivisitazione dei precedenti schemi concettuali, soprattutto in relazione alla necessità di definire regole, assetti organizzativi e formule procedimentali preordinati alla risoluzione dei cd. "problemi di fruizione".

In chiave sistematica, si precisa così che si tratta di "(...) beni a fruizione collettiva per loro natura", in quanto "(...) talmente abbondanti che, almeno sinora, non si è mai posto un problema di appartenenza (...)" [19]; mentre, relativamente ai "problemi di fruizione" - spesso di dimensione sovranazionale -, è a Giannini che si deve la fondamentale distinzione, fondata sulla diversità sostanziale e funzionale di tali beni, in due categorie consistenti, l'una, nelle problematiche di "mutuo rispetto" e, l'altra, in quelle di "conservazione della fruibilità generale" [20].

Per quanto concerne i "problemi di mutuo rispetto", le ipotesi più significative riguardano l'"etere", quale entità rilevante ai fini delle radiodiffusioni e telecomunicazioni, ed il "mare", in modo particolare per quanto riguarda le attività di ricerca e di cattura a fini commerciali dei prodotti ittici. In queste ipotesi, il problema che si presenta è essenzialmente correlato alla definizione dell'ordine delle fruizioni [21]: compete, cioè, alle autorità amministrative determinare ed imporre "(...) regole ordinative onde evitare che un fruitore impedisca la fruizione degli altri soggetti appartenenti alla collettività" [22].

Le problematiche di "conservazione della fruibilità generale", invece, hanno investito soprattutto l'"aria" e l'"acqua" nel quadro più generale delle forme di salvaguardia delle risorse naturali; di conseguenza, i corrispondenti regimi giuridici risponderanno ai principi ed alle regole dettati a tutela dell'ambiente [23].

Dalle progressive acquisizioni della scienza giuspubblicistica, insieme alle evoluzioni ordinamentali ed ai relativi "influssi" di ordine comunitario ed internazionale, emergono così due dei tratti maggiormente qualificanti la dimensione dei commons nell'alveo del sistema giuridico italiano.

Il primo è rappresentato dalla tendenza per cui, in un quadro segnato dall'art. 42, comma 1, cost. e, per altro verso, dall'art. 810 c.c., le cose comuni "(...) in talune evenienze sono disciplinate come se fossero beni pubblici, ed i provvedimenti che ne dispongono si inseriscono nelle funzioni di governo e di direzione pubblica dell'economia" [24].

Nell'ambito dell'ordinamento nazionale, in altri termini, "il rimedio alla tragedia dei comuni" sembra rinvenirsi nella "(...) combinazione tra l'imputazione pubblicistica del bene e la disciplina dei suoi usi attraverso i meccanismi tradizionali del command and control" [25].

Si pensi, a riprova di ciò, al governo delle risorse idriche che non corrisponde né al modello dell'"appropriazione privata" né a quello dell'"autogoverno locale", riflettendo - viceversa - la "soluzione istituzionale" che, pur riconoscendo un "ruolo non meramente passivo agli stakeholders territoriali", si traduce "(...) nella collocazione entro la titolarità pubblica delle risorse e nella gestione assegnata a un'amministrazione dotata di prerogative esorbitanti" [26].

Sempre in via esemplificativa, anche a dimostrazione dell'intreccio tra le soluzioni prospettate in ordine ai problemi di "mutuo rispetto" e di "conservazione", si consideri la disciplina dettata con specifico riguardo alle limitazioni del traffico in funzione di riduzione delle emissioni inquinanti; previsioni che - per l'appunto - attribuiscono alle amministrazioni comunali il potere di "(...) limitare la circolazione di tutte o di alcune categorie di veicoli per accertate e motivate esigenze di prevenzione degli inquinamenti e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale, conformemente alle direttive impartite dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentiti, per le rispettive competenze, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio ed il Ministro per i beni culturali e ambientali" [27].

Il secondo tratto qualificante è rappresentato, invece, dal processo di "settorializzazione" verso cui si è gradualmente orientato l'ordinamento, specialmente per quanto riguarda le forme di gestione e tutela dei "beni comuni" [28].

Contorni paradigmatici, da questo punto di vista, assume la disciplina amministrativa dell'"atmosfera" che risulta "frantumata" in una pluralità di regolazioni che vanno dal regime delle emissioni a quello affine in tema di inquinamento atmosferico, fino ad arrivare alla circolazione aerea e così via [29].

Lo stesso, d'altronde, vale anche per il regime delle risorse idriche che, pur nel quadro della relativa "infrazionabilità", si caratterizza per la coesistenza di discipline normative diversificate - cui accedono tipologie organizzative e modalità di azione differenziate - in relazione, tra l'altro, alla natura ovvero alla provenienza delle acque ("acque dolci", "acque costiere", "acque superficiali", "acque termali", "acque sotterranee", etc.), all'eventuale sussistenza o meno di determinati prodotti ittici ("acque ciprinicole", "acque salmonicole" ed "acque destinate alla vita dei molluschi") nonché alla destinazione rispetto agli usi possibili ("produzione di acqua potabile", "utilizzazione agronomica", "balneazione", etc.) [30]; senza dimenticare, d'altra parte, il peculiare regime giuridico relativo agli "scarichi" ed alle "acque reflue" ("domestiche", "industriali" ed "urbane") [31].

Va da sé che si tratta di un fenomeno di cui non è possibile non tener debitamente conto, anche in un'ottica de jure condendo [32].

Il processo di progressiva "settorializzazione", infatti, costituisce uno degli effetti maggiormente visibili della compresenza di una pluralità di fonti diverse di derivazione - rispettivamente - internazionale, europea, statale e sub-statale [33]; una pluralità che, a sua volta, è espressione, da un lato, della dimensione fatalmente sovranazionale dei cd. "problemi di fruizione", dall'altro, della sostanziale irriducibilità ad unum delle "cose comuni", stante - prima di tutto - la relativa "multidimensionalità" rispetto agli usi umani astrattamente ammissibili o quanto meno concretamente possibili.

Ambedue i "tratti evidenziati" rivelano così come la dimensione del "comune" non sia del tutto occultata in seno all'ordinamento giuridico nazionale, risultando tendenzialmente ricostruibile nel prisma dei differenti schemi "istituzionali" e, dunque, riconducibile entro modelli organizzativi e forme di azione amministrativa il cui baricentro è segnato, più che dal regime delle appartenenze dominicali, dall'esercizio delle funzioni e dei compiti pubblici di governo dei diversi settori ai quali i singoli "beni" accedono [34].

3. Commons e beni pubblici: alcune considerazioni a mo' di conclusione

Le considerazioni svolte in ordine alla dimensione giuridica dei commons nell'attuale contesto ordinamentale offrono l'occasione per svolgere una breve chiosa conclusiva intorno alle relative prospettive di politica del diritto [35].

Ad avviso di chi scrive, infatti, gli "scenari" di ingegneria giuridica che si potrebbero eventualmente dischiudere sono almeno due [36].

Il primo, più o meno ascrivibile alla filosofia di fondo dello schema di legge delega elaborato dalla commissione ministeriale, si fonda sulla piena affermazione giuridica della categoria dei beni comuni quale tertium genus accanto ai beni "pubblici" e "privati" [37]; un'affermazione, come si è osservato in precedenza, non circoscritta al mero dato formale, ma teleologicamente orientata alla costruzione di un vero e proprio "diritto dei beni comuni" [38].

In questa prospettiva, le linee di costruzione di uno "statuto" normativo dei beni comuni non potrebbero che tradursi - a monte - nella configurazione di un nucleo unitario di regole in grado di consentirne, a fini qualificatori ed applicativi, una corretta individuazione, specialmente laddove si optasse per una forma di elencazione in una certa misura "aperta" e, come tale, non tassativa degli stessi.

Invero, trattandosi di beni fortemente sottratti al regime ordinario della proprietà, soprattutto per quanto concerne le relative forme di circolazione, è certamente preferibile la "via" della formulazione di elencazioni tassative; d'altronde, va da sé che eventuali elencazioni "aperte" presenterebbero diversi profili di criticità rispetto, in particolare, sia al disposto dell'art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sia, per altro verso, a quello dell'art. 1, Protocollo n. 1, CEDU.

Parimenti, la definizione di un quadro regolatorio di portata generale potrebbe costituire l'occasione per specificare ovvero delineare ex novo il regime delle forme di appartenenza, pubbliche e/o private, delle concrete modalità di fruizione, individuali e/o collettive, nonché dei presupposti per l'esercizio delle azioni funzionali alla tutela di siffatti beni, soprattutto con riferimento alla relativa legittimazione in sede giurisdizionale anche in un'ottica ripristinatoria e risarcitoria [39].

Nondimeno, affinché un tale corpus normativo risulti effettivamente fungibile, non appare sufficiente promuovere eventuali modificazioni della trama normativa codicistica, non potendosi prescindere da un coerente intervento di armonizzazione della disciplina generale con quelle settoriali; come si è evidenziato, infatti, si tratta di discipline fortemente consolidate, sia per quanto riguarda il regime normativo - di regola, espressione di un intreccio tra fonti internazionali, comunitarie e nazionali - sia per quanto concerne l'assetto organizzativo e le relative dinamiche gestionali.

Il secondo scenario, invece, non prevede la positivizzazione tout court della categoria dei beni comuni nei termini cui si è fatto cenno, facendo leva piuttosto sulla ridefinizione, da più parti auspicata, dei contorni dei regimi dominicali pubblici [40].

Si tratta di uno scenario che muove dalla constatazione per cui le cose comuni potrebbero confluire - ed in larga misura confluiscono già, come si è evidenziato - nell'alveo dei beni ad imputazione pubblicistica [41].

In questo senso, la rivisitazione della disciplina codicistica in tema di proprietà pubblica, a partire dal superamento della distinzione meramente formale tra demanio e patrimonio indisponibile, potrebbe costituire la sede privilegiata per un complessivo ripensamento non solo del regime delle appartenenze, ma soprattutto dei modelli gestionali e delle forme di tutela in vista della "(...) costruzione di un diritto amministrativo dei beni pubblici maggiormente in grado di sciogliere i dilemmi decisionali in ragione degli usi cui i beni sono destinati e degli obiettivi che si intendono perseguire con la loro regolamentazione" [42].

Tale prospettazione, peraltro, appare in linea con le impostazioni dottrinali e giurisprudenziali che valorizzano l'idea della necessaria funzionalità dei beni pubblici, pervenendo finanche all'affermazione per cui un "(...) bene è pubblico non tanto per la circostanza di rientrare in una delle astratte categorie del codice quanto piuttosto per essere fonte di un beneficio per la collettività" [43].

Come ha riconosciuto la stessa Corte di Cassazione, infatti, l'imputazione pubblicistica del bene comune "(...) esprime una duplice appartenenza alla collettività ed al suo ente esponenziale, dove la seconda (titolarità del bene in senso stretto) si presenta, per così dire, come appartenenza di servizio che è necessaria, perché è questo ente che può e deve assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti caratteristiche del bene e la loro fruizione"; la titolarità pubblica del bene, in sostanza, (...) non è fine a se stessa e non rileva solo sul piano proprietario ma comporta (...) gli oneri di una governance che renda effettivi le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene" [44].

Si tratta, invero, di una via già sperimentata in alcuni ambiti dell'ordinamento giuridico. Disciplinando la figura dei "diritti demaniali su beni altrui", ad esempio, l'art. 825 c.c. enuncia il principio per cui il regime del demanio pubblico si estende ai diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni quando questi "(...) sono costituiti per l'utilità di alcuno dei beni indicati negli articolati precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi"; ancorché in una prospettiva del tutto differente, poi, l'art. 2, comma 4, del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, in tema di cd. "federalismo demaniale", ha stabilito che "l'ente territoriale, a seguito del trasferimento, dispone del bene nell'interesse della collettività rappresentata ed è tenuto a favorire la massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della medesima collettività territoriale rappresentata" [45].

A prescindere dagli singoli esempi riportati, comunque, quanto rilevato induce a ritenere che la dimensione "comunitaria" potrebbe essere adeguatamente sviluppata e rafforzata assecondando l'evoluzione ordinamentale verso forme di "(...) titolarità pubblica in chiave strumentale rispetto al governo sostenibile e solidale" dei beni [46]; forme di titolarità pubblica, quindi, non costruite o ricostruite secondo logiche "appropriative" ed "escludenti" dell'uso della res, ma in funzione eminentemente "gestoria" quale guarentigia della fruizione collettiva dei beni e, per ciò solo, della corrispondente valenza "comunitaria" [47].

Come è stato evidenziato, del resto, è la "regolazione" e non l'appartenenza ad assicurare la funzione di uso collettivo e di conservazione del bene [48].

Vi è di più. Pur con tutte le cautele del caso, ed a prescindere dal regime dell'appartenenza pubblica, la teorica dei commons potrebbe essere declinata in una prospettiva ancora più ampia trasferendo - almeno per determinate categorie di "beni" o "frazioni" degli stessi - l'impostazione tradizionale del problema nell'ambito delle forme di tutela e valorizzazione delle finalità pubbliche "effettive" delle cose comuni, come avviene - per certi versi - per i beni culturali ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 s.m.i. [49]; effettività che potrebbe tradursi, nello specifico, anche nell'apposizione di un vincolo di destinazione in vista della relativa conformazione all'interesse pubblico [50], come già aveva in qualche modo intuito Gian Domenico Romagnosi [51].

L'apposizione del vincolo di destinazione, infatti, potrebbe costituire, anche in considerazione delle attuali condizioni della finanza pubblica, "(...) lo strumento di garanzia capace di soddisfare le differenti ragioni della tutela del bene e della sua conservazione" [52].

Nondimeno, al di là degli "scenari" e delle opzioni di politica del diritto prescelte o comunque astrattamente perseguibili, resta il fatto che quella che è stata enfaticamente celebrata come la "ragionevole follia dei beni comuni" continua a presentarsi come una sfida [53]; una sfida che investe tutti, legislatori, giudici e specialmente i giuristi cui, in assenza di modificazioni della trama positiva, spetta il compito di concorrere alla definizione - e perimetrazione - delle condizioni d'uso dell'espressione [54].

Altrimenti, all'atto pratico, la "cacofonica" vicenda dei beni comuni, calata nella realtà dell'ordinamento, rischia non solo di trasformarsi in un ulteriore elemento di incertezza, ma soprattutto di tradursi, per dirla con Shakespeare, nell'ennesima "(...) favola (...) piena di rumore e furia, che non significa nulla".

 

Note

[1] Così S. Rodotà, Editoriale, in Riv. crit. dir. priv., 2011, pag. 3 ss.; in generale, nell'ambito della letteratura internazionale, il dibattito intorno ai beni comuni è stato segnato dal saggio di G. Hardin, The Tragedy of the Commons, in Science, 162, 1968, pag. 1243 ss.; per un significativo mutamento di prospettiva, si v. M.A. Heller, The Tragedy of the Anticommons: Property in the transition from Marx to Market, in Harvard L. Rev., 111, 1998, pag. 662 ss.; per una lettura unificante, L.A. Fennell, Common Interest Tragedies, in Northwestern Univ. Law Rev., 98, 2004, pag. 907 ss.; sui cd. global commons, invece, si v. E.A. Clancy, The Tragedy of Global Commons, in Global Legal Studies J., 5, 1998, pag. 601 ss. Sul rapporto tra "diritto" e "linguaggio", si v. N. Bobbio, Sul ragionamento dei giuristi, in Riv. dir. civ., 1955, pag. 4.

[2] Secondo U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011, pag. 54, ad esempio, "la fenomenologia dei beni comuni è nettamente funzionalistica, nel senso che essi divengono rilevanti per un particolare fine sociale coerente con le esigenze dell'ecologia politica"; si cfr. anche A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Roma-Bari, Laterza, 2013. Per una riflessione metagiuridica correlata al rapporto tra la dimensione del "comune" e le dinamiche socio-economiche, si legga T. Negri, Inventare il comune, Roma, DeriveApprodi, 2012.

[3] Sul "carattere metagiuridico" della "genesi legislativa dei nomina iuris, in generale, si v. A. Falzea, Prolegomeni a una dottrina del diritto, in Voci di teoria generale del diritto, a cura di A. Falzea, Milano, Giuffré, 1985, III ed., pag. 6 ss.

[4] Afferma la portata "innovativa" del concetto di "bene comune", anche rispetto alle esperienze storicamente pregresse della proprietà indivisa o collettiva, S. Rodotà, Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, a cura di M.R. Marella, Verona, Ombre corte, 2012, pag. 19, secondo cui tale categoria non costituisce "(...) tanto il ritorno a 'un altro modo di possedere', ma la necessaria costruzione dell'"opposto della proprietà", così richiamandosi al lavoro di P. Grossi, "Un altro modo di possedere": l'emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffré, 1977, passim.

[5] Già la Corte di Cassazione, del resto, ne aveva in qualche modo riconosciuto la rilevanza giuridica affermando esplicitamente che "(...) dalla applicazione diretta ("drittwirkung") degli artt. 2, 9 e 42 della Costituzione si ricava il principio della tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell'ambito dello Stato sociale, anche nell'ambito del "paesaggio", con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della 'proprietà' dello Stato ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che - per tale loro destinazione, appunto, alla realizzazione dello Stato sociale - devono ritenersi "comuni", prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l'aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività": così Corte cass., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665, in Giur. it., 2011, pag. 12, con commento di C.M. Cascione, Le Sezioni unite oltre il codice civile. Per un ripensamento della categoria dei beni pubblici, ivi, pag. 2506 ss.

[6] In questo senso, si v. i lavori della Commissione ministeriale presieduta da Stefano Rodotà, istituita con decreto del Ministro della giustizia del 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici; il testo del progetto del disegno di legge delega e la relativa relazione di accompagnamento sono reperibili in Pol. dir., 2008, pag. 537 ss.

[7] Così M.R. Marella, Introduzione. Per un diritto dei beni comuni, in Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, cit., pag. 17, secondo cui "(...) è indispensabile cercare di cogliere i caratteri comuni che attraversano gli usi eterogenei del termine per poi capire in che misura intorno alla definizione beni comuni sia possibile costruire una categoria unitaria di risorse".

[8] Secondo la prospettiva capograssiana in base alla quale "l'idea viva del diritto" si forma come "parte essenziale dell'esperienza" che "(...) conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali determinazioni": G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto (1937), ed. riv. a cura di P. Piovani, Milano, Giuffré, 1962, spec. pag. 181; per una rassegna di esperienze rinvenibili nella prassi applicativa, peraltro, si cfr. il sito www.labsus.it.

[9] Sulla teoria "ontologica" dei beni, si v. A. Gambaro, I beni, Milano, Giuffré, 2012, spec. pag. 6 ss.; d'altronde, in questa prospettiva, non è casuale che M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, Giuffré, 1981, pag. 558 s., ritenesse preferibile riferirsi alle "cose comuni" piuttosto che ai "beni comuni".

[10] U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, cit., pag. 53 s., ad esempio, assume il "lavoro" come bene comune in quanto "(...) non è né un oggetto (una merce, entità astratta) né un astratto diritto soggettivo, bensì un entità collettiva (comune, appunto) e contestuale, condizione dell'essere e del produrre". In termini parzialmente differenti, invece, sembra presentarsi il discorso relativo al suolo, su cui si leggano le considerazioni di E. Boscolo, Le politiche idriche nella stagione della scarsità. La risorsa comune tra demanialità custodiale, pianificazioni e concessioni, Milano, Giuffrè, 2012, pag. 326 s.; sulla qualificazione del "suolo agro-naturale" come "bene comune", peraltro, si cfr. anche la l.r. Lombardia, 28 dicembre 2011, n. 25.

[11] Così recita l'art. 1, comma 3, lett. c), della proposta di articolato formulata dalla cd. "Commissione Rodotà", che elenca, tra i beni comuni, "(...) i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l'aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate".

[12] In tal senso, M. Renna, Le prospettive di riforma delle norme del codice civile sui beni pubblici, in I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali. Profili di diritto interno e internazionale, a cura di G. Colombini, Napoli, Jovene, 2009, pag. 23 s.; sul principio dello sviluppo sostenibile, per tutti, si v. F. Fracchia, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell'altro tra protezione dell'ambiente e tutela della specie umana, Napoli, Editoriale scientifica, 2010, passim.

[13] Ci si riferisce alla cd. prova "ontologica" di Sant'Anselmo d'Aosta; "O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto ciò che si possa pensare (...). Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile": Anselmo d'Aosta, Proslogion, trad. it. Milano, BUR, 1992, III ed., nn. 1.15: 226; 235.

[14] Sul punto, ancorché con riferimento al regime giuridico dei servizi pubblici locali, è utile l'osservazione di L. Perfetti, Miti e realtà nella disciplina dei servizi pubblici locali, in Dir. amm., 2006, pag. 387 ss., secondo cui "vi sono temi [...] in merito ai quali si sono andate costruendo letture (...) che divengono dogmi, miti, difficili da osservare con disincanto ed attenzione al dato normativo".

[15] Per un quadro complessivo della riflessione dottrinale in tema di beni pubblici, si cfr. i contributi raccolti in I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, a cura di A. Police, Milano, Giuffré, 2008, passim; per una ricostruzione in chiave storico-giuridica, si cfr. A. Ferrari Zumbini, I beni pubblici e la scienza del diritto amministrativo, in La scienza del diritto amministrativo alla seconda metà del XX secolo, a cura di L. Torchia, E. Chiti, R. Perez, A. Sandulli, Napoli, Editoriale scientifica, 2008, pag. 359 ss.

[16] Per O. Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, in Giur. it., 1897, IV, pag. 325 ss., ad esempio, sono res communes omnium e, come tali, "(...) non possono essere assoggettate alla signoria esclusiva di nessuna singola persona perché inapprensibili, ma il loro uso è aperto a tutti ed ognuno può divenire proprietario di una parte, separandola dalla massa"; con specifico riferimento al mare territoriale, tra gli altri, si v. anche E. Guicciardi, Il demanio, Padova, Cedam, 1934 (rist. anast., 1989), pag. 106.

[17] F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova, Cedam, 1960 (rist. lezioni 1911-1914), pag. 451 s.

[18] M.A. Venchi, Diritto pubblico dell'economia, Padova, Cedam, 1999, pag. 354, ove ulteriori riferimenti bibliografici.

[19] Così, rispettivamente, M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, Bulzoni, 1963, pag. 37 e Id., Diritto pubblico dell'economia, Bologna, Il Mulino, 1985, pag. 93; si v. anche S. Cassese, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, Giuffré, 1969, spec. pag. 147 ss. e 201 ss.

[20] In tal senso, M.S. Giannini, Diritto pubblico dell'economia, cit., pag. 93 ss.

[21] In proposito, si cfr. S. Cassese, I beni pubblici. Circolazione e tutela, cit., pag. 206 ss.

[22] Così M.A. Venchi, Diritto pubblico dell'economia, cit., pag. 355.

[23] Per F. Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, Bologna, Il Mulino, 2010, pag. 114, del resto, "la proprietà pubblica dell'ambiente vuol essere, per il potere coercitivo spettante al soggetto proprietario, un concetto rassicurante, la garanzia della più energica protezione".

[24] M.A. Venchi, Diritto pubblico dell'economia, cit., pag. 363, che precisa "i pubblici poteri, che avevano prima solo funzioni di polizia degli usi collettivi e speciali, hanno aggregato funzioni dispositive anche su queste altre categorie di beni"; con riferimento ai poteri di polizia spettanti alle amministrazioni pubbliche in ordine alla disciplina dei "beni a fruizione collettiva", si v. G. della Cananea, I beni, in Istituzioni di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Milano, Giuffré, 2012, pag. 234.

[25] In questi termini, G. Napolitano, I beni pubblici e le tragedie dell'interesse comune, in Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, a cura di U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Bologna, Il Mulino, 2007, pag. 142.

[26] In tal senso, relativamente alla soluzione "istituzionale" per quanto concerne il governo delle acque, si cfr. E. Boscolo, Le politiche idriche nella stagione della scarsità. La risorsa comune tra demanialità custodiale, pianificazioni e concessioni, cit., pag. 42, secondo cui "(...) occorre avere chiara questa complementarietà che si inscrive nella dimensione multi-scalare delle acque e dei correlativi strumenti di governo, dando vita ad un modello in cui la "presa in carico" da parte delle comunità ha ad oggetto singoli corpi idrici (...), ma non può certo sostituirsi alla presenza pubblica, riferita al sistema idrico nella sua infrazionabile interezza. In tal senso, e solo con questa fondamentale precisazione, è possibile parlare delle acque come beni comuni, quale premessa a forme di partecipazione comunitaria attiva, mentre proprio ogni radicalismo (o, peggio, ancora, ideologismo) renderebbe impraticabile la penetrazione del modello culturale dei commons entro il dibattito giuridico (...)"; per quanto concerne il modello "appropriativo", il riferimento è ovviamente al lavoro di G. Hardin, The Tragedy of the Commons, cit., pag. 1243; mentre, per quanto concerne, la soluzione dell'"autogoverno locale", si v. E. Ostrom, Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità, trad. it. Venezia, Marsilio ed., 2006, passim.

[27] Si cfr. l'art. 7, comma 1, lett. b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 s.m.i.

[28] Di recente, in tal senso, C.E. Gallo, La tutela amministrativa del suolo, dell'aria e dell'acqua, in Agricoltura e "beni comuni", a cura di A. Germanò, D. Viti, Milano, Giuffré, 2012, pag. 43; con specifico riguardo alla frontiera marina, invece, si cfr. L. Benvenuti, La frontiera marina, Padova, Cedam, 1988, passim.

[29] Un altro esempio, questa volta ampliativo delle facoltà e prerogative dominicali, è rappresentato dalla cd. cessione di cubatura o, meglio, dai "diritti edificatori" nell'ambito delle dinamiche perequative e compensative, laddove si riconosce autonomo rilievo giuridico "(...) alla colonna d'aria sovrastante il terreno che è disponibile per l'edificazione": vero è, infatti, che la cubatura "(...) allorché realizzata è tutt'altro che aria, ma che, prima della sua realizzazione, più che aria non è"; così C.E. Gallo, La tutela amministrativa del suolo, dell'aria e dell'acqua, in Agricoltura e "beni comuni", cit., pag. 51.

[30] Ai sensi dell'art. 74, comma 1, lett. f), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 s.m.i., per "acque dolci" si intendono "le acque che si presentano in natura con una concentrazione di sali tale da essere considerate appropriate per l'estrazione e il trattamento al fine di produrre acqua potabile"; per "acque costiere", "le acque superficiali situate all'interno rispetto a una retta immaginaria distante, in ogni suo punto, un miglio nautico sul lato esterno dal punto più vicino della linea di base che serve da riferimento per definire il limite delle acque territoriali e che si estendono eventualmente fino al limite esterno delle acque di transizione" (lett. c); per "acque sotterranee", "tutte le acque che si trovano al di sotto della superficie del suolo, nella zona di saturazione e in diretto contatto con il suolo e il sottosuolo" (lett. l); per "acque termali", "le acque minerali naturali di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), della legge 24 ottobre 2000, n. 323, utilizzate per le finalità consentite dalla stessa legge" (lett. m).

[31] Sul regime degli scarichi e delle acque reflue, si cfr. gli artt. 100 ss. del decreto legislativo n. 152/ 2006 s.m.i.

[32] Del resto, in una prospettiva più generale, "l'ordinamento globale (...) si presenta come una rete di governi di settori", come rilevato da S. Cassese, Gamberetti, tartarughe e procedure. Standards globali per i diritti amministrativi nazionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, pag. 674.

[33] Con riferimento alla salvaguardia delle risorse naturali, si cfr. G.P. Rossi, Le fonti, in Diritto dell'ambiente, a cura di G.P. Rossi, Torino, Giappichelli, 2011, 30 ss.

[34] Secondo V. Caputi Jambrenghi, Beni pubblici e di interesse pubblico, in Diritto amministrativo, a cura di L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco, F.G. Scoca, Bologna, Monduzzi, 2005, IV ed., II, pag. 181, "(...) proprietà pubblica e proprietà privata (...) non sono dunque due species dell'unico genus. Proprietà è diritto, mentre nella proprietà pubblica prevalgono nettamente esigenze, finalità e, di conseguenza, discipline normative specifiche che vedono il soggetto pubblico proprietario quale centro di imputazioni giuridiche tutte qualificate per doverosità".

[35] Senza, per questo, voler compiere un esercizio di "futurologia giuridica" nel senso indicato da M.S. Giannini, Futurologia e diritto, (ora) in Scritti. 1970-1976, Milano, Giuffrè, 1996, pag. 295 ss.

[36] "Scenari" che, per ciò solo, rimandano alla "decisione di sistema" cui, per quanto in chiave più generale, si riferisce N. Irti, L'ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, Laterza, 2003, pag. 53.

[37] Al riguardo, si leggano le utili riflessioni di E. Reviglio, Per una riforma del regime giuridico dei beni pubblici. Le proposte della Commissione Rodotà, in Pol. dir., 2008, spec. pag. 534.

[38] S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino, 2013, passim.

[39] Per A. Lucarelli, Proprietà pubblica, principi costituzionali e tutela dei diritti fondamentali. Il progetto di riforma del codice civile: un'occasione perduta, in Rass. dir. pubbl. eur., Beni comuni. Proprietà, gestione, diritti, a cura di A. Lucarelli, Napoli, Esi, 2007, 2, pag. 13, del resto, la commissione ha operato "(...) con l'assoluta consapevolezza che il lavoro, partendo dai beni, avrebbe avuto una immediata ricaduta sui diritti, sui diritti fondamentali, ovvero su quei diritti che possono essere garantititi sul piano della effettività soltanto se si configura un certo regime dei beni".

[40] Al riguardo, si cfr. V. Cerulli Irelli, I beni pubblici nel codice civile: una classificazione in via di superamento, in Econ. pubbl., 1990, pag. 523 ss.; si v. anche S. Cassese, Titolarità e gestione dei beni pubblici: una introduzione, in I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, cit., pag. 3 ss.

[41] In tal senso, valutando gli esiti dei lavori della commissione ministeriale, M. Renna, Le prospettive di riforma delle norme del codice civile sui beni pubblici, in I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali. Profili di diritto interno e internazionale, cit., pag. 27; in questa direzione, peraltro, si cfr. la l.r. Friuli Venezia Giulia, 26 giugno 2005, n. 13 e la l.r. Sardegna, 6 dicembre 2006, n. 19, ambedue in tema di risorse idriche.

[42] Così G. Napolitano, I beni pubblici e le tragedie dell'interesse comune, in Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, cit., pag. 154, che sottolinea come l'eventuale trasformazione del quadro positivo potrebbe arricchirsi anche dei contributi offerti dall'analisi economica del diritto soprattutto allo scopo di rivelare, soprattutto in chiave gestionale, "realtà controintuitive", "eterogenesi dei fini" e "interessi nascosti"; lo stesso a., però, segnala che "(...) sarà sempre difficile volgere in commedie le tragedie dell'interesse comune che inevitabilmente incombono quando entrano in gioco utilità collettive"; sulla valorizzazione funzionale ed economica dei beni, in generale, si cfr. anche M. Renna, Beni pubblici, in Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, pag. 714 ss.; sulla perdurante rilevanza dello strumento concessorio, si cfr. B. Tonoletti, Beni pubblici e concessioni, Padova, Cedam, 2008, passim.

[43] Così Corte cass., sez. un., n. 3665/2011, cit.

[44] "Sicché, al fine di riconoscere se in concreto il particolare bene di cui si discute fa parte della realtà materiale che la norma, denominandola, inserisce nel demanio, si deve tener conto in modo specifico del duplice aspetto finalistico e funzionale che connota la categoria dei beni in questione": ancora, Corte cass., sez. un., n. 3665/2011, cit.

[45] Anche se, in concreto, tale enunciazione di principio riflette la scelta di attribuire, a titolo gratuito, agli enti territoriali determinati beni, anche per finalità di dismissione e privatizzazione di parti cospicue di patrimonio pubblico: in proposito, si legga A. Police, Il federalismo demaniale: valorizzazione nei territori o dismissioni locali?, in Giorn. dir. amm., 2010, pag. 1233 ss.

[46] Così E. Boscolo, Le politiche idriche nella stagione della scarsità, cit., pag. 328, che, con riferimento ai beni comuni, utilizza l'espressione "demanialità custodiale"; nella dottrina gius-privatistica, si v. P. Perlingieri, La gestione del patrimonio pubblico: dalla logica dominicale alla logica funzionale, in Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, cit., pag. 89; in generale, però, si cfr. S. Cassese, Beni pubblici. Circolazione e tutela, cit., spec. pag. 123 e 137 ss.

[47] Il che - per inciso - imporrebbe però di dedicarsi, a monte, anche alla ridefinizione e/o ricostruzione della sfera "pubblica" nel suo complesso.

[48] È la tesi, in particolare, di M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, cit., passim.

[49] Sul regime dei beni culturali, per tutti, si v. C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo (a cura di), Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 2011; per una riflessione critica in ordine al rapporto tra "pubblico" e "privato", si cfr. anche M. Cammelli, Pubblico e privato nei beni culturali: condizioni di partenza e punti di arrivo, in questa Rivista, n. 2/2007.

[50] In questi termini, M. Dugato, Il regime dei beni pubblici: dall'appartenenza al fine, in I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, cit., pag. 17 ss.; A. Lolli, I beni pubblici per destinazione: formazione ed estinzione della fattispecie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, pag. 629 ss. D'altronde, nella relazione di accompagnamento alla proposta di articolato della commissione ministeriale più volte richiamata, si precisa che i beni comuni sono "(...) a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo alle persone pubbliche, ma anche ai privati".

[51] "Ogni cosa materiale, considerata in se stessa, non è pel suo concetto pubblica né privata: essa diviene tale soltanto per la relazione colla quale è rivestita": così, a proposito del regime delle acque, G.D. Romagnosi, Della condotta delle acque secondo le vecchie intermedie e vigenti legislazioni dei diversi paesi d'Italia, in Opere di G.D. Romagnosi, riordinate ed illustrate da A. De Giorgi, Milano, Perelli e Mariani Editori, 1842, pag. 40 (il testo è liberamente consultabile in www.books.google.it), richiamato di recente da G.P. Rossi, Gian Domenico Romagnosi e l'eclissi dello statalismo, in Dir. pubbl., 2012, pag. 34.

[52] Del resto, "(...) ciò che assicura che il bene sia effettivamente indirizzato alla soddisfazione dell'interesse al quale è servente sta nell'impossibilità di infrangere il vincolo di strumentalità"; inoltre, "il vincolo consente poi la destinazione e la conformazione all'interesse pubblico anche di beni privati, così che, in un sistema in cui l'interesse pubblico è realizzato per mezzo di beni di diversa appartenenza, un unico strumento rappresenta l'espressione più armonica della funzione sociale di cui la Costituzione fa insieme limite negativo e finalità positiva della proprietà": in tal senso, ancora, M. Dugato, Il regime dei beni pubblici: dall'appartenenza al fine, cit., pag. 34 s.; più in generale, si cfr. anche V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, Cedam, 1983; M. Olivi, Beni demaniali ad uso collettivo, Padova, Cedam, 2005.

[53] Riprendendo il titolo del volume di F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Bari, Dedalo, 2004, passim.

[54] Per una rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 810 c.c., si cfr. G. Arena, Beni comuni. Un nuovo punto di vista, in www.labsus.org, 2010.

 



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