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A proposito di spettacolo

Territori e cultura: quale rapporto?

di Carla Barbati

Sommario: 1. Qualche cosa è successo. - 2. Dai "soggetti" al "valore" della cultura, tra equivalenze ardite e inconsueti parallelismi. - 3. Il ritorno della "variabile dimensione" degli interessi? - 4. Dove va il decentramento: territo rio come "limite" o come "potenzialità"?.

Culture and territories: which relationship?
By its n.153/2011 judgment, the Italian Constitutional Court has given an unexpected outline of cultural sector constitutional framework. The Court comes to recognize that pursuing cultural interests may need Central State actions due to their being national interests. regionial and local governments, despite 2001 Constitutional transition to a more decentralized state, are entitled to play a role only in the pursuing of regional or local cultural interests. This essay considers the implication of such decision especially from the viewpoint of cultural sector needs and economic value.

1. Qualche cosa è successo

Chiamata a decidere in merito alla legittimità costituzionale di alcune previsioni del decreto legge 30 aprile 2010, n. 64, "Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali", convertito con modificazioni in legge 29 giugno 2010, n. 100, la Corte costituzionale ha tratto occasione per delineare un inatteso statuto della cultura in tutte le espressioni, anche distanti da quelle oggetto della normativa portata alla sua attenzione.

Di per sé, le questioni proposte all'esame della Corte non avrebbero richiesto tanto: i rilievi sollevati riguardavano, essenzialmente, la legittimazione dello Stato a rivedere, nell'esercizio della propria potestà regolamentare, l'assetto ordinamentale e organizzativo delle fondazioni lirico-sinfoniche di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367 e succ. mod.

Ancora una volta, si sarebbe trattato di decidere in merito al significato sostanziale da assegnare alle locuzioni con cui la Costituzione identifica le cosiddette materie, ossia gli ambiti in relazione ai quali si definiscono le competenze e, con esse, i ruoli di Stato e autonomie territoriali. Ancora una volta, si sarebbe trattato di stabilire in quale di esse potesse farsi rientrare la disciplina di determinate fattispecie.

La Corte era, dunque, chiamata a un'operazione interpretativa già altre volte effettuata, e con frequenza superiore al passato, dopo l'entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di modifica del Titolo V, Parte II, Cost.

La scelta, operata con questa riforma, di affidare il rafforzamento del principio autonomistico all'elencazione degli ambiti o, come si preferisce dire, per taluni casi, degli interessi che appartengono alla competenza esclusiva del legislatore statale e a quella concorrente di Stato e regioni, procurando così indicazioni implicite anche in merito a quanto, non essendo ascritto a questi due ordini di competenze, è suscettibile di imputazione alle sole regioni, ha accresciuto la centralità del significato da attribuire alle espressioni utilizzate per individuare gli "spazi" di intervento dei diversi livelli di governo [1].

Un'esigenza definitoria alla quale, specie in assenza dei provvedimenti legislativi richiesti dallo stesso Titolo V per la definizione del proprio disegno, ha dato risposta la Corte costituzionale, orientata, sovente, dalla preoccupazione di assicurare la "tenuta del sistema", soprattutto nei casi in cui il mancato adeguamento del contesto istituzionale e amministrativo non consentisse di ricevere tutte le ricadute del nuovo, e rafforzato, decentramento.

Un decentramento che è andato, perciò, delineandosi progressivamente, quasi "caso per caso", e la cui misura ed estensione sono venute a dipendere dalla riconduzione di determinate fattispecie nell'uno o nell'altro alveo.

Di tutte le cosiddette materie, oggetto d'interpretazioni giurisprudenziali e d'interventi legislativi settoriali volti a stabilirne i contenuti, la cultura, specie nella declinazione delle attività culturali, è fra quelle che ne sono state maggiormente interessate.

L'appartenenza della "promozione e organizzazione delle attività culturali" al novero delle materie assegnate alla competenza legislativa concorrente e, in quanto tali, sottratte alla potestà regolamentare dello Stato [2], ne ha fatto uno degli ambiti in relazione ai quali più si è posta la necessità di contenere le conseguenze derivanti dalla limitazione della legittimazione statale ad intervenire, soprattutto con quegli atti di natura regolamentare, funzionali alla gestione di risorse, beni o, comunque, di istituti la cui sottoposizione alla disciplina regionale avrebbe richiesto preliminari o contestuali adattamenti dei contesti.

Non a caso, la materia "promozione e organizzazione delle attività culturali" è stata tra le prime a essere oggetto di definizioni, legislative e giurisprudenziali, del proprio significato. Espressione di questi sforzi interpretativi è stata anche la scelta del legislatore, poi avallata dalla giurisprudenza costituzionale, di ricondurre nel suo ambito le attività di spettacolo, altrimenti suscettibili di essere imputate alla competenza residuale delle regioni, in quanto non menzionate negli elenchi dell'art. 117 Cost. e, sino a quel momento, interessate da un'identificazione normativa, propria e differenziata [3].

Sempre lo spettacolo, ricondotto nell'alveo delle attività culturali, ha dato occasione per la nascita del "decreto non avente natura regolamentare", con il quale s'intendeva superare l'impedimento all'esercizio di questa potestà normativa, da parte dello Stato, in una materia, comunque, di competenza concorrente. Un mezzo pensato per un fine, poi, condiviso dalle stesse regioni, ossia evitare che la gestione del Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) sino allora intestato al centro statale, venisse ripartita tra le regioni [4].

Prima tappa di un percorso giurisprudenziale e legislativo che avrebbe, nuovamente, coinvolto lo spettacolo nelle sue diverse ed eterogenee espressioni, facendone il settore in relazione al quale la stessa materia "promozione e organizzazione delle attività culturali" ha subito continue ridefinizioni del proprio ambito e, così, dei propri confini [5].

2. Dai "soggetti" al "valore" della cultura, tra equivalenze ardite e inconsueti parallelismi

La sentenza 18 aprile 2011, n. 153 si colloca nel solco di queste operazioni interpretative. Con essa, si sottraggono all'area della "promozione e organizzazione delle attività culturali" istituti riconducibili o, comunque, funzionali ad attività di spettacolo. A esserne esclusa è qui "la disciplina dell'organizzazione e del funzionamento delle fondazioni lirico-sinfoniche", ritenuta afferente a due materie assegnate alla competenza esclusiva del legislatore statale: "ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali" (art. 117 Cost., comma 2, lett.g) e, in ragione della personalità giuridica di diritto privato propria anche di queste fondazioni, "ordinamento civile" (art. 117 Cost., comma 2, lett. l).

Un "doppio titolo" di legittimazione per l'intervento esclusivo del legislatore statale che apre a una potestà anche regolamentare, la quale si conferma come l'esito sovente cercato e per il cui conseguimento molte indicazioni fornite dall'art. 117 Cost. sono oggetto di interpretazioni tramite le quali il decentramento "caso per caso" si trasforma nel suo opposto, ossia nella riconduzione di competenze in capo al centro statale.

Ma non a questo si arresta la pronuncia della Corte: dopo avere escluso che la disciplina delle fondazioni lirico-sinfoniche rientri nella "promozione e organizzazione delle attività culturali", passa a considerare le finalità che connotano il ruolo di tali enti.

Il giudice costituzionale rileva, perciò, come le fondazioni lirico-sinfoniche abbiano, fra i propri obiettivi, la "diffusione dell'arte musicale, la formazione professionale dei quadri artistici e l'educazione musicale della collettività": compiti che "travalicano largamente i confini regionali" e, certo, non consentono di ritenere che esse si dedichino ad attività di spettacolo d'interesse locale, come, invece, i teatri di tradizione e le altre istituzioni concertistico-orchestrali.

Gli obiettivi delle fondazioni lirico-sinfoniche, a giudizio della Corte, devono, pertanto, considerarsi "esplicazione dei principi fondamentali dello sviluppo della cultura e della tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione (...), che solo una normativa di sistema degli enti strumentali dettata dallo Stato può contribuire a realizzare adeguatamente".

In questo si fonda il loro carattere "nazionale" e la conseguente legittimazione esclusiva del legislatore statale a disciplinarne l'organizzazione e il funzionamento.

Tesi a sostegno della quale la Corte rinvia al modello delle istituzioni di alta cultura, suscettibili di essere limitate nella loro autonomia ordinamentale dalle leggi dello Stato, introducendo così un inconsueto parallelismo fra autonomie diverse che, come tali, necessitano di tutele diverse nei confronti di soggetti diversi.

L'autonomia universitaria, delle istituzioni di alta cultura e delle accademie, anche nei suoi profili ordinamentali, è, infatti, un'autonomia che la Costituzione riconosce nei confronti delle leggi dello Stato. La circostanza che l'art. 33 Cost. preveda il suo assoggettamento ai limiti da esse stabiliti non dovrebbe essere argomento che rafforza la legittimazione esclusiva dello Stato a intervenire nel settore della cultura, con conseguente limitazione del ruolo delle regioni, proprio perché enunciata ad altri fini e agli effetti di un rapporto che non coinvolge le autonomie territoriali.

Ma il giudice costituzionale va oltre: non limitandosi a guardare ai soggetti, ovverossia agli strumenti di intervento pubblico diretto nel settore della cultura né ai profili di loro disciplina che possono intersecare altri interessi, oggetto di differenti imputazioni di competenza, estende la sua attenzione alle attività, meglio ai valori che si tratta di tutelare.

Vengono, in tal modo, create altre equivalenze ardite tra il valore della cultura e quello della ricerca scientifica nonché tra queste e l'attività-funzione di "tutela conservativa dei beni culturali", accomunate dalla possibilità di rintracciarvi interessi la cui tutela postula l'intervento esclusivo del legislatore statale.

Ben oltre le necessità delle questioni proposte alla sua attenzione, la Corte giunge così a delineare una sorta di statuto della cultura, in senso allargato, comprensiva di tutti gli interessi, le funzioni e le attività che siano, ad essa, concettualmente riconducibili, anche di là dalla considerazione e dal trattamento differenziati che ricevono dalla Carta costituzionale.

Lo statuto della cultura o di ciò che, nella latitudine assegnata dalla Corte, sembra qualificarsi come ambito della "conoscenza" diventa, perciò, l'esito anche di altro, segnatamente di valori costituzionali che diventano o, forse, sarebbe meglio dire, ritornano ad essere suscettibili di una diversa dimensione: nazionale e regionale (locale).

3. Il ritorno della "variabile dimensione degli interessi"?

Quanto la Corte, con terminologia adeguata al nuovo linguaggio del legislatore e del giudice costituzionale, identifica come "interesse di dimensione unitaria" acquista la capacità di limitare, sin quasi eliminare, la competenza regionale, esprimendo, perciò, una forza superiore a quelle omologhe "istanze unitarie" che giustificherebbero altro, ossia uno scorrimento di competenze verso l'alto, sino alla cosiddetta "chiamata in sussidiarietà" di funzioni, anche legislative, possibile alle condizioni sostanziali e procedimentali, da essa stessa, indicate in altre pronunce [6].

Ciò a cui pare di assistere è a una sorta di "ritorno" dell'interesse nazionale e, più ancora, del ruolo dell'interesse nazionale, accompagnato, per non dire suffragato, da un altro "ritorno", quello dell'interesse regionale, riproposto come titolo di competenze che in tanto sussistono in quanto non ricorrano interessi la cui rilevanza richiede l'intervento esclusivo del legislatore statale.

Un duplice "ritorno" che supera, discostandosene, quanto il giudice costituzionale ebbe modo di affermare in precedenti pronunce, quando, proprio con riferimento alla cultura e alle sue espressioni, affermò che doveva intendersi contrario al dettato costituzionale "riconoscere alle regioni soltanto una competenza relativa alle attività culturali di mero interesse regionale" talché solo "per i casi residuali, in cui la materia dello spettacolo assume caratteristiche esclusivamente regionali e locali, le regioni (...) potranno esercitare la propria potestà normativa" [7].

Nel nuovo Titolo V non si riteneva, infatti, possibile rintracciare la sussistenza di "un interesse nazionale" atto a giustificare una competenza esclusiva del legislatore statale, essendo la clausola dell'interesse nazionale "priva di ogni valore deontico, giacché (...) non costituisce più un limite né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa delle regioni " [8].

Un "ritorno" che appare ancora più tale nel momento in cui rinvia a scenari propri delle prime, incerte e fragili, fasi del regionalismo.

Riconoscere l'esistenza di attività di spettacolo e, perciò, di espressioni culturali d'interesse regionale significa riferirsi ancora all'impostazione del d.p.r. 25 luglio 1977, n. 616, laddove nell'art. 49 si annunciava una competenza delle regioni a svolgere "attività di promozione educativa e culturale attinenti precipuamente alla comunità regionale" e a esercitare "le funzioni amministrative concernenti le istituzioni culturali di interesse regionale, operanti nel territorio regionale e attinenti precipuamente alla comunità regionale" [9].

Significa svalutare le aperture, a favore del riconoscimento di un ruolo generale-residuale delle regioni in materia di spettacolo e di cultura, sia pur debolmente effettuate con la legge 30 maggio 1995, n. 203, quando, dopo l'abrogazione referendaria della legge istitutiva del Ministero del Turismo e dello Spettacolo [10], s'intesero porre i primi fondamenti legislativi di una nuova competenza regionale nel settore, escludendola solo con riferimento ai soggetti, le attività, obiettivi e funzioni che risultassero di "prioritario interesse nazionale" [11].

Significa dimenticare il passaggio compiuto in occasione dei provvedimenti legislativi con i quali si diede avvio al cosiddetto federalismo amministrativo, premessa della revisione costituzionale del 2001.

L'art. 156 del decreto legislativo 31 maggio 1998, n. 112, in conformità ai principi posti dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, si limitava a individuare i compiti di rilievo nazionale da conservare allo Stato, riconoscendoli nelle sole azioni di promozione, programmazione e incentivazione finanziaria, a fini di riequilibrio, che il centro statale era chiamato a porre in essere nei confronti dello spettacolo dal vivo, sia pure in collaborazione con le autonomie territoriali. Compariva anche nell'art. 156 del d.lg. 112/1998 la menzione di istituzioni teatrali nazionali, facendole destinatarie di azioni di sostegno e di definizione del loro ruolo da parte statale, pur senza escludere un intervento a supporto anche delle autonomie regionali.

Significa, soprattutto, riconoscere ancora nella "variabile dimensione degli interessi" il criterio conformativo delle competenze, ancorandone la rilevanza all'ambito di loro incidenza territoriale.

4. Dove va il decentramento: il territorio come "limite" o come "potenzialità"?

Tesi e percorsi argomentativi, proposti dal giudice costituzionale, che, di là dal significato sostanziale che si può riconoscere alla loro enunciazione incidentale, reintroducono una questione, ancora, aperta, dalla quale dipendono molti esiti del processo di decentramento in corso e che, come tale, merita di essere considerata oltre il diretto rilievo che possiede agli effetti, e nel contesto, della pronuncia che dà occasione a queste note.

Questione che si può risolvere in un interrogativo: qual è il ruolo del territorio?

Che esso rappresenti il limite dell'azione legislativa e amministrativa delle regioni, o comunque delle altre autonomie locali, è dato intrinseco alla loro stessa natura di livelli di governo sub statali.

Che il territorio come confine geografico, e perciò politico-amministrativo, diventi anche l'ambito (-limite) entro il quale deve essere contenuta l'incidenza delle attività e, perciò, la rilevanza degli interessi che definiscono la competenza e, dunque, il ruolo dei soggetti istituzionali di suo riferimento, non dovrebbe considerarsi conseguenza necessaria [12], a meno di negare le potenzialità e la stessa ragion d'essere della differenziazione e, perciò, del rafforzamento del principio autonomistico.

Vi è, d'altro canto, una domanda, concettualmente preliminare, che sempre si apre, quando ci si confronta con l'interpretazione e con l'attuazione del nuovo disegno costituzionale: dove deve fermarsi la differenziazione per lasciare spazio alle istanze dell'uniformità?

Domanda che rinvia alla necessità di verificare quali interessi e quali valori necessitino dell'intervento uniformante del legislatore statale. Molte risposte sono state procurate dallo stesso legislatore costituzionale, laddove, nell'art. 117, comma 2, Cost. elenca le cosiddette materie o attività-funzioni riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Molte sono state, poi, definite, precisate e, talvolta, riformulate dal giudice costituzionale.

Molte, si è detto, hanno già interessato il settore della "cultura" che, con questa pronuncia, diventa oggetto di un altro intervento interpretativo, per effetto del quale lo stesso art.9 della Costituzione, ove si eleva lo "sviluppo della cultura" a finalità della Repubblica, ossia, come è ormai condiviso dagli interpreti, di tutti i livelli di governo nei quali si articola il nostro ordinamento, legittima l'intervento esclusivo del legislatore statale quando le espressioni della cultura possiedano un "carattere nazionale".

La cultura diventa così, meglio ritorna a essere, un interesse (-valore) che postula la competenza del centro statale, per lasciare alle autonomie le sole espressioni che possano ritenersi di "interesse regionale o locale".

Si traccia, in tal modo, un percorso interpretativo del "nuovo decentramento" che, specie per quanto concerne il settore della cultura, presuppone "troppo" quanto a estensione e modalità dell'intervento pubblico, soprattutto del centro statale, e "troppo poco" quanto a ruolo che può essere assolto, in proposito, dai territori.

Quando a venire in considerazione è la cultura, come attività, e non soltanto i soggetti tramite i quali si produce e si diffonde, ci si confronta, infatti, con valori e con diritti di libertà che non chiedono "tanto" ai poteri pubblici, specie allo stato centrale e che, del pari, non possono chiedere così "poco" alle autonomie territoriali.

La cultura e il suo sviluppo, d'altro canto, possono essere interessate, come vuole la nostra stessa Costituzione, da mere azioni di promozione pubblica. Una promozione che si esprime tramite, sempre più residuali, forme d'intervento diretto e, più estese, forme d'intervento indiretto.

Le prime, realizzate tramite soggetti o organismi, variamente riconducibili ai diversi livelli di governo e alle loro competenze, le seconde affidate alle diverse tipologie di azioni d'incentivazione finanziaria, di riequilibrio e, soprattutto, complementari di un mercato che non sempre assicura le condizioni, anche economiche, necessarie alla loro offerta [13].

Poco, di ciò che concerne l'azione pubblica di promozione della cultura, richiede azioni uniformanti. Molto richiede l'intervento di una pluralità di soggetti pubblici, adeguata a riflettere la necessaria pluralità (pluralismo) delle espressioni culturali, di là da qualsiasi etero determinazione del rilievo nazionale o locale che esse possano possedere, tra l'altro difficile, se non impossibile, da effettuare con riferimento ad attività e a valori che appartengono allo Stato-comunità [14].

Lo stesso può dirsi per quell'altro valore (-materia) che il giudice costituzionale attrae all'ambito della cultura-conoscenza, ossia la ricerca scientifica, non a caso, oggetto di competenze legislative concorrenti e suscettibile al più di essere interessata dalla "chiamata in sussidiarietà" delle funzioni necessarie alla sua disciplina e al suo sviluppo, quando intersechi interessi che, per dimensione e rilevanza, necessitano di un più forte intervento del centro statale [15].

Se si escludono, dunque, le espressioni della cultura affidate, quanto a produzione, diffusione e sviluppo a soggetti o a misure la cui disciplina interseca interessi ed esigenze che vogliono l'azione uniformante del legislatore statale, e a parte le differenti considerazioni che possono svolgersi in merito alla tutela dei beni culturali, la cui riserva alla competenza esclusiva del centro statale obbedisce ad altre necessità, riconducibili essenzialmente all'allocazione delle conoscenze tecniche, richieste dal suo esercizio, presso l'apparato ministeriale del settore, il ruolo del territorio va oltre a quello che la Corte, in questa pronuncia, sembra voler riconoscere.

Richiamare l'insieme delle ragioni che chiedono ai governi substatali presenze e, perciò, competenze che non trovino nei confini geografici e politico-amministrativi l'ambito materiale, e perciò il limite, entro cui deve essere contenuta l'incidenza degli interessi e delle attività oggetto dei loro interventi legislativi (e amministrativi) significherebbe riproporre l'analisi delle istanze che sono a fondamento del decentramento rafforzato accolto dalla nostra Costituzione, specie dopo le modifiche del 2001.

Basti, qui, ricordare che se il settore della conoscenza, comprensivo, secondo la lettura che ne propone la Corte, anche di quanto la Costituzione fa oggetto di considerazione e trattamento separati e differenziati, come è per le attività culturali e dello spettacolo, per il patrimonio culturale e per la stessa ricerca scientifica, deve essere riconosciuto, nella nostra esperienza al pari di quanto già avviene in altre, anche nel suo valore economico, perché in ciò si declina, ormai, l'azione di promozione, orientandola e finalizzandola, questo richiede il coinvolgimento, e la collaborazione, dei territori.

Un coinvolgimento che, peraltro, occorrerebbe anche alle fondazioni lirico-sinfoniche, comunque oggetto principale di una pronuncia che è andata ben "oltre", ma che esse, in ogni caso, coinvolge anche quanto a ruolo da riconoscere ai territori oggi "limitati" negli spazi di una concertazione, debolmente, procedimentalizzata e, ancor meno, garantita nei suoi esiti.

La capacità della cultura, in tutte le sue espressioni, di farsi motore e occasione di sviluppo, anche sociale ed economico, richiede, d'altro canto, qualche cosa in più. Richiede condizioni, ambientali e di sistema locale, che solo i territori e, perciò, i governi che li rappresentano, possono assicurare, in ragione delle competenze delle quali dispongono all'interno dell'attuale assetto istituzionale. Soprattutto, non può essere affidata alla sola azione e ai soli interventi di un centro statale, sempre più affaticato e incapace di farsi interlocutore dei diversi interessi e dei soggetti, anche privati, che agiscono nei diversi settori, a partire da quello della cultura.

E' questo, d'altro canto, il contributo che si attende dal potenziamento del principio autonomistico e per il quale esso è stato pensato ed è, tuttora, "in qualche modo", perseguito. Un disegno entro il quale il territorio è potenzialità. Certo, non può ritornare a essere limite.

 

 

Note

[1] In proposito, cfr., fra gli altri, R. Bin, I criteri di individuazione delle materie, in Le regioni, 2006, pp. 889 ss.

[2] In questo senso, cfr. art. 117, comma 6, Cost.

[3] Il riferimento è alla menzione, distinta da quella delle attività culturali, che se ne fece nel d.lg. 112/1998, art. 156.

[4] In questo senso, dispose il decreto legge 18 febbraio 2003, conv. con mod. in legge 17 aprile 2003, n. 82, in particolare nel suo art. 1, così, peraltro, facendo proprio l'interpretazione che dei riferimenti e dei silenzi contenuti nell'art. 117 già era stata avvallata dal Consiglio di Stato nel parere n. 3608 del 20 dicembre 2002, con cui la Sezione consultiva per gli atti normativi aveva operato un riferimento al "comune sentire" che autorizzerebbe a collocare lo spettacolo nel novero delle attività culturali e, perciò, in quello delle competenze legislative concorrenti. Sul punto, ci si permette di rinviare a C. Barbati, Lo spettacolo: il difficile percorso delle riforme (dalla Costituzione del 1948 al "nuovo" Titolo V e "ritorno"), in Aedon, 1/2003.

[5] Significativo il caso della "disciplina concernente l'apertura delle sale cinematografiche" che, nell'interpretazione della Corte costituzionale, non poteva farsi rientrare solo nella promozione e organizzazione di attività culturali, ma, prevalentemente, in quella del governo del territorio, come tale sottoposta alle limitazioni "forti" autorizzate da questo ambito. Cfr. Corte cost., sent. 7-19 luglio 2005, n. 285.

[6] Il riferimento è, qui, a quanto enunciato, principalmente, nella sent. 303 del 2003, con la quale la Corte ha ammesso la cd. chiamata in sussidiarietà, e quindi la deroga al riparto delle competenze fissato nel titolo V, quando la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato fosse proporzionata, non risultasse affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e fosse oggetto di un accordo stipulato con la regione interessata. (Cfr. pt. 2.2. del cons. in diritto).

[7] In questo senso, cfr. sent. Corte cost. n. 285 del 2005.

[8] Cfr. sempre sent. Corte cost. n. 303 del 2003.

[9] Sul punto, cfr. R. Zaccaria, Art. 49, in A. Barbera e F. Bassanini, (a cura di), I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali. Commentario al decreto 616 di attuazione della legge 382, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 311 ss. Prova di questo "ritorno" a un passato, ancor più remoto, del tempo in cui l'ordinamento regionale doveva, ancora, trovare attuazione è, peraltro, lo stesso esplicito richiamo, a supporto delle proprie tesi interpretative, che la Corte effettua alla legge 14 agosto 1967, n. 800, recante l'allora "Nuovo ordinamento degli enti lirici e delle attività musicali", nella parte in cui il legislatore, facendosi interprete del ben diverso contesto istituzionale, stabilisce che: "Lo Stato considera l'attività lirica e concertistica di rilevante interesse generale, in quanto intesa a favorire la formazione musicale, culturale e sociale della collettività nazionale" (art.1), per precisare nell'art. 28 che ai teatri di tradizione e alle istituzioni concertistico-orchestrali si assegna il compito di promuovere, agevolare e coordinare attività musicali che si svolgano nel territorio delle rispettive province. Disposizioni la cui perdurante vigenza, dovuta anche alla mancata, pur sempre promessa, approvazione di nuove leggi di disciplina dello spettacolo dal vivo, necessita, comunque, di un'interpretazione adeguata al nuovo assetto istituzionale.

[10] Ci si riferisce, qui, all'abrogazione della legge 31 luglio 1959, n. 617, disposta con d.p.r. 5 giugno 1993, n. 175, in esito al referendum di iniziativa regionale del 18 aprile 1993.

[11] Potenzialità, queste, della legge 203/2005 che, in ogni caso, si confrontavano, ancora, con il peso e con il rilievo che la Costituzione del 1948 assegnava all'"interesse nazionale". Sul punto, ci si permette di rinviare a C. Barbati, Istituzioni e spettacolo. Pubblico e privato nelle prospettive di riforma, Padova, Cedam, 1996, pp. 18 ss.

[12] In questo senso, d'altro canto, la stessa Corte costituzionale, quando con sent. 383/2005 rilevò come "l'ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta o indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale, va ricercato non secondo il criterio dell'elemento materiale consistente nell'incidenza dell'attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell'elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività".

[13] Il riferimento è alla nota concezione dei beni della cultura come merit goods che, in ragione della loro primarietà, devono essere assicurati alla collettività, indipendentemente dalla domanda che ne esprima il mercato e dalla loro idoneità a produrre utilità economiche corrispondenti ai costi di loro produzione e offerta (cd. morbo di Maubol) su cui cfr. R.A. Musgrave, Finanza pubblica, equità, democrazia, Bologna, il Mulino, 1995.

[14] In questo senso, cfr, già, G. Morbidelli, L'azione regionale e locale per i beni culturali in Italia, in Le regioni, 1987, pp. 942 ss.

[15] Il che è quanto è stato affermato dalla sent. Corte cost. n. 31 del 2005.

 

 



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