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Gli standard nazionali di qualità per le professioni museali:
le prospettive possibili [*]

di Carla Barbati

Sommario: 1. Il contesto. - 2. I presupposti. - 3. Le prospettive. - 3.1. Il riconoscimento delle professioni. - 3.2. La formazione-istruzione professionale. - 3.3. L'istruzione superiore.

1. Il contesto

Le professioni museali sono, ad oggi, fra quelle prive di un riconoscimento legislativo che valga a farne professioni regolamentate, ossia esercitabili solo da chi ne sia abilitato, in ragione del possesso di competenze e conoscenze certificate o certificabili.

Ciò nonostante, o forse proprio per questo, le professioni museali, al pari di quelle, più ampiamente, rivolte al settore dei beni culturali, sono indicate fra i cosiddetti "sbocchi occupazionali" di molti percorsi formativi, dei più diversi livelli.

Compaiono, così, fra gli obiettivi qualificanti di numerosi corsi di laurea magistrale e, soprattutto, triennale, le cosiddette lauree "professionalizzanti", che gli Atenei sono autorizzati ad istituire: da quelli appartenenti alle classi di laurea in beni culturali a quelli in lingue e culture moderne, scienze della comunicazione, lettere, storia, come ridefinite con i dd.mm. 16 marzo 2007.

Molti, se non moltissimi, sono altresì i percorsi post-laurea attivati, presso i più diversi Atenei, come master universitari di I o di II livello e variamente dedicati all'acquisizione di competenze funzionali a ciò che, con espressione ormai bonne à tout fair, si definisce "management per i beni culturali", ma che in termini maggiormente esplicativi nonché corrispondenti al linguaggio legislativo, potrebbe indicarsi come valorizzazione, gestione e promozione del patrimonio culturale [1].

Iniziative che si affiancano a quelle poste in essere, spesso nella forma del master "non universitario", da una pluralità di soggetti privati operanti nel campo della formazione ed, in quanto tali, anche di difficile censimento.

La diffusione di queste offerte formative può ben considerarsi conseguenza, non fra le migliori, dell'elevato interesse per un settore che, specialmente in questi ultimi dieci anni, è stato oggetto di reiterati interventi normativi, i quali hanno alimentato dibattiti e attenzioni, spesso ospitate dai più diversi mezzi di comunicazione, che hanno contribuito a farlo apparire capace di offrire numerose ed inesplorate prospettive occupazionali [2].

A questo ha, soprattutto, contribuito il riconoscimento della "funzione-attività" di "valorizzazione (gestione)" dei beni culturali, quale ambito aperto agli interventi delle autonomie territoriali nonché di privati, for profit e non profit, privo di una tipizzazione, quanto ad interventi, azioni, misure nelle quali si estrinseca [3], che rinvii al possesso di conoscenze tecniche o di specializzazioni certificate, quali sono richieste per le "altre" attività, direttamente funzionali alla "tutela" dei beni culturali.

La natura delle attività insieme con il mancato riconoscimento legislativo delle corrispondenti professioni ha, perciò, autorizzato, ma di più favorito, il moltiplicarsi di offerte formative, caratterizzate da un'elevata eterogeneità, anche qualitativa, le cui debolezze e sostanziali inadeguatezze sono state, presto, denunciate dalle diverse parti interessate e in diverse sedi.

Già l'"Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei" approvato con d.m. 10 maggio 2001, nel suo "Ambito IV-Personale", segnalava la necessità di personale qualificato, invocando, allo scopo, alcune regole comuni quali "l'accertamento di una formazione adeguata alle funzioni da svolgere" ed il "riconoscimento della specificità delle professioni" necessarie ai diversi ambiti di attività del museo. Prevedeva, altresì, che Stato, regioni e autonomie locali, attraverso procedure concordate, s'impegnassero a definire i profili professionali essenziali, i requisiti di accesso, le modalità di selezione e inquadramento del personale museale, al fine di "garantire omogenei livelli qualitativi delle prestazioni, a prescindere dalla proprietà e dalla forma di gestione" [4].

Posizioni analoghe sono state espresse dalle regioni, in occasione dell'"Indagine conoscitiva sui nuovi modelli organizzativi per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali", svoltasi dall'ottobre 2001 al marzo 2002, presso la VII Commissione Permanente del Senato [5], e riaffermate nel Documento approvato dalla Conferenza dei Presidenti delle regioni e delle province autonome l'8 maggio 2003, intitolato "Più tutela, più valorizzazione del patrimonio culturale: proposte delle regioni per allargare i soggetti che concorrono, con lo Stato, alla tutela dei beni culturali".

Anche da parte degli operatori del settore si sono succedute iniziative per tentare una ricognizione-definizione dei profili professionali, necessari ai beni e ai servizi culturali, che fosse capace di orientare le offerte ed i percorsi formativi. L'espressione più significativa di questi sforzi può, da ultimo, considerarsi la "Carta nazionale delle professioni museali" approvata, nel luglio 2006, dalle Associazioni Museali Italiane, sulla scorta delle elaborazioni ed acquisizioni dell'Icom italiana e internazionale.

Se la necessità di intervenire sui percorsi formativi per la qualificazione del personale museale può, perciò, dirsi da tempo riconosciuta e condivisa, discusso e indefinito è apparso, e tuttora appare, il "come" soddisfarla, così da assicurare la presenza di personale adeguato presso tutte le istituzioni, chiamate a valorizzare-gestire luoghi e istituti di cultura [6].

Neppure il "Codice dei beni culturali e del paesaggio", adottato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e già oggetto di due modifiche apportate, con riferimento alla parte "beni culturali", dal decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 156 e dal più recente decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 62 offre indicazioni esplicite e che appaiano immediatamente utili allo scopo.

Le sole disposizioni dedicate alla qualificazione degli operatori del settore hanno riguardo ai percorsi formativi necessari ad acquisire la qualifica di restauratore o, comunque, alle condizioni richieste perché sia assicurata una formazione omogenea alle figure chiamate a svolgere attività complementari al restauro o alla conservazione.

A ciò sono dedicate, soprattutto, le prescrizioni dell'art. 29 e la disciplina transitoria dettata nell'art. 182 del Codice: entrambe oggetto di modifiche e riscritture, per opera dei decreti correttivi del 2006 e del 2008, prima ricordati.

Nulla si dice, invece, in merito alle "altre" attività, maggiormente rivolte alla gestione e alla valorizzazione dei luoghi e degli istituti di cultura.

Nel Codice compaiono, a questo proposito, solo riferimenti generali quanto generici alla necessità che siano garantite competenze e conoscenze adeguate, come avviene nell'art. 115, secondo comma, ove si richiede la disponibilità di "idoneo personale tecnico" alle amministrazioni che scelgano di gestire in forma diretta le attività di valorizzazione.

In assenza di norme specifiche, ci si è perciò chiesti se potesse essere l'art. 114 del Codice, ossia la disposizione in cui si prevede di fissare, con decreto ministeriale, i "livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione", per i beni di appartenenza pubblica, a procurare la possibilità di intervenire anche su questi profili.

Ed è questa la tesi accolta dalla "Commissione ministeriale per la definizione dei livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione", presieduta da Massimo Montella e incaricata del lavoro preparatorio alla redazione del decreto richiesto dall'art. 114 del Codice [7].

In effetti, anche a voler qui prescindere da quelle che saranno le vicende connesse all'attuazione della disposizione, è possibile riconoscere che il decreto ministeriale per i "livelli minimi" di qualità delle attività di valorizzazione consenta di intervenire, almeno a certi effetti, anche in materia di formazione e qualificazione del personale.

Il profilo, indubbiamente, rinvia a scelte di rilevanza organizzatoria, riconducibili ad un ambito funzionale, qual è quello delle attività di valorizzazione, che, quando riguardi "istituti o luoghi della cultura" non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato non abbia trasferito la disponibilità alle autonomie territoriali, rientra nella potestà legislativa di dettaglio delle regioni e attiva la competenza amministrativa ed organizzatoria dei diversi enti pubblici territoriali.

Tuttavia, ciò non può ritenersi impedisca un intervento del centro statale volto a porre standard o requisiti minimi, in merito alle competenze e alle professionalità coinvolte, specie quando si tenga conto del procedimento richiesto, dall'art. 114 del Codice, per l'adozione del decreto ministeriale, fondato, come è, sulla "previa intesa" in sede di Conferenza Unificata.

D'altro canto, è proprio il ricorso all'"intesa", ossia allo strumento più forte di "leale cooperazione" e concertazione tra livelli di governo, a procurare la condizione procedurale, ed insieme sostanziale, che consente all'art. 114 del Codice di essere previsto e di ricevere attuazione come norma rivolta alla valorizzazione di tutti i beni culturali di appartenenza pubblica, non solo a quelli che risultino nella disponibilità dello Stato.

2. I presupposti

Riconoscere la possibilità di fissare requisiti e condizioni che andranno ad applicarsi come "livelli minimi", derogabili in melius, anche alle autonomie territoriali ed in relazione ai beni culturali nonché ai luoghi ed istituti di cultura che siano nella loro disponibilità, tuttavia, non equivale a risolvere la questione del "come" intervenire a questo fine [8].

Non solo resta da soddisfare l'evidente necessità di immaginare "livelli minimi" che possano essere garantiti da tutte le realtà, dunque adattabili a situazioni che possono essere anche altamente differenziate, ma, soprattutto, ci si confronta con "altri" interrogativi.

Il problema centrale, proposto dalla questione degli standard nazionali per la qualificazione del personale museale, si colloca, infatti, "altrove". Volendo proporne una qualche ubicazione, potrebbe dirsi, con formula nota quanto vieta, che il problema è "a monte", ossia non investe tanto l'an quanto i presupposti degli standard, per come derivano da quella che ne è la ratio.

Vale a dire, se l'intento, ed insieme l'obiettivo, fosse soltanto quello di richiedere la presenza di "competenze professionali" o di "abilità ed esperienze" qualificate, in termini tanto generali quanto generici, ma soprattutto prive di una qualsiasi certificazione che equivalga a riconoscimento del percorso formativo e della professionalità acquisita, il problema potrebbe, appunto, risolversi con il rispondere solo alla domanda sulla possibilità di dedurre queste previsioni ad oggetto di un provvedimento statale che, peraltro, si limiterebbe a ripetere le indicazioni, altrettanto generiche, già fornite, come si è detto, dal legislatore del Codice.

Quando, invece, si intenda assicurare un contenuto effettivo, o per meglio dire "proprio", agli standard in materia di qualificazione del personale, che sia perciò stesso capace di tradurne la ratio, esplicitata anche dalle richieste e dalle sollecitazioni che si ricordavano espresse dalle diverse parti coinvolte, ci si confronta con questioni più ampie ed ancora irrisolte.

Il problema va, appunto, ad investire i presupposti degli standard, ossia il sistema di riconoscimento e di certificazione delle competenze e, ancor prima, i percorsi formativi richiesti perché si possa ritenere che "quelle" esperienze, o comunque "quelle" professionalità, siano realmente possedute.

Ed è a questo punto, e a questo proposito, che si aprono gli "altri" interrogativi dei quali si diceva. Interrogativi, peraltro, che necessitano di risposte differenziate, per quanto complesso è il sistema della formazione e della qualificazione professionale, articolato, come è, in una pluralità di profili e/o di livelli.

Parlare di percorsi formativi o per la qualificazione del personale significa, infatti, misurarsi con scenari caratterizzati da ciò che, volendo utilizzare una locuzione nota, coniata ad altri fini dal giudice costituzionale, può definirsi un "inestricabile intreccio di competenze": competenze in materia di "formazione e istruzione professionale", di "professioni", di "lavoro" ed anche, sia pure in ultima istanza, di "valorizzazione-gestione" dei beni culturali.

Non sembra, in sostanza, che, in questo caso, siano utilizzabili le medesime soluzioni interpretative proposte dalla Corte costituzionale nella sentenza 13 gennaio 2004, n. 9, quando ritenne che la questione della competenza ad intervenire in materia di formazione e qualificazione dei soggetti abilitati ad effettuare lavori di restauro fosse da risolvere sulla sola base della sua inerenza all'ambito funzionale della "tutela dei beni culturali" e, come tale, dovesse collocarsi in capo allo Stato, autorizzato ad adottare provvedimenti di natura anche regolamentare stante la potestà legislativa esclusiva del quale è titolare in materia.

Il criterio "contenutistico", accolto dalla Corte in quella occasione [9], indusse il giudice costituzionale a ritenere che nulla rilevassero le "altre" competenze regionali, in materia di formazione professionale e/o di professioni, le quali non potevano ritenersi violate in quanto neppure venivano coinvolte.

Una conclusione, ma ancor prima un'argomentazione che, nel caso allora portato al suo esame, poteva giustificarsi anche in ragione della natura e dell'oggetto di quello che era proposto come un conflitto di attribuzione, il quale, tra l'altro, portava la Corte a confrontarsi con la priorità che rivestiva (e, tuttora, riveste) la questione dell'ambito stesso da riconoscere alla funzione di "tutela" e della conseguente collocazione delle attività di restauro.

Restavano, dunque, senza risposta, in quanto espunti dal percorso interpretativo del giudice costituzionale, gli interrogativi in merito al ruolo da riconoscere alle regioni in materia di formazione professionale nel settore della tutela dei beni culturali. Quegli stessi interrogativi che condussero il legislatore a misurarsi, successivamente, con la questione, quando, in occasione della redazione del Codice, accolse soluzioni che ampliarono il novero dei soggetti legittimati o chiamati ad intervenire, a vario titolo, nella definizione dei percorsi e dei processi formativi necessari all'acquisizione della qualifica di restauratore [10].

Queste domande si ripropongono, pertanto, e con forza ancora maggiore, quando ci si misuri con la qualificazione delle figure professionali destinate ad operare nell'ambito della "valorizzazione".

Il suo essere configurata come "funzione-attività", oggetto di una competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni e, quanto all'esercizio delle competenze amministrative, affidata, in via preferenziale, ai metodi ed ai principi della "cooperazione" la rende, d'altro canto, inidonea a fornire il criterio risolutivo o assorbente di ogni altra questione che sia ad essa riconducibile.

3. Le prospettive

Per verificare "se" ed "in quale modo" sia possibile intervenire, sembra, pertanto, opportuno "ordinare" i presupposti degli standard in relazione alle competenze istituzionali, legislative, amministrative ed organizzative coinvolte, ai soggetti che ne vengono investiti, alle procedure che risultano necessarie, così da illuminare i possibili scenari che si aprono, tanto quelli immediatamente disponibili, allo stesso percorso autorizzato dall'art. 114 del Codice, quanto quelli che, ad esso, non sono disponibili, in quanto richiedono altre sedi ed altri atti.

A questo scopo, e per semplificare la rappresentazione delle prospettive e dei percorsi che si aprono, è possibile individuare tre diversi macro-profili o macro-livelli [11].

Procedendo, per così dire, "dal basso", il primo macro-livello è quello riconducibile alla formazione professionale, a "valenza prevalentemente operativa", funzionale alla immissione nel mondo del lavoro, oltre che idonea al conseguimento di una qualifica [12], cui si affianca, ormai, quanto a competenze coinvolte, e dopo la riforma del Titolo V, l'istruzione professionale, idonea anche al conseguimento di un titolo di studio [13]. E' questo il livello che interessa la "base" degli operatori di settore, spesso trascurata, quanto ad attenzioni che le sono dedicate, ma non perciò meno essenziale al funzionamento-gestione delle strutture museali e, in genere, dei luoghi ed istituti di cultura.

Il secondo corrisponde all'istruzione superiore, sia essa istruzione universitaria, caratterizzata dal conseguimento di un titolo di studio, provvisto di valore legale, o formazione tecnica superiore, volta all'acquisizione di un certificato di specializzazione.

Il terzo è quello correlato al riconoscimento legislativo delle professioni museali.

Sono tre livelli in relazione, talvolta necessaria, talvolta solo potenziale, fra loro. E' indubbio, ad esempio, che il terzo, di per sé "aggiuntivo", presuppone almeno uno dei due precedenti livelli, ognuno dei quali gode, peraltro, di una sostanziale autosufficienza.

3.1. Il riconoscimento delle professioni

Benché questo, che qui si definisce, "terzo livello" sia quello che più garantisce, astrattamente, la qualificazione del personale, è indubbio, quando si intendano verificare le prospettive possibili, specie sotto il profilo della loro disponibilità al percorso aperto dall'art. 114 del Codice, che è anche il livello che deve essere espunto da ogni scenario di breve periodo.

Il riconoscimento legislativo delle professioni e, dunque, anche di quelle museali o comunque rivolte al settore dei beni culturali rinvia, infatti, a scelte e a provvedimenti che richiedono l'intervento del legislatore statale.

Come riconosciuto dalla Corte costituzionale, con diverse pronunce, a partire dalla sent. 27 novembre-22 dicembre 2003, n. 353, benché la materia "professioni" sia oggetto, per l'art. 117, comma 3, di una competenza legislativa concorrente di Stato e regioni, alla legge dello Stato resta riservata "l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti didattici" [14].

Alla legge dello Stato è riservata anche la definizione delle modalità di accesso alle professioni, mentre appartiene alla competenza regionale disciplinare per i restanti aspetti, e nei limiti dei principi fondamentali in materia, le diverse professioni, tanto quelle per le quali sia prevista l'iscrizione in un Collegio o ordine quanto quelle per le quali essa non sia prevista. regioni che sono competenti anche a definire, in via quantomeno integrativa, gli standard dei percorsi formativi necessari [15].

3.2. La formazione-istruzione professionale

La questione si pone, invece, in termini differenti nonché maggiormente articolati per il primo dei macro-livelli indicati: quello corrispondente alla formazione professionale, di natura operativa, che, accanto all'istruzione professionale, è oggi assegnata, dall'art. 117, commi 3 e 4, Cost., alla competenza legislativa esclusiva o residuale delle regioni.

Un'attribuzione che, peraltro, non esclude l'intervento del legislatore statale. Come riconosciuto dalla Corte costituzionale, da ultimo anche con la sentenza 13-28 gennaio 2005, n. 51, "la riserva alla competenza legislativa regionale della materia 'formazione professionale' non può escludere la competenza dello Stato" a disciplinare i profili inerenti a materie di sua competenza, sempre prevedendo "strumenti idonei a garantire una leale cooperazione con le regioni" [16].

In effetti, i profili che possono ritenersi attratti nella competenza dello Stato sono numerosi, come numerosi sono i titoli che legittimano lo Stato ad intervenire e che, perciò, autorizzano ad immaginare anche la possibile fissazione di standard formativi omogenei, a livello nazionale.

Da un lato, vi è la competenza esclusiva del legislatore statale a fissare le "norme generali sull'istruzione" (art. 117, comma 2, lett. n)), e vi sono i profili civilistici della materia "lavoro" che, già fonte della competenza esclusiva dello Stato al riconoscimento delle professioni, risponde anche alla necessità di garantire una qualche uniformità, nel territorio nazionale, così da evitare che le regioni pongano condizioni che non trovino riscontro nelle scelte che, in materia di accesso alle professioni spettano allo Stato [17].

Dall'altro, e soprattutto, vi è la competenza esclusiva del legislatore statale a fissare i "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" (art. 117 Cost., comma 2, lett. m)). Una competenza che, anche per riconoscimento del giudice costituzionale, non soltanto autorizza ma richiede la definizione, da parte dello Stato in collaborazione con le autonomie territoriali, di standard comuni nei processi formativi [18].

Titolo costituzionale che già consentirebbe allo Stato di procedere, direttamente, ossia in via amministrativa, alla loro fissazione, ma che, nel caso in esame, trova una propria traduzione legislativa nello stesso art. 114 del Codice, quale disposizione considerata, essa stessa, secondo molte letture che ne sono state date, espressione della legittimazione del legislatore statale a fissare i livelli essenziali delle prestazioni di cui all'art. 117 Cost. [19].

Pertanto, almeno per ciò che concerne il macro-livello della "formazione e istruzione professionale" si delinea una soluzione che appare immediatamente disponibile anche al decreto attuativo dell'art. 114 Codice, il quale ben potrebbe fissare standard nazionali, previamente concordati con la Conferenza unificata.

Misure e, perciò, interventi che non sarebbero comunque "nuovi" né espressivi di una "nuova" possibilità. La fissazione concertata di standard formativi minimi tra Stato e autonomie, per il tramite della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, riflette, infatti, una prassi da tempo invalsa e, come tale, richiamata anche dall'art. 29, comma 10, del Codice dei beni culturali, con riguardo alla formazione di figure professionali che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione [20].

Nulla peraltro esclude la possibilità di coinvolgere, nella definizione degli standard formativi di questo primo livello, anche le Università, espressamente menzionate dall'art. 114, comma primo, tra i soggetti che possono concorrere con il Mibac, con le regioni e gli altri enti pubblici territoriali alla fissazione dei livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione.

Le Università, infatti, sono già da tempo, ed in particolare in forza dell'art. 6, comma 2, della legge 19 novembre 1990, n. 341, sulla "Riforma degli ordinamenti didattici", autorizzate ad operare nel campo della formazione e dell'aggiornamento professionale che, di conseguenza, è stato interessato dalla necessità di favorire la cooperazione e la concertazione anche tra regioni e Atenei.

In sostanza, per quanto concerne il livello della formazione e dell'istruzione professionale sembra possibile procedere, anche in via amministrativa, alla fissazione concertata di standard nazionali, salva solo la necessità di perseguire la strada già indicata nel d.m. 20 maggio 2001, ossia procedere "in accordo con i contratti nazionali e locali di settore".

E', tuttavia, indubbio che gli standard nazionali, se fissati in base al titolo conferito dall'art. 114 Codice, e con riferimento a figure professionali prive di un riconoscimento legislativo, avranno la forza di imporsi solo ai soggetti parti dell'accordo e, comunque, potranno applicarsi solo alle attività di valorizzazione e gestione dei beni culturali di appartenenza pubblica, in conformità a quello che, peraltro, è l'ambito della disposizioni codicistica.

Entro questi limiti, pertanto, si applicheranno anche ai soggetti, eventualmente privati, che avranno la gestione delle attività di valorizzazione dei medesimi beni "di appartenenza pubblica", come impone il comma 3 dell'art. 114 del Codice.

Quanto ai beni culturali di proprietà privata, invece, e segnatamente ai musei privati, potranno estendersi ad essi solo sulla base di convenzioni stipulate dai privati con le parti pubbliche, nel quadro di azioni pubbliche di sostegno, anche finanziario o, comunque, nel contesto di processi di accreditamento.

Allo stesso modo, gli standard potranno e dovranno essere garantiti dalle Agenzie formative pubbliche, mentre le strutture private, operanti nel settore della formazione, aperto al loro intervento, in base ai principi posti dalla legge 845/1978, per il cui art. 2, comma 4, "l'esercizio dell'attività di formazione professionale è libera", saranno chiamati ad assicurarli se ed in quanto intendano accedere all'accreditamento pubblico, funzionale al loro eventuale finanziamento e non già all'ammissibilità delle loro attività [21].

Diversa, nel senso di superiore, sarebbe la forza degli standard qualora diventassero espressioni di quel sistema nazionale di certificazione delle competenze, più volte sollecitato anche dalle sedi comunitarie, a partire dal consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000, ma ancora in via di definizione. Uno scenario che richiederebbe, però, il coinvolgimento di altri soggetti, non solo le parti sociali, ma lo stesso ministero del Lavoro.

Al ministero del Lavoro si deve, infatti, anche il d.m. 31 maggio 2001, n. 174, "Certificazione nel sistema della formazione professionale", che, pur ribadendo la competenza delle regioni a fissare le norme sulla certificazione delle competenze, ha posto alcuni principi generali. Ha così chiarito che per "competenza certificabile" deve intendersi "un insieme strutturato di conoscenze e abilità, di norma riferibili a specifiche figure professionali, acquisibili attraverso percorsi di formazione professionale, e/o esperienze lavorative, e/o autoformazione, valutabili anche come crediti formativi", le quali richiedono la definizione di "standard minimi di competenza" ad opera di una pluralità di soggetti, fra i quali, e previo confronto con le parti sociali, il ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, il ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica, il ministero della Pubblica Istruzione e le regioni [22].

Necessità e percorsi che sono stati riaffermati anche all'interno del Tavolo unico per la creazione di un sistema nazionale di certificazione, avviato nel 2006, su iniziativa del ministero del Lavoro, ministero della Pubblica Istruzione, ministero dell'Università, regioni e Parti sociali. In questa sede sono state individuate diverse priorità, quali: fissare un quadro nazionale di standard professionali, definiti con la partecipazione delle istituzioni nazionali, regionali e con un forte coinvolgimento della parti sociali; definire un sistema omogeneo e integrato di certificazione delle competenze nonché standard formativi minimi che definiscano le condizioni e le metodologie per l'apprendimento; sviluppare un modello nazionale di accreditamento delle Agenzie formative.

Come si legge, infatti, nel Quadro strategico nazionale (QSN) per la politica regionale di sviluppo 2007-2013, "l'accreditamento delle strutture formative deve evolvere in direzione di una maggiore attenzione ad indicatori sulla qualità del servizio fornito con un modello rispondente a standard minimi comuni a livello nazionale e che eviti la frammentazione dell'offerta in sistemi solo regionali".

Modelli e progetti, dunque, ancora in corso di definizione, ma che si fondano su una stretta collaborazione istituzionale tra Stato e regioni, con queste ultime chiamate, pur sempre, a definire i percorsi formativi quanto a contenuti e metodologie didattiche nonché titolari della stessa funzione di certificazione delle competenze, da esercitare nell'ambito della propria autonomia normativa e regolamentare.

3.3. L'istruzione superiore

Venendo a quell'altro presupposto degli standard nazionali per la formazione e la qualificazione del personale, coincidente con ciò che, nell'ambito di questa analisi, si è indicato come il secondo macro-livello, corrispondente all'istruzione superiore, lo scenario si complica.

A questi effetti, entrano, direttamente, in scena altri soggetti e altre sedi decisionali che non consentono di affidare a provvedimenti espressione del solo ministero di settore, per i Beni e le Attività culturali, sia pure adottati sulla base di una previa intesa con la Conferenza Unificata, la definizione di standard formativi nazionali.

L'istruzione superiore che, in base anche alle indicazioni europee, si distingue in tre cicli o settori: dell'istruzione universitaria, dell'alta formazione artistica e musicale e della formazione tecnica superiore (ifts) rinvia, infatti, a percorsi che presuppongono altre competenze e che investono altre amministrazioni ed altre autonomie.

Per quanto concerne l'istruzione universitaria, se nulla impedisce di fare riferimento alle classi di laurea già esistenti, siano esse triennali o magistrali, a seconda della figura professionale, è altrettanto vero che è questo un piano sul quale si esprime l'autonomia didattica degli Atenei.

Una condizione di autonomia, costituzionalmente garantita, che impedisce di immaginarle vincolate o vincolabili a standard formativi diversi da quelli che si estrinsecano nelle indicazioni fornite dai decreti con i quali il ministero dell'Università e della Ricerca, esplica la propria azione di coordinamento-indirizzo e, in questi limiti, di conformazione delle classi di laurea e dei rispettivi ordinamenti didattici.

Certo, sarà pur sempre possibile immaginare che singole Facoltà possano giungere, nel quadro di accordi stipulati con singole regioni, e dunque al di fuori di standard nazionali, a definire percorsi di studio condivisi. Una possibilità che ancor più ricorre con riguardo ai Master Universitari di I o di II livello, privi di vincoli contenutistici o curriculari, anche minimi, ma, come si sa, privi anche di un riconoscimento quanto ad accessi professionali garantiti dai titoli di studio, da essi rilasciati, che possa dirsi omogeneo, a livello nazionale.

Con riguardo, poi, alla formazione tecnica superiore, che conduce all'acquisizione di certificati di specializzazione, senza considerare gli Istituti di Alta formazione artistica e musicale nonché lasciando qui sullo sfondo i corsi di formazione professionale finanziati dalle regioni o dal Fondo Sociale Europeo, le prospettive che si aprono passano, soprattutto, per il tramite di Agenzie formative dedicate le quali, peraltro, necessitano di un'istituzione in via legislativa, sul modello di quanto è stato previsto dall'art. 29 del Codice, in materia di restauro o di quanto già da tempo è previsto per gli istituti centrali del restauro.

Percorsi ai quali, come espressamente prevede lo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio, non è estraneo il ministero dell'Università e della Ricerca, così come non possono ritenersi estranee, ancora una volta, le parti sociali.

Una prospettiva da tempo auspicata, da parte degli operatori del settore, anche sulla scorta delle esperienze di altri paesi, qual è quella dell'Institut National du patrimoine di Parigi, oggetto anche di passate proposte di legge, ma che, appunto, richiede soggetti e sedi diverse da quelle che possono essere coinvolte in forza dell'art. 114 del Codice.

Le possibilità di intervenire, anche nell'immediato, con la fissazione di standard nazionali, in materia di qualificazione del personale, dunque, non mancano e consentono, quantomeno, di dare avvio ad un percorso il cui compimento richiede, però, altre misure, altri interventi, altri soggetti e investe altre politiche e altre scelte non solo di settore, ma di contesto.

 

Note

[*] Relazione tenuta al convegno "Standard nazionali di qualità per le professioni nei musei", Padova, 18 febbraio 2008 e destinata a pubblicazione negli Atti dello stesso.

[1] Al marzo 2008, risultano attivati presso gli 82 Atenei italiani (escluse dal computo le Università telematiche) ben 85 master che recano nella loro intitolazione il richiamo alle possibilità occupazionali offerte dal settore dei beni culturali.

[2] In effetti, questa impressione sembra confermata da alcuni dati recentemente diffusi. Secondo quanto risulta dal Libro Bianco sulla valorizzazione della cultura tra Stato e mercato, presentato, nel febbraio 2008, da Confcultura, nel decennio 1991-2001, mentre gli addetti nelle istituzioni pubbliche sono aumentati del 9,4%, gli addetti alle istituzioni culturali sono cresciuti del 51,5%. Ciò, sebbene, da un altro Rapporto, dell'associazione Civita, risulti che pochi dei laureati nelle discipline dei beni culturali riescono a trovare occupazione nel settore: quanto al comporto pubblico la previsione di loro impiego è di 5 laureati su 100, percentuale destinata a crescere al 16 con riguardo all'intero settore, anche privato. Per questi dati, cfr. L. Davi (a cura di), Professioni create ad arte, "Il Sole 24 ore", 23 aprile 2008, p. 26.

[3] Per una rappresentazione dei contenuti propri delle attività di valorizzazione, s. cfr., soprattutto, gli artt. 6, 7, 111, 112 e 115 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 e succ. modifiche.

[4] Per un commento di questo Atto di indirizzo, si rinvia a G. Sciullo, Musei e codecisione delle regole, in Aedon 2/2001.

[5] In particolare, la Conferenza dei Presidenti delle regioni e province autonome, nel corso della seduta del 28 febbraio 2002, si è soffermata sulla "riforma dei processi formativi, rilevando criticamente la proliferazione di corsi di laurea, scuole professionali e master che, mentre segnala un positivo interesse per il settore, rischia di preparare persone non adeguate ai compiti da svolgere, con conseguenti difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro". Di conseguenza, ha sollecitato "una intesa per la definizione dei profili degli operatori del settore, la predisposizione di adeguati curricula formativi nonché la definizione di requisiti che le Agenzie formative devono possedere per il rilascio dei titoli legali".

[6] E' opportuno ricordare che presso diverse regioni, come la Lombardia, il Veneto, l'Emilia-Romagna, il Piemonte, la Toscana, le Marche, il Lazio e la Sardegna è richiesta la presenza, presso le strutture museali, di personale qualificato, elevandolo a condizione per l'accreditamento dei musei e per la certificazione della loro qualità. Un sistema che, peraltro, proprio a causa dell'assenza di indicazioni o di standard omogenei nazionali o, comunque, condivisi tra le regioni, conosce elevate differenziazioni.

[7] Della questione si è, in particolare, occupata la Sottocommissione 3, "Funzioni, competenze, percorsi formativi e modalità di accreditamento degli addetti".

[8] Sulla possibilità di immaginare miglioramenti e integrazione dei "livelli minimi" di qualità, fissati dallo Stato, cfr. G. Piperata, Commento all'art. 114, in M. Cammelli (a cura di), con il coordinamento di C. Barbati e G. Sciullo, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 452.

[9] Per tale qualificazione dell'approccio seguito dal giudice costituzionale, nella sentenza n. 9/2004, cfr. C. Tubertini, I limiti della potestà legislativa regionale in materia di formazione professionale nella tutela dei beni culturali, in Aedon 2/2004, alla quale si rinvia anche per un'analisi critica di questa pronuncia.

[10] Il riferimento è, qui, soprattutto alle previsioni contenute nell'art. 29 del "Codice dei beni culturali e del paesaggio".

[11] Va da sé che questi, che si sono definiti nel testo macro-profili, conoscono ulteriori articolazioni interne, nelle quali si riflette la già rilevata complessità dei sistemi di formazione e qualificazione professionale. Per una rappresentazione più estesa dei diversi cicli formativi, si rinvia all'analisi di L. Zanetti, Autonomie territoriali e beni culturali dopo il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Parte quarta. Formazione professionale, in Aedon 2/2006.

[12] E' questa l'area della "formazione professionale", individuata anche dall'art. 141 del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, e sostanzialmente coincidente con la "istruzione artigiana e professionale" di cui al precedente art. 117, comma 1, Cost. Per l'analisi di questa disposizione cfr. G. Sciullo, Commento all'art. 141, in G. Falcon (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 474 s.

[13] Sui rapporti e sulle differenze che intercorrono tra "formazione professionale" e "istruzione professionale", cfr. G. D'Auria, Istruzione e formazione professionale, in Astrid on line. 2002.

[14] La giurisprudenza costituzionale, sul punto, come si diceva, è particolarmente estesa. Oltre alla sentenza ricordata nel testo, possono ricordarsi le sentt. 319 del 2005; 355 del 2005, 424 del 2005. Per un primo esame della questione, cfr. G. Della Cananea, L'ordinamento delle professioni dopo la riforma costituzionale, in Giornale diritto amministrativo, n. 1/2003, pp. 92 ss.

[15] Nel senso indicato, cfr. Corte cost. sent. 24 ottobre-3 novembre 2005, n. 405, pt. 2 cons. diritto. Inoltre, ed in attesa che si giunga ad approvare la disciplina legislativa delle professioni intellettuali, può valere, sul punto, anche il riferimento a quanto prescrive già il d.lg. 2 febbraio 2006, n. 30, "Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell'articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131". Dopo essersi enunciato, nell'art. 1, comma 3, che "La potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale", nell'art. 4, in materia di "accesso alle professioni", si precisa che "la legge statale definisce i requisiti tecnico-professionali e i titoli professionali necessari per l'esercizio delle attività professionali che richiedono una specifica preparazione a garanzia di interessi pubblici generali la cui tutela compete allo Stato" (comma 2) e che "I titoli professionali rilasciati dalla regione nel rispetto dei livelli minimi uniformi di preparazione stabiliti dalle leggi statali consentono l'esercizio dell'attività professionale anche fuori dei limiti territoriali regionali" (comma 3).

[16] In questo senso, pt. 4.1. cons. diritto, sent. n. 51/2005.

[17] Sul punto, cfr. A. Poggi, L'autonomia universitaria tra la ristrutturazione dell'amministrazione ministeriale e le competenze normative delle regioni: qualche considerazione e qualche perplessità, in Quaderni regionali, 2002, pp. 715 ss.

[18] Ciò, anche senza voler qui richiamare quell'ulteriore sottodistinzione che, pure, può presentarsi rilevante, tra corsi di formazione finalizzati all'assunzione e che, secondo la Corte costituzionale, rientrano nella materia "ordinamento civile" e, come tali, sono di competenza dello Stato, ed i corsi o tirocini non finalizzati all'assunzione che, invece, rientrerebbero nella competenza esclusiva delle regioni (sent. 50 del 2005, su cui cfr. L. Zanetti, cit., Aedon 2/2006).

[19] Sul punto, cfr. C. Tubertini, Autonomie territoriali e beni culturali dopo il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Parte seconda. La definizione dei livelli di qualità della valorizzazione, in Aedon 2/2006 e G. Piperata, Commento all'art. 114 cit., p. 453.

[20] Si legge, infatti, nel comma 10, art. 29 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, che "La formazione delle figure professionali che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione è assicurata da soggetti pubblici e privati ai sensi della normativa regionale. I relativi corsi si adeguano a criteri e livelli di qualità definiti con accordo in sede di Conferenza Stato-regioni, ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281". Quanto alle precedenti esperienze di "accordi" tra i diversi livelli di governo, si rinvia anche qui a L. Zanetti, cit., Aedon 2/2006.

[21] In questo senso, cfr. art. 142, comma 1, lett. d), del d.lg. 112/1998, dove si riserva allo Stato la funzione di fissare i requisiti minimi per tale accreditamento.

[22] Cfr. artt. 2 e 3 del d.m. n. 174/2001. Per una compiuta rappresentazione delle misure funzionali al sistema di certificazione delle competenze, si rinvia all'ampia documentazione offerta dal ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, oltre dall'Istituto per lo Sviluppo della Formazione dei Lavoratori (Isfol).

 

 



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