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La elaborazione del "diritto dei beni culturali" nella giurisprudenza costituzionale

Parte quarta - L'influenza esercitata dalla giurisprudenza costituzionale
sul legislatore successivo

di Guido Clemente di San Luca

Sommario: 1. L'influenza esercitata dalla giurisprudenza costituzionale sul legislatore successivo con riferimento alla disciplina del regime giuridico. - 2. L'influenza esercitata dalla giurisprudenza costituzionale sul legislatore successivo con riferimento alla disciplina della titolarità delle competenze legislative ed amministrative.

Le affermazioni della Corte hanno certamente influenzato l'opera del legislatore successivo, sia sotto il profilo della disciplina del regime giuridico dei beni culturali, che sotto quello della definizione delle competenze nella materia de qua spettanti, rispettivamente, allo Stato, alle regioni e agli enti locali.

1. L'influenza esercitata dalla giurisprudenza costituzionale sul legislatore successivo con riferimento alla disciplina del regime giuridico

Con riferimento alla disciplina del regime giuridico sembra potersi sostenere che la giurisprudenza costituzionale abbia avuto un ruolo determinante sull'opera del legislatore ordinario di puntualizzazione di alcune importanti nozioni giuridiche, a cominciare proprio da quella di bene culturale.

A questo riguardo, ad esempio, non può non riconoscersi l'influenza esercitata sul legislatore del Codice dei beni culturali e del paesaggio dalla sentenza 118/1990 [1] e, segnatamente, dalla affermazione resa dal giudice delle leggi in ordine alla necessità che la culturalità si oggettivizzi sempre in un supporto fisico, materiale, ovvero - a voler usare l'espressione ricorrente in una consolidata tradizione legislativa - in una 'cosa'. Invero, il tratto della materialità, quale carattere 'estrinseco' che il bene deve obbligatoriamente possedere per poter essere attratto nella sfera di quelli considerabili meritevoli di protezione, appare addirittura 'rafforzato' nell'impianto della nuova legge di tutela, come sembra testimoniare la disposizione dell'art. 2, comma 2, la quale, per come è formulata, si riferisce inequivocabilmente a «testimonianze» che devono presentare il requisito della materialità [2].

Altrettanto deve dirsi con riferimento alla sentenza 94/2003, avente ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale della l.r. Lazio 31/2001, recante «Tutela e valorizzazione dei locali storici» [3], nella quale la Corte - nell'affermare espressamente che la legge censurata non intende affatto prefigurare «una nuova categoria di beni culturali», essendo essa preordinata a stabilire, a soli fini di valorizzazione, un particolare regime per «beni d'altro genere» - di fatto riconosce la persistente vitalità dei criteri tradizionali di identificazione dei beni culturali 'in senso stretto', criteri tutti integralmente confermati dal d.lg. 42/2004.

Analogamente, può dirsi che la nozione di tutela dettata dal nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 3, comma 1) e la precisazione, assolutamente nuova rispetto al T.U. del 1999, che l'esercizio delle funzioni ad essa riconducibili «si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale» (art. 3, comma 2) 'risentano' della affermazione resa dalla Corte (proprio nella sentenza da ultimo richiamata), in ordine alla non riconducibilità all'ambito della tutela delle attività (tra le quali il giudice delle leggi annovera, evidentemente, anche quelle previste dalla l.r. Lazio 31/2001) che non sono dirette a conformare il diritto di proprietà.

Con riguardo, invece, alla nozione giuridica di valorizzazione, appare degna di segnalazione, quanto a capacità di stimolo per il legislatore, la sentenza 9/2004 [4] - emessa, peraltro, a conclusione di un giudizio che si svolge pressoché in contemporanea alla stesura dello "schema del Codice" -, nella quale la Consulta, nel ragionare sull'ambito materiale cui ricondurre l'attività di restauro e la formazione dei restauratori, si sofferma sulla questione, nient'affatto marginale, di cosa debba intendersi per valorizzazione, provando anche a tracciare una linea di discrimine tra le finalità proprie di essa e quelle tipicamente ascrivibili alla tutela.

L'interpretazione della Corte - a giudizio della quale la valorizzazione «è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale», e, perciò, alla «diffusione della conoscenza» ed al «miglioramento delle condizioni di conservazione negli spazi espositivi» - è stata integralmente recepita dal legislatore del Codice. La disposizione dell'art. 6. comma 1, nel quale è contenuta la nuova (rispetto a quella adottata dal d.lg. 112/1998 [5]) nozione giuridica di valorizzazione, già nel suo tenore letterale evoca le affermazioni del giudice delle leggi. Ma, ciò che più conta, al pari di quella, non opera alcun riferimento a scopi di conservazione, così formalizzando in maniera definitiva la funzionalizzazione della valorizzazione al godimento [6].

Anche con riguardo alla gestione, tema cruciale quasi quanto la valorizzazione, va segnalato il ruolo determinante svolto dalla più recente giurisprudenza costituzionale in ordine alla chiarificazione del significato da assegnare alla attività in parola. Come si è riferito in precedenza, nelle sentenze 9 e 26 del 2004 [7], la Corte - collocandosi in sintonia con quanto sostenuto da gran parte della dottrina [8] - ha esplicitamente dichiarato che la gestione «può essere riferita a profili sia di "tutela", sia di "valorizzazione" secondo la specifica finalità che, di volta in volta, si trovi a perseguire» [9], così finendo con il riconoscere la strumentalità delle attività ad essa riconducibili alla realizzazione degli obiettivi fissati dalla legge.

L'accoglimento di un siffatto orientamento da parte dell'estensore del Codice dei beni culturali e del paesaggio appare evidente già dalla rubrica dell'art. 115, recante «Forme di gestione», espressione quest'ultima la quale non può non significare che, nella prospettiva del legislatore del 2004, la gestione costituisce, non già un compito autonomo, dotato, come la tutela e la valorizzazione, di una sua specifica teleologia, bensì una funzione servente (il termine funzione, naturalmente, non è inteso in senso tecnico-giuridico) lo svolgimento di tutti e ciascuno dei tre diversi compiti (conservazione, fruizione e valorizzazione) in cui si sostanzia l'azione amministrativa in materia di beni culturali [10].

Un ulteriore contributo alla chiarificazione della disciplina del regime giuridico dei beni culturali, recepito dal legislatore, si rintraccia nella sentenza 277/1993 [11], nella quale la Corte - al fine di decidere in ordine alla titolarità dei poteri autorizzatori in tema di manutenzione e restauro delle 'cose d'arte' raccolte nei musei di ente locale o di interesse locale - si sofferma a ragionare sulle caratteristiche 'proprie' delle due attività, concludendo per una loro sostanziale diversità quanto a contenuti e finalità. Nell'opinione del giudice delle leggi - lo si è già riferito - il restauro è un intervento conservativo destinato, per sua natura, ad incidere sulla consistenza fisica e la sostanza materiale del bene, e, proprio perciò, va tenuto distinto dalla manutenzione, quest'ultima consistendo nel «mantenimento delle condizioni, per lo più esterne, di conservazione della cosa», ovvero «nella ordinaria conservazione dello stato esistente».

Siffatta tesi interpretativa è stata integralmente accolta dal T.U. del 1999, il quale all'art. 34 ha dettato una nozione giuridica di restauro che appare in perfetta sintonia con le conclusioni della Consulta [12], così risolvendo alcune lacune della previgente disciplina [13].

Tale ultima nozione, peraltro, è stata ripresa in maniera pressoché fedele dall'art. 29 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (segnatamente dal comma 4) [14], il quale ha anche provveduto - attingendo verosimilmente ad alcune suggestioni interpretative offerte dalla Consulta nella sentenza 9/2004 [15], ove si ribadiscono la specificità dell'attività di restauro e la sua non assimilabilità alla manutenzione e, più in generale, alla salvaguardia - a meglio tipizzare gli interventi conservativi, operando, a tale scopo, una distinzione tra «prevenzione», «manutenzione» e «restauro», e codificando, per ciascuna attività, una puntuale definizione.

Infine, va registrata l'influenza esercitata dalla sentenza 185/2003 [16] sulla disciplina della tutela degli «studi d'artista» dettata all'art. 51 del Codice. Nella pronuncia - come si ricorderà - la Corte, esibendo argomentazioni che appaiono pienamente condivisibili, aveva dichiarato la illegittimità costituzionale, perché irragionevolmente lesiva del diritto di proprietà, della disposizione dell'art. 52 del T.U. del 1999, la quale escludeva dall'applicazione dei provvedimenti di sfratto, per sopraggiunta scadenza del contratto di locazione, i beni in questione. Il legislatore del Codice, nel recepire integralmente il dictum della sentenza, ha fatto salvi i soli divieti di inamovibilità e modifica della destinazione d'uso degli «studi d'artista» (art. 51, comma 1), così dimostrando di considerarli - alla stregua della Corte - misure sufficienti ed idonee ad assicurarne la tutela.

2. L'influenza esercitata dalla giurisprudenza costituzionale sul legislatore successivo con riferimento alla disciplina della titolarità delle competenze legislative ed amministrative

Anche per quel che attiene alla definizione degli ambiti materiali di intervento spettanti ai diversi livelli territoriali di governo, sembra potersi dire che il 'lavoro' svolto dalla Corte costituzionale abbia influito in maniera più che sensibile sul legislatore successivo.

In particolare, ove si guardi alle pronunce antecedenti la riforma costituzionale, e segnatamente a quelle aventi ad oggetto giudizi su conflitti di attribuzione, non può non riconoscersi l'influenza che alcune affermazioni della Consulta hanno esercitato, rispettivamente, dapprima sul legislatore delegante della legge 59/1997, poi su quello delegato del d.lg. 112/1998, ed infine sul legislatore costituzionale del 2001.

La costanza con cui la Corte si è espressa in ordine alla necessità di mantenere in capo allo Stato «i poteri inerenti alla protezione del patrimonio storico-artistico» [17] - almeno fino a quando non fosse intervenuta la legge alla quale il d.p.r. 616/1977 rinviava la determinazione delle competenze in materia di tutela da conferire alle regioni - ha verosimilmente 'ispirato' la scelta del legislatore del 1997 di escludere dal conferimento alle autonomie territoriali proprio le funzioni ed i compiti riconducibili alla materia della «tutela dei beni culturali e del patrimonio storico-artistico» (art. 1, comma 3, lett. d, legge 59/1997).

Analogamente, si rinviene una certa qual continuità tra le conclusioni cui la Corte è giunta all'esito della ricognizione delle funzioni in tema di «musei e biblioteche di ente o di interesse locale» da ritenersi effettivamente trasferite alle regioni ed il modello di riparto delle competenze amministrative in materia di beni culturali in appartenenza statale disegnato dal Capo V del d.lg. 112/1998 (costruito - come è noto - sulla tricotomia delle attività esercitabili sui beni); come pure tra la puntualizzazione dei contenuti concreti delle funzioni trasferite da essa operata e le nozioni di tutela, gestione e valorizzazione assunte dal decreto in parola.

Invero, non pare revocabile in dubbio che l'orientamento della giurisprudenza costituzionale sul punto - si pensi, tra l'altro, all'affermazione resa dal giudice delle leggi sulla insussistenza di «una onnicomprensiva attribuzione alle regioni delle funzioni amministrative relative ai beni culturali di interesse locale», cui consegue la precisazione che «la competenza alla manutenzione ed alla conservazione dell'integrità delle cose raccolte e custodite nei musei di interesse locale [è] in funzione della loro gestione e del loro godimento» [18]; ovvero all'esplicito riconoscimento che «le funzioni relative alla materia "musei e biblioteche di enti locali" trasferita alla regione (...) concernono i compiti attinenti alla gestione dei musei» [19]; o ancora, alla specificazione che i compiti di valorizzazione di spettanza regionale devono «esplicarsi (...) secondo programmi concordati con lo Stato» [20] - abbia 'orientato' in maniera significativa la stesura del Capo V del decreto 112/1998, i cui disposti normativi, talvolta, richiamano addirittura testualmente alcune espressioni della Corte.

Parimenti, sembra oggettivamente difficile dubitare della 'ricaduta' dell'orientamento appena riferito tanto sull'assetto della potestà legislativa in materia di beni culturali disposto dal novellato art. 117 Cost. (comma 2 e 3), che riproduce, semplificandolo, lo schema assunto dal decreto 112/1998; quanto su quello della potestà amministrativa in senso stretto nella (sub-) materia della tutela prefigurato dal comma 3 del nuovo art. 118 Cost., il quale, per come è formulato, lascerebbe intendere - ed autorevole conferma a siffatta interpretazione viene proprio da una recente pronuncia della Corte [21] - che, in questa materia, già in Costituzione, la competenza amministrativa sia stata 'sottratta' alla applicazione del principio della sussidiarietà, e perciò debba considerarsi - in deroga al principio generale di cui al comma 1 dell'art. 118 Cost. - non in capo ai comuni (né alle province).

Quanto, invece, agli 'effetti' (più o meno diretti) che la giurisprudenza della Corte successiva alla novella costituzionale ha prodotto sulla disciplina della titolarità delle competenze (legislativa e regolamentare) disposta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, e sulla sua integrazione ad opera del d.lg. 156/2006, meritano di essere segnalate due sentenze.

La prima è la sentenza 9/2004 [22], nella quale il giudice delle leggi, nel sostenere la riconducibilità del restauro e della formazione dei restauratori all'ambito materiale della tutela, conclude per la sussistenza della potestà regolamentare statale in materia. La pronuncia ha avuto effetti evidenti sulla riformulazione, ad opera del decreto correttivo 156/2006, dell'originario art. 29 del Codice, e segnatamente su quei disposti normativi concernenti l'individuazione dei percorsi formativi che consentono l'acquisizione della qualifica di 'restauratore' e le procedure per la definizione dei criteri e dei livelli di qualità cui deve adeguarsi l'insegnamento del restauro (commi 8, 9 e 9-bis).

La seconda è la sentenza 26/2004 [23], nella quale la Consulta conclude per l'applicabilità del criterio della disponibilità (a qualunque titolo) del bene culturale - criterio a suo tempo individuato dal d.lg. 112/1998 per il riparto della competenza amministrativa in materia di valorizzazione - anche ai fini della allocazione della potestà legislativa e regolamentare. L'orientamento della Corte - si rammenti, tra l'altro, che la pronuncia è pressoché coeva alla emanazione del c.d. 'Codice Urbani' - può ben dirsi essere stato assunto nella sua interezza dal legislatore del 2004 in sede di definizione dell'ambito di esercizio del potere legislativo regionale nella materia de qua, ambito circoscritto - a norma dell'art. 112, comma 2 - proprio ai «beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente» [24].

Infine, con riguardo alla titolarità delle competenze in ordine alla gestione, va rilevata l'influenza esercitata dalla sentenza 272/2004 [25], e, segnatamente, dalla affermazione della Corte secondo la quale è da escludersi che la legge statale possa disciplinare in dettaglio la gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica.

Pur non occupandosi ex professo - lo si è già segnalato [26] - di quella particolare species di servizi pubblici locali privi di rilevanza economica rappresentata dai servizi connessi alla valorizzazione dei beni culturali in appartenenza pubblica, è fuor di dubbio che le conclusioni cui la Corte è approdata abbiano in qualche modo 'condizionato' il legislatore che ha atteso alle modifiche del Codice dei beni culturali e del paesaggio, modifiche introdotte ad opera del d.lg. 156/2006, il quale ha provveduto a riscrivere, tra gli altri, ed in maniera pressoché integrale, proprio l'art. 115.

A tal proposito, in questa sede, si può soltanto sottolineare che, complessivamente considerato, lo sforzo compiuto dal legislatore del 2006 sembra corrispondere, ancorché parzialmente, alla esigenza - già attentamente segnalata dalla dottrina - di procedere ad una puntuale ricognizione dei contenuti normativi dell'art. 115, sì da pervenire ad una «esatta perimetrazione delle norme-principio» [27].

Note

[1] Si v., retro, il par. 1, lett. a) della Parte seconda.

[2] L'art. 2, comma 2, così recita: «Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà» (corsivi di chi scrive). Così disponendo, peraltro, il legislatore del 2004 -come abbiamo altrove sottolineato - abbandona la prospettiva assunta da quello del T.U, il quale - come è noto - «aveva dettato a chiusura delle norme dedicate alla definizione del bene culturale, una disposizione che lasciava intravedere la possibilità che anche beni non materiali potessero essere attratti nella sfera di quelli culturali. Ci si riferisce all'art. 4, che così recitava: "Beni non compresi nelle categorie elencate agli articoli 2 e 3 sono individuati dalla legge come beni culturali in quanto testimonianza avente valore di civiltà". E' giudizio pressoché unanime della dottrina che, nel dettare la norma, il legislatore avesse inteso riferirsi (anche) ai beni c.d. 'immateriali', o ' volatili', e cioè a beni non consistenti in cose» (così G. Clemente di San Luca, R. Savoia, op. cit., p. 213).

[3] Si v., retro, par. 1, lett. a) della Parte terza.

[4] Si v., retro, il par. 1, lett. b) e d) della Parte terza.

[5] Sulla dubbia operatività della nozione giuridica di valorizzazione adottata dal legislatore del 1998 e sul suo sovrapporsi con quelle di tutela e gestione, sia consentito rinviare a G. Clemente di San Luca, R. Savoia, Manuale di diritto dei beni culturali cit., pp. 159-170.

[6] Così recita l'art. 6, comma 1, del Codice: «La valorizzazione consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere la promozione della cultura. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale».

[7] Si v., retro, il par. 1, lett. d), della Parte terza.

[8] Invero, «all'indomani della emanazione del d.lg. 112/1998, non poche erano state le voci di dissenso circa la ragionevolezza della scelta operata dal legislatore delegato di riconoscere alla gestione lo statuto di un compito autonomo, al pari della tutela e della valorizzazione (...). Le perplessità muovevano, in via prevalente, dalla considerazione che, a norma dell'art. 150, nell'ambito della gestione venivano ricompresse, fra l'altro, insieme, attività concernenti sia "la fruizione pubblica dei beni", sia "la manutenzione, la sicurezza, l'integrità dei beni"»: così G. Clemente di San Luca, R. Savoia, Manuale di diritto dei beni culturali cit., p. 322.

[9] Così la Corte nella sent. 26/2004 cit.

[10] Né sembra corretto concludere diversamente anche laddove si propenda per una ricostruzione che muova dalla considerazione che la norma in commento è l'unica disposizione del Codice dei beni culturali e del paesaggio ad occuparsi ex professo della "gestione" (così fra gli altri, da ultimo, A. Poggi, La Corte torna sui beni culturali (Brevi osservazioni in margine alla sentenza n. 26/04), in www.giustizia-amministrativa.it). Anzi, che essa sia collocata in quella parte della legge recante i «Principi della valorizzazione dei beni culturali» - lungi dall'indurre a ritenere (erroneamente) che il legislatore abbia inteso affermarne l'asservimento in via prevalente alla valorizzazione - offre, a giudizio di chi scrive, un ulteriore argomento a sostegno della idea che la "gestione" sia stata riguardata come un insieme di funzioni/attività 'trasversali'. Ed invero, il fatto che la legge si sia, a dir così, 'preoccupata' di dettare alcune norme-principio esclusivamente in ordine alle modalità di esercizio (gestione diretta/concessione a terzi) delle attività di valorizzazione dei beni culturali in appartenenza pubblica, sembra trovare la sua spiegazione (oltre che nel dettato costituzionale) nella considerazione che, con tutta evidenza, l'unica 'quota' di attività gestionali ritenuta dal legislatore 'esternalizzabile' è soltanto quella concernente la valorizzazione, non potendosi altrimenti interpretare l'assenza di norme di egual tenore in tema di "gestione" a fini di conservazione e di fruizione.

[11] Si v., retro, i parr. 1, lett. b), e 2, lett. b), della Parte seconda.

[12] Così recita l'art. 34 del T.U.: «Ai fini del presente Capo, per restauro si intende l'intervento diretto sulla cosa volto a mantenerne l'integrità materiale e ad assicurarne la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali. Nel caso di beni immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente il restauro comprende l'intervento di miglioramento strutturale».

[13] Ed invero - come è noto - la legge 1089/1939 non conteneva alcuna disposizione espressamente dedicata al restauro, limitandosi a fissare il divieto di procedervi senza l'autorizzazione ministeriale e sostanzialmente uniformandone la disciplina a quella prevista per gli altri interventi conservativi. La circostanza aveva determinato più di una difficoltà nell'applicazione della disciplina concernente la concessione dei contributi pubblici per la esecuzione di opere di conservazione, quest'ultima disponendo che i proprietari potevano accedervi soltanto se i lavori previsti erano qualificabili come lavori di restauro.

[14] Così recita l'art. 29, comma 4, del Codice: «Per restauro si intende l'intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all'integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali. Nel caso di beni immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente, il restauro comprende l'intervento di miglioramento strutturale».

[15] Si v., retro, il par. 1, lett. b), della Parte terza.

[16] Si v., retro, il par. 1, lett. b), della Parte terza.

[17] Si v., retro, il par. 2, lett. b), della Parte seconda e spec. le sentt. 70/1995, 339/1994, 277/1993, 278/1991 e 921/1988.

[18] Così la Corte nella sent. 277/1993 cit., retro, al par. 2, lett. b), della Parte seconda.

[19] Così la Corte nella sent. 64/1987 cit., retro, al par. 2, lett. d), della Parte seconda.

[20] Così la Corte nella sent. 921/1988 cit., retro, al par. 2, lett. d), della Parte seconda.

[21] Si v., retro, sent. 9/2004, al par. 2, lett. b) della Parte terza.

[22] Si v., retro, il par. 2, lett. b), della Parte terza.

[23] Si v., retro, il par. 2, lett. d), della Parte terza.

[24] Sul punto, cfr. M.L. Torsello, Profili generali del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in www.giustizia-amministrativa.it, il quale, nel ripercorrere le perplessità sorte in dottrina per effetto dell'art. 117, comma 6, Cost., stando ad una interpretazione letterale del quale allo Stato sarebbe preclusa la possibilità di disciplinare la valorizzazione dei beni culturali di cui detiene la titolarità, con la conseguenza che sarebbe di competenza della legge regionale disciplinare la gestione e la valorizzazione dei beni culturali dello Stato, conclude che ciò porta con sé l'effetto «inaccettabile, di assoggettare l'apparato ministeriale alle regole poste dalle diverse leggi regionali applicabili ratione loci»; nonché A. Poggi, La Corte torna sui beni culturali cit., ad avviso della quale, «sebbene con qualche necessaria precisazione, vi è ugualmente continuità (tra nuovo codice e d.lg. 112/1998) nella scelta di incardinare nella "titolarità" del bene il criterio di ripartizione delle competenze su una serie di attività "di confine", quali, appunto la gestione».

[25] Si v., retro, il par. 2, lett. d), della Parte terza.

[26] Si v., retro, il par. 2, lett. d), della Parte terza.

[27] Così G. Sciullo, Gestione dei servizi culturali e governo locale dopo la pronuncia 272 del 2004 della Corte Costituzionale cit., pp. 3-4, a giudizio del quale devono valutarsi «come principi soltanto i disposti normativi dell'art. 115 che si colleghino ai caratteri e alle esigenze propri dei beni culturali, si potrebbe dire, che considerino i servizi pubblici culturali regionali e locali non tanto o comunque non solo come servizi pubblici, ma piuttosto come servizi culturali, servizi pubblici segnati dalla specificità dei beni cui essi fanno riferimento». Nell'opinione dell'A., alla stregua di siffatto criterio, alcune previsioni dell'originario art. 115, e segnatamente «quelle che indicano i tipi e i presupposti di utilizzo di singole figure gestorie, sembrano sfornite del carattere 'di principio' perché non risultano connesse a elementi specifici dei beni culturali».



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