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Lo spettacolo: il difficile percorso delle riforme
(dalla Costituzione del 1948 al "nuovo" Titolo V e "ritorno")

di Carla Barbati


Sommario: 1. Premessa. - 2. A "chi" le competenze in materia di spettacolo?. - a) Il sorgere dell'interrogativo e le risposte annunciate nel vigore della Costituzione del 1948. - b) Le risposte del federalismo amministrativo. - c) Il nuovo Titolo V: l'interrogativo si riapre. - d) Le risposte del centro: dal d.l. 24/2003 allo schema di d.d.l. per l'introduzione di ulteriori modifiche al vigente Titolo V. - 3. L'altro interrogativo: e la sussidiarietà orizzontale?



1. Premessa

Lo spettacolo si è progressivamente affermato come uno dei terreni privilegiati su cui si sono misurati (e continuano a misurarsi) gli effetti, le difficoltà e le incertezze della vasta azione di riforma che, a partire dal 1990, ha interessato il sistema amministrativo e, da ultimo, specie a seguito della legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, anche il sistema costituzionale.

Sopra ogni altra, è proprio la revisione del Titolo V ad avere introdotto, di recente, i maggiori interrogativi circa la "sorte" di questo settore tanto che, anche agli effetti della riforma costituzionale, lo spettacolo si è da subito confermato tra gli ambiti in relazione ai quali si sono manifestate, in termini particolarmente eloquenti, e si sono andate testando le difficoltà connesse alla sua attuazione.

Non a caso, è con riguardo ad esso che le modifiche costituzionali hanno determinato l'adozione di provvedimenti con i quali si è intervenuti sui potenziali effetti della riforma, sino ad incidere su quella ridefinizione qualitativa e quantitativa degli ambiti assegnati alla competenza dello Stato che, nel disegno della legge cost. 3/2001, accompagna, divenendone presupposto, il rafforzamento delle autonomie.

Nell'intento dichiarato di superare le difficoltà connesse all'attuazione del "nuovo" Titolo V, si è così dato avvio ad un processo che possiede molti tratti di ciò che appare come un "ritorno al passato".

 

2. A "chi" le competenze in materia di spettacolo?

a) Il sorgere dell'interrogativo e le risposte annunciate nel vigore della Costituzione del 1948. La definizione degli assetti delle competenze in materia non è questione nuova: essa ha accompagnato le vicende dello spettacolo sin da quando si diede avvio, negli anni Settanta, all'ordinamento regionale.

Il principale quesito che, allora, impegnava gli interpreti e le sedi istituzionali concerneva lo stesso "se", e non soltanto il "quanto", della legittimazione regionale (-e locale) ad intervenire nel settore. All'origine di queste incertezze vi era il silenzio serbato dalla Costituzione del 1948, la quale non aveva menzionato lo spettacolo - né ambiti ad esso omogenei - nel novero delle materie assegnate alla competenza legislativa concorrente delle regioni.

L'assenza di ogni indicazione in proposito venne pertanto, e da molte parti, assunta come motivo per ritenere che al legislatore regionale mancasse il titolo costituzionale per agire. Conclusione alla quale si opponevano considerazioni di più ampia portata, correlate a quanto enunciato nei principi fondamentali della Costituzione.

Il riconoscimento delle autonomie locali, operato nell'art. 5, ed insieme la previsione dell'art. 9, in base al quale alla Repubblica, da intendersi come Stato - ordinamento in tutte le sue articolazioni territoriali, spetta la "promozione della cultura", procurarono le "altre" ragioni "forti" per opporsi ad una concezione della cultura e di ciò che ne costituisce espressione, come lo spettacolo, quale ambito riservato allo Stato centrale.

In occasione del "secondo decentramento", disposto con il d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, dopo i primi trasferimenti di funzioni amministrative operati con i decreti delegati del 1972, si scelse di aprire alla possibilità di interventi regionali, sia pure nella forma di un generico rinvio, previsto nell'art. 49 del decreto, al ruolo che le autonomie territoriali avrebbero potuto esercitare anche in materia di attività teatrali di prosa, musicali e cinematografiche, una volta approvata la legge di riforma dei relativi settori.

In sede legislativa statale, peraltro, nulla avvenne, mentre si assistette all'approvazione di Statuti regionali e all'adozione di numerose iniziative, in ambito locale, per la promozione e per lo sviluppo delle attività culturali. Una situazione che restò immodificata sino a quando, nel 1993, si dispose l'abrogazione, per via referendaria, della legge istitutiva del ministero per il Turismo, lo sport e lo spettacolo, promossa da alcune regioni che giudicavano la presenza dell'apparato ministeriale di ostacolo all'effettivo decentramento di competenze e di funzioni.

A seguito della soppressione del ministero, vennero adottati una serie di provvedimenti d'urgenza per il riordino della disciplina pubblicistica dello spettacolo, successivamente reiterati sino alla conversione che del d.l. 29 marzo 1995, n. 97 venne data con la l. 30 maggio 1995, n. 203.

L'art. 2 di questa legge sceglieva di demandare a successivi decreti legislativi - da emanare entro un anno dalla sua entrata in vigore - il trasferimento delle competenze e delle funzioni alle regioni, fissando come principi e criteri direttivi quello che riservava allo Stato "le competenze relative a soggetti, attività, obiettivi e funzioni di interesse nazionale" e quello dell'attribuzione "alle province, ai comuni e agli altri enti locali territoriali delle funzioni di carattere esclusivamente locale", per rinviare il definitivo riassetto delle competenze all'adozione di leggi-quadro riguardanti il cinema, la musica, la danza, il teatro di prosa e gli spettacoli viaggianti.

In tal modo, lo spettacolo veniva indirettamente, ma anche inequivocabilmente, attratto nell'ambito della potestà legislativa concorrente delle regioni.

Adeguandosi ai principi che qualificavano questo tipo di competenza, la l. n. 203 del 1995 assumeva come criterio delimitativo - e perciò anche conformativo - del ruolo regionale l'"interesse nazionale", recependo così gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale che di questo, trasformato da limite di merito in limite di legittimità, aveva fatto l'elemento portante e fondante di ogni riassetto delle competenze tra Stato e regioni, sia agli effetti della potestà legislativa che di quella amministrativa.

E dell'"interesse nazionale" la legge in questione fornì anche gli indicatori che sarebbero serviti ad identificarne la presenza, stabilendo che dovessero essere riconosciuti come "soggetti di prioritario interesse nazionale gli enti, associazioni o istituzioni pubbliche o private che svolgano attività di rilevanza nazionale per dimensione, anche finanziaria, tradizione e bacino di utenza, nonché quelli che costituiscono anche di fatto il circuito di distribuzione di manifestazioni nazionali e internazionali", per poi introdurre la "previsione di una verifica triennale ed eventuale modifica" di questo riconoscimento.

Per quanto riguardava l'attribuzione delle risorse finanziarie, l'art. 2 della legge stabilì che alla loro ripartizione si sarebbe giunti "sulla base di una intesa fra il governo e la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome", con conseguente, graduale trasferimento di quelle di competenza regionale a favore delle regioni che avessero provveduto "a regolamentare l'esercizio delle funzioni loro assegnate" e ad individuare "idonee risorse finanziarie". In sostanza, le risorse sarebbero andate non solo là dove si collocano le competenze, ma anche là dove queste competenze vengono esercitate [1].

Il disegno, in sé, ripeteva dunque i modelli e le soluzioni tipiche del "regionalismo". La novità era rappresentata dalla sua estensione ad una materia che, sino ad allora, e nonostante le indicazioni fornite in occasione del secondo decentramento, disposto con il d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, non aveva conosciuto un espresso riconoscimento del ruolo spettante alle autonomie territoriali.

Questa novità solo relativa del disegno di riforma non favorì, comunque, la sua attuazione. La delega contenuta nella legge del 1995 non venne esercitata. Di conseguenza, non si adottarono i decreti legislativi per il riparto delle attribuzioni, mentre si assistette alla presentazione di diverse proposte per le leggi-quadro, peraltro anch'esse mai approvate.

 

b) Le risposte del "federalismo amministrativo". E' su questa situazione che si inseriscono le riforme previste dalla l. 15 marzo 1997, n. 59 con la quale si sono poste le linee di quello che è stato definito il "terzo decentramento", ovvero il "federalismo amministrativo" a Costituzione invariata.

Per effetto del ribaltamento nei criteri di riparto delle funzioni amministrative, introdotto dalla l. 59, lo Stato diventa titolare di competenze "speciali" che si esercitano solo in relazione alle materie ad esso riservate ed elencate nell'art. 1, comma 3 della legge. Al di fuori di tali ambiti, vige il principio del conferimento di tutti i compiti e delle funzioni alle regioni ed agli enti locali.

Il carattere residuale e generale delle competenze spettanti alle autonomie spiega perciò come non si sia giudicata necessaria un'elencazione di ciò che veniva decentrato, bensì e soltanto di ciò che doveva intendersi escluso dal decentramento.

Per quanto riguarda lo spettacolo, la l. 59/1997, nel suo art. 1, comma 4, alla lett.c), scelse di riservare al centro statale i "compiti di rilievo nazionale" per gli "indirizzi, le funzioni e i programmi", delegando il governo ad individuarli sulla base di un'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano.

L'indicazione era tale da indurre a concludere che tutte le altre funzioni e gli altri compiti si sarebbero dovuti conferire alle autonomie e, proprio per limitare o comunque controllare questi effetti, l'art. 156 del d.lg 112/1998, introdotto nell'ultima fase di approvazione del decreto, elenca quali siano, in materia di spettacolo, i "compiti di rilievo nazionale" riservati allo Stato.

Una disposizione, questa dell'art. 156, volta dunque ed essenzialmente a salvaguardare un ruolo dello Stato suscettibile di essere altrimenti compromesso dall'applicazione dei principi che presiedono ai conferimenti, ma scarsamente idonea a delineare quale dovesse essere la misura dell'intervento riservato al centro e di quello spettante alle autonomie [2].

 

c) Il nuovo Titolo V: l'interrogativo si riapre. A seguito della revisione che del Titolo V, parte seconda, della Costituzione ha operato la legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, la potestà legislativa viene ripartita tra Stato e regioni secondo criteri nuovi, in cui si riflettono le medesime scelte già operate per il livello delle funzioni amministrative dalle leggi Bassanini del 1997-1998.

In base all'art. 117 Cost., nella sua nuova formulazione, lo Stato diventa titolare di una potestà legislativa che può definirsi "speciale", in quanto lo legittima a disciplinare, in via esclusiva, con proprie leggi, solo le materie (ed i rapporti) elencati nel comma 2.

Per il resto, la potestà legislativa è delle regioni che si trovano perciò a disporre di quella competenza, tecnicamente qualificabile come generale, in precedenza spettante allo Stato. L'intervento consentito alla legge regionale è peraltro di diversa estensione, a seconda delle materie che ne sono oggetto.

Per alcune di esse, elencate nel comma 3, la regione è titolare di una potestà legislativa di tipo solo concorrente, a fronte della quale è riservata allo Stato la fissazione, con proprie leggi, dei principi fondamentali della disciplina.

Per le altre materie, innominate, escluse da questo elenco, alla regione spetta una potestà legislativa che, non essendo soggetta a limiti propri, può considerarsi esclusiva o, secondo la dizione preferita dagli interpreti, residuale.

Il "ribaltamento" nei criteri di attribuzione delle competenze comporta dunque che sia la potestà legislativa dello Stato ad essere circoscritta, tanto che anche le materie operano ormai come limite nei confronti dello Stato e non più del legislatore regionale. Di conseguenza, quando non intervengano indicazioni sulla "sorte", ovvero sulla collocazione di determinate materie, per esse si deve desumerne l'appartenenza alla competenza legislativa regionale residuale.

Se questo è il contesto, si comprendono gli interrogativi generati dalla circostanza che lo spettacolo non venga incluso né fra le materie riservate allo Stato, né fra quelle assegnate alla competenza legislativa concorrente.

Anzi, a questo proposito, si può dire che lo spettacolo si sia trovato ad offrire una propria "occasione" per appalesare ancora una volta le difficoltà generate da ogni pretesa legislativa di affidare la definizione di assetti complessi alla tecnica delle "elencazioni" che, di per sé, apre vertenze interpretative in merito al significato da assegnare ai termini che compongono un elenco del quale si presume la natura tassativa.

Attenendosi al solo elemento testuale, l'omessa menzione dello spettacolo può infatti acquisire significati differenti a seconda dei confini che si assegnino alle materie enumerate, in quanto è da ciò che possono trarsi elementi per comprendere "che cosa", non rientrandovi, appartenga all'ambito delle competenze legislative regionali residuali.

Non a caso, agli effetti della collocazione da dare allo spettacolo, nel dibattito che si è aperto all'indomani della riforma, è apparsa decisiva l'identificazione dei contenuti da assegnare alla materia che esprime la più elevata omogeneità rispetto ad esso: quella delle "attività culturali", soggetta alla competenza legislativa concorrente delle regioni.

La questione, in sostanza, si è tradotta nel chiedersi se lo spettacolo possa o meno, anche ai sensi delle norme costituzionali sulla competenza, essere considerato espressione delle attività culturali o se, invece, possieda un'identità giuridico normativa propria, atta a farne qualche cosa di diverso.

Affidandosi a questi argomenti, tuttavia, qualsiasi soluzione parrebbe accettabile, trattandosi di stabilire, convenzionalmente, quale significato attribuire all'una o all'altra nozione.

E' vero che il legislatore ordinario, in precedenti occasioni, ha mostrato di voler riconoscere allo spettacolo uno statuto differenziato, quasi a ravvisarvi un complesso di istituti giuridici non assimilabili alle attività culturali, come ben dimostrano le scelte del d.lg. 112/1998 e prima ancora della l. 59 del 1997 che, per esso, dettarono disposizioni apposite e diversificate.

Un argomento che, però, non impedisce (e non ha impedito) di ritenere che, agli effetti delle disposizioni costituzionali sul riparto delle competenze, queste indicazioni del legislatore ordinario non abbiano la forza di negare l'attribuzione di un significato più ampio al riferimento alle "attività culturali".

E su questo piano si potrebbe continuare a lungo. In realtà, la questione di fondo con la quale ci si dovrebbe (o, come suggerisce di dire lo "stato attuale delle cose", ci si sarebbe dovuti) confrontare è quella del quanto sul serio - per riprendere una fortunata espressione utilizzata dalla dottrina ben prima che si approdasse all'odierno riassetto delle competenze tra i livelli di governo [3] - si intenda prendere la revisione costituzionale del Titolo V ed i principi ai quali essa si ispira.

Se questa è la prospettiva nella quale ci si pone, è allora evidente che ciò di cui si dovrebbe discutere è il quantum della competenza statale, non della competenza regionale.

Il principio sotteso dai nuovi criteri di riparto della potestà legislativa - quello che autorizza, sia pure in via convenzionale, a rintracciare nell'ordinamento elementi di "federalismo" - è lo spostamento della competenza legislativa generale in capo alle autonomie territoriali costituzionalmente legittimate ad esercitarla - le regioni, appunto - e non già quello di una semplice ridefinizione, sia pure nel senso dell'ampliamento, dei confini delle loro competenze.

Pertanto, ritenere che lo "spettacolo", nelle sue diverse forme, possa collocarsi nell'ambito delle "attività culturali" (e a maggior ragione questo vale per l'ipotesi, pure indagata in sede teorica, ma di ancor più incerto fondamento anche lessicale-concettuale, in cui lo si volesse far rientrare nell'ambito dei beni culturali) significa accogliere un'interpretazione estensiva di quest'ultima materia che si risolve in una interpretazione estensiva delle competenze statali.

Se, invece, gli ambiti dello Stato sono o comunque si devono intendere come "speciali", qualsiasi questione investa il quantum sia ad esso mantenuto dovrebbe essere risolta secondo criteri restrittivi, in cui si riflettano ratio e disegno della riforma, sino a collocare lo spettacolo nel novero delle competenze residuali delle regioni.

Un esito, quest'ultimo, senza dubbio "forte" per una materia che ha tardato ad essere compresa fra quelle oggetto di una potestà legislativa anche solo concorrente delle regioni.

E proprio il "peso" di questo esito, reso ancora più significativo dalla circostanza che lo spostamento delle competenze in capo alle regioni sia destinato ad incidere anche sulla gestione dei finanziamenti, tradizionalmente accentrata e leva effettiva di ogni politica in materia di spettacolo, spiega perché si siano cercate soluzioni interpretative differenti.

La questione, peraltro, sarebbe rimasta sul piano delle differenti e contrapposte letture che hanno sin qui accompagnato anche l'identificazione di "altre" materie innominate, se le indicazioni costituzionali non avessero prodotto un ulteriore effetto capace di incidere, in via immediata, sulla sorte dello spettacolo o quantomeno di alcune sue espressioni.

I nuovi criteri di riparto della potestà legislativa fra Stato e regioni si traducono, infatti, in un differente riparto anche della potestà regolamentare. In base a quanto dispone l'art. 117, comma 6, il centro statale non è legittimato ad adottare propri regolamenti nei settori assegnati alla competenza legislativa concorrente e/o esclusiva delle regioni.

 

d) Le "risposte" del centro: dal d.l. 24/2003 allo schema di d.d.l. per l'introduzione di ulteriori modifiche al vigente Titolo V. La necessità di superare questa situazione, per effetto della quale il governo si sarebbe trovato privo della legittimazione ad adottare i regolamenti necessari all'erogazione dei contributi in favore delle attività di spettacolo, ha condotto ad approvare il d.l. 18 febbraio 2003, n. 24, "Disposizioni urgenti in materia di contributi in favore delle attività di spettacolo", convertito, con modificazioni, nella l. 17 aprile 2003, n. 82

Al di là della sua ampia intitolazione, l'oggetto ed insieme la causa di questa misura d'urgenza è stata la necessità di procedere all'erogazione dei contributi Fus a favore delle attività teatrali.

Con il decreto legge del febbraio 2003, l'esecutivo by-passa il "blocco costituzionale" all'intervento regolamentare del centro, disponendo che "i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività di spettacolo, previsti dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per le spettacolo sono stabiliti annualmente con decreti del Ministro per i beni e le attività culturali non aventi natura regolamentare" e prevedendo contestualmente l'abrogazione del d.m. 4 novembre 1999, n. 470, con cui era stato approvato il regolamento per l'assegnazione dei contributi in favore delle attività teatrali di prosa.

Di per sé, e specie con riguardo al teatro di prosa, non vi è nulla di nuovo nel ricorso a strumenti di disciplina privi di natura regolamentare.

L'assenza di una legge che fissasse i principi ed i criteri dell'azione di promozione pubblica a favore delle attività teatrali di prosa ha fatto sì che, sino all'adozione del d.m. 470/1999, il sostegno ed il finanziamento pubblico nei loro confronti venisse disposto sulla base di mere leggi di spesa, ma soprattutto attraverso lo strumento delle circolari, annualmente adottate dal ministero e, a seguito della sua soppressione, dalla Presidenza del consiglio dei ministri.

Circolari che, elencando in modo dettagliato le condizioni, ossia i requisiti soggettivi e oggettivi necessari per poter accedere ai finanziamenti statali, hanno assolto anche ad una funzione regolatrice, con ciò assumendo quella valenza sostanzialmente normativa che avrebbe dovuto suggerire l'adozione di atti anche formalmente tali.

Solo nel 1999, con l'approvazione del decreto ministeriale 470, e sulla base di quanto disposto con l'art. 8, comma 1, del d.lg. 21 dicembre 1998, n. 492 si supera il sistema di finanziamento basato sulle circolari annuali e si estende anche alle attività teatrali di prosa il principio della triennalità dei finanziamenti, oltre ad affidare ad uno strumento di natura regolamentare la fissazione dei criteri e delle modalità per la loro erogazione [4].

L'abrogazione di questo provvedimento ha condotto, sulla base della legittimazione conferita dal d.l. 24/2003, all'adozione del d.m. 27 febbraio 2003 con il quale, in via dichiaratamente transitoria, si fissano i criteri e le modalità di erogazione dei contributi, ripetendo sostanzialmente l'identificazione che dei soggetti, potenziali destinatari dei finanziamenti, aveva effettuato il regolamento del 1999.

La transitorietà dell'intervento viene fatta dipendere dalla "attesa che la legge di definizione dei principi fondamentali di cui all'art. 117 della Costituzione fissi i criteri e gli ambiti di competenza dello Stato, delle regioni e delle autonomie locali in materia di spettacolo ed il conseguente trasferimento della quota del Fondo unico per lo spettacolo riservata alle attività teatrali di prosa" (art. 1, d.m. 27 febbraio 2003).

In questo modo, il governo non si limita a rimuovere l'impedimento "formale" al proprio intervento regolamentare, con una tecnica di aggiramento delle indicazioni costituzionali che di per sé merita di essere segnalato in ragione della sua capacità di ridurre gli ambiti che proprio la riforma intende riconoscere all'azione regionale, ma è andato oltre.

Rinviando ai principi fondamentali della disciplina che verranno posti dalla legge dello Stato, l'esecutivo dà per presupposta l'attrazione dello spettacolo nel novero delle competenze legislative concorrenti. In questo modo, propone la propria interpretazione dei riferimenti e dei silenzi contenuti nell'art. 117 Cost., peraltro già avvallata dal Consiglio di Stato nel parere n. 3608 del 20 dicembre 2002, con il quale la Sezione consultiva per gli atti normativi ha "bloccato" l'intervento regolamentare del governo, operando nell'occasione un atecnico riferimento al "comune sentire" che autorizzerebbe a collocare lo spettacolo nel novero delle attività culturali e, perciò, in quello delle competenze legislative concorrenti.

Una interpretazione che, peraltro, viene superata dallo schema di d.d.l. costituzionale per l'introduzione di "Nuove modifiche al Titolo V, parte seconda, della Costituzione" approvato nel Consiglio dei Ministri dell'11 aprile 2003.

L'intento dichiarato di ovviare alle difficoltà interpretative e perciò applicative generate dalla presenza di materie oggetto di una competenza legislativa concorrente dello Stato e delle regioni ha condotto l'esecutivo a proporre "nuovi" criteri di riparto delle competenze, per effetto dei quali Stato e regioni diventano titolari di potestà legislative "solo" esclusive.

Per quanto riguarda il settore dello spettacolo, allo Stato viene riconosciuta una potestà legislativa esclusiva per la "promozione e organizzazione di spettacoli e manifestazioni culturali (e sportive) di rilevanza nazionale"; alle regioni viene riconosciuta una potestà legislativa esclusiva in materia di "promozione e organizzazione di attività culturali e di spettacolo di rilevanza regionale e locale".

Peraltro, la potestà legislativa regionale deve essere esercitata, per questo come per gli altri settori, "nel rispetto dell'interesse nazionale", espressamente elevato a limite di legittimità, e non più solo di merito.

In sostanza, si reintroduce, e con una forza che appare maggiore rispetto a quella che gli era conferita dalla Costituzione del 1948, il criterio della "dimensione dell'interesse", assegnando ad esso la capacità di conformare gli ambiti della competenza regionale.

La potestà legislativa delle regioni viene infatti ad essere limitata sia "dall'alto", tramite il richiamo all'interesse nazionale - privo di quei tentativi di identificarne la presenza proposti dalla l. 203/1995 - sia "dal basso", come vuole il riferimento alla dimensione o rilevanza solo "regionale e locale" degli interventi ad essa assegnati.

Si è, dunque, in presenza di una competenza legislativa che, benché nominalmente qualificata come "esclusiva", è soggetta a limiti che riportano l'estensione dell'azione regionale agli ambiti ed alla dimensione posseduti nel vigore della Costituzione del 1948, quando non segnano addirittura un "arretramento" rispetto ad essi.

Se uno scostamento è ravvisabile, rispetto alle indicazioni del primo Costituente, questo sembra, infatti, nel senso di "limitare" ulteriormente le competenze regionali. Almeno per quanto concerne la cultura e tutto ciò che ne costituisce espressione, il richiamo alla rilevanza "solo regionale e locale" è suscettibile di ridurre il ruolo che l'art. 9 della Costituzione autorizza a riconoscere alle autonomie nel momento in cui eleva la "promozione della cultura", senza ulteriori distinzioni interne - tra l'altro di difficile praticabilità quando siano fondate sulla rilevanza nazionale o invece solo regionale delle sue espressioni - a finalità perseguibile da tutte le articolazioni territoriali della Repubblica.

La misura "eccessiva" dell'intervento definitorio degli assetti delle competenze attuato con il d.l. 24/2003 e, ancor più, di quello ridefinitorio proposto con il nuovo disegno di revisione costituzionale si appalesa, in termini ancora più evidenti, quando si considerino le caratteristiche di questo settore.

Lo spettacolo, infatti, non identifica un ambito omogeneo di interventi. Le attività tramite le quali trova espressione rispondono a logiche e ad esigenze diverse, innanzitutto, a seconda della forma propria ad ognuna di esse (se "dal vivo" o dallo "schermo"), ma soprattutto a seconda dei rapporti e degli istituti tramite i quali si svolgono.

Quando si guardi ai rapporti ed agli istituti attraverso i quali vengono poste in essere le attività dello spettacolo, si vede infatti come un'ampia fascia di essi sia comunque sottoposta alla potestà legislativa (e regolamentare) dello Stato, al punto che lo "spettacolo" non è di per sé estraneo ad interventi del centro, neppure in base alle indicazioni del vigente Titolo V.

L'intero ambito dei rapporti di diritto privato, attraverso i quali si snodano molte attività e si realizzano le condizioni della loro produzione, è assegnato alla competenza esclusiva della legge statale. Allo stesso modo, sono soggetti alla legislazione statale il regime dei tributi, dei rapporti di lavoro, cui si deve aggiungere la "tutela della concorrenza" - che specie per le attività cinematografiche trova molte ragioni per operare come clausola capace di legittimare azioni statali - ed inoltre la "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali", fra le quali ben può farsi rientrare la possibilità di usufruire di queste manifestazioni culturali.

Ciò che resterebbe "fuori" dalla disciplina statale, diventando oggetto di "altre" competenze è dunque, ed in via principale, l'azione di promozione pubblica dello spettacolo, "diretta" ed "indiretta", che non sarebbe peraltro impedita allo Stato, dal momento che l'art. 9 della Costituzione non consente di "negare" a qualsiasi articolazione territoriale della Repubblica la "promozione della cultura", ma che solo non sarebbe necessariamente assoggettata alle disposizioni delle leggi statali.

La scelta espressa con il disegno di legge costituzionale e, a questi effetti, parzialmente anticipata dal decreto legge del febbraio 2003, assume perciò un altro significato: quello di limitare la legittimazione delle regioni a "decidere" o a "co-decidere" in merito alla gestione ed erogazione dei finanziamenti, se non per la parte e con i vincoli corrispondenti ai trasferimenti delle quote Fus o, come vuole la proposta di revisione costituzionale, con riguardo a quelle sole manifestazioni che siano provviste di una rilevanza regionale o locale.

In sostanza, il centro statale, di fronte all'esigenza di assicurare condizioni adeguate alle diverse attività perché queste possano continuare ad essere esercitate, anche quando le autonomie territoriali ne diventino l'interlocutore, dà eco alle debolezze che possono derivare dalla frammentazione degli interventi e delle politiche, anziché definire passaggi istituzionali capaci di valorizzare le potenzialità connesse alla moltiplicazione e alla diversificazione dei centri decisionali ed a questo scopo ritiene di intervenire, ancora una volta, sulla carta costituzionale, trasformata in strumento tramite il quale sanzionare "scelte" che dovrebbero essere compiute e soprattutto condivise in altre sedi, anche e soltanto amministrative, anziché essere elevate a principi costituzionali.

 

3. L'altro interrogativo: e la sussidiarietà orizzontale?

Sullo sfondo delle vertenze interpretative e delle risposte offerte alla questione degli assetti delle competenze, le vicende dello spettacolo pongono in evidenza un altro interrogativo irrisolto: quello del "ruolo" da riconoscere alla parte pubblica.

Lo spettacolo rientra, infatti, nel novero di quei settori per i quali non è configurabile alcuna forma di riserva o di monopolio pubblico, né sono ravvisabili interessi che sollecitino l'esercizio di funzioni, in senso proprio. Anzi, l'intervento dei soggetti istituzionali risponde qui ad una logica di complementarità con l'intervento e con le azioni dei privati che si declina essenzialmente come una sussidiarietà sorretta da finalità essenzialmente perequative, in quanto destinata a quelle espressioni di spettacolo che non trovino nel mercato le condizioni necessarie e sufficienti alla loro affermazione.

Quando si dibatte degli assetti delle competenze in materia, occorre perciò tenere conto del fatto che le considerazioni circa questi aspetti non possono assorbire, né annullare altre valutazioni in ordine allo stesso "se" e, poi, in ordine al "quanto" e al "come" della presenza pubblica.

Si tratta di interrogativi che il "nuovo" Titolo V ripropone con forza ancora maggiore, a fronte del recepimento, nell'art. 118, comma 4, di un principio di sussidiarietà orizzontale che, pur formulato in termini che non rendono immediatamente evidente la sua riferibilità a questo settore, nondimeno è ad esso estensibile, tanto più in considerazione di quanto si ricordava in precedenza, circa la naturale appartenenza dello spettacolo al novero delle attività rispetto alle quali l'intervento pubblico possiede un carattere necessariamente complementare.

L'accoglimento del principio di "sussidiarietà orizzontale" implica la necessità di ripensare e ridefinire l'estensione, e poi le forme e gli strumenti dell'intervento pubblico, rispondendo così ad una esigenza che si è affermata, con particolare forza, già all'inizio degli anni Novanta e che ha interessato anche questo settore.

Peraltro, le iniziative sin qui assunte per restituire molti ambiti al "mercato" e al "privato" hanno conseguito esiti incerti e limitati. Gli interventi legislativi si sono misurati con le difficoltà proprie ad ogni esperienza di riduzione della presenza pubblica ed ancor più con le difficoltà del "mercato" al quale sono esposte le espressioni della cultura.

Anche le politiche di privatizzazione che, soprattutto a seguito delle indicazioni procurate con il d.l. 97/1995 [5], hanno investito le forme del cd. intervento diretto, quello operato tramite enti e soggetti costituiti come operatori del settore, si sono espresse soprattutto come privatizzazioni formali, proprio per le difficoltà ad attrarre un privato che possa sostituirsi al pubblico o che sia quantomeno capace di restituirgli una valenza solo sussidiaria [6].

Ritenere pertanto, come dimostrano di fare gli ultimi interventi di riforma, che la promozione del settore sia "questione di competenza statale", ma ancora di più l'attenzione con la quale si è inteso respingere ogni interpretazione di segno differente, significa non soltanto enfatizzare la questione del "pubblico", ma anche limitare la possibilità delle autonomie di farsi esse stesse promotrici nonché interlocutrici di nuovi rapporti con il "privato" e con gli stessi operatori del settore, tanto più nelle prospettive aperte dal d.d.l. costituzionale dell'aprile 2003, che limita l'intervento regionale alle sole espressioni dello spettacolo provviste di "rilevanza regionale e locale".

Non si tratta di questioni nuove, né tipiche di questo settore, come ben dimostrano i dibattiti e le riflessioni che sempre su tali questioni hanno interessato il vicino ambito dei "beni culturali", ma che con riferimento allo spettacolo dicono molto, forse "troppo" sulle linee che governano l'attenzione dell'esecutivo nei confronti di questo settore e della cultura, in tutte le sue espressioni.

 

 



Note

[1] Per una più estesa rappresentazione del dibattito e degli interventi che hanno contrassegnato queste azioni riformatrici, cfr. C. Barbati, Istituzioni e spettacolo. Pubblico e privato nelle prospettive di riforma, Padova, 1996.

[2] Sul punto, sia consentito rinviare a C. Barbati, Commento all'art. 156, in Lo stato autonomista (a cura di G. Falcon), Mulino, Bologna, 1998, pp. 515 ss.

[3] Così: L. Mariucci, R. Bin, M. Cammelli, A. Di Pietro; G. Falcon, Il federalismo preso sul serio. Una proposta di riforma per l'Italia, Bologna, Il Mulino, 1996.

[4] Occorre ricordare che, sempre nel 1999, si è assistito all'adozione di altri quatto regolamenti: il d.m. 10 giugno 1999, n. 239 sui criteri per la ripartizione della quota del Fus destinata alle fondazioni lirico-sinfoniche; il d.m. 2 novembre 1999, n. 531 sulla riforma del sistema di incentivazione alla produzione cinematografica; il d.m. 18 marzo 1999, n. 126 sulla estensione del Fondo di garanzia ai cortometraggi e il d.m. 457 sui criteri di assegnazione della nazionalità italiana ai prodotti audiovisivi.

[5] Si ricorda, qui, che l'art. 3, comma 1, del decreto demandava al governo il compito di procedere (tramite regolamenti da adottare di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, sentite le competenti commissioni parlamentari), al riordino degli "enti operanti nel settore ... prima sottoposti alla vigilanza del soppresso ministero del Turismo e dello Spettacolo", invitandolo a conformarsi al principio "dell'affidamento di specifiche funzioni a società o enti anche di natura privata, quando ciò sia conforme a criteri di economicità e funzionalità".

[6] Basti pensare alle difficoltà che ha incontrato il processo di privatizzazione degli Enti lirici e delle istituzioni concertistiche assimilate, organismi tramite i quali si è realizzata la principale forma di intervento pubblico "diretto" nel settore dello spettacolo e che hanno condotto l'esecutivo a disporre la "trasformazione ope legis" di questi enti in fondazione (d.lg. 23 aprile 1998, n. 134), prescindendo dall'ingresso dei privati, prima richiesto come condizione per la loro trasformazione dal d.lg. 29 giugno 1996, n. 367.



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