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Gli accordi di programma quadro in materia di beni e attività culturali

di Leonardo Zanetti


Sommario: 1. Concertazione, accordi amministrativi, programmazione negoziata. - 2. Le peculiarità della concertazione nel settore culturale. - 3. Le esperienze di programmazione negoziata in materia di beni e attività culturali. - 4. Oggetti e soggetti degli accordi. - 5. Annotazioni finali.



1. Concertazione, accordi amministrativi, programmazione negoziata

E' un dato ormai acquisito che l’attività degli apparati amministrativi risulti in larga parte improntata a logiche negoziali, per quanto riguarda sia i rapporti tra istituzioni diverse, sia i rapporti tra l’amministrazione e i privati.

Si può dire, per riassumere problematiche e tendenze che richiederebbero ben altri spazi, che l’azione amministrativa spesso si incardina non solo sul ruolo dell’ente pubblico titolare delle competenze formali, ma anche sul consenso degli altri soggetti interessati, siano essi enti pubblici operanti in settori affini, oppure realtà appartenenti alla società civile e al mercato (a partire dalle imprese e, sempre più spesso, dalle associazioni di categoria).

Questo fenomeno, pur presente già in precedenza, è stato oggetto di un esplicito riconoscimento normativo soprattutto a partire dal 1990, con l’introduzione di una serie di norme che da un lato prevedono il convenzionamento come modalità pressoché normale, se non propriamente generale, di esercizio del potere amministrativo, e d’altro lato ne definiscono in modo esplicito il regime giuridico, rendendo applicabili le disposizioni del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, seppur con il limite della possibilità di recesso/revoca dell’amministrazione per il caso di sopravvenute obiettive ragioni che comportino una rideterminazione dell’interesse pubblico concreto. Ciò si ricava soprattutto dalle fondamentali disposizioni dettate dagli artt. 11 e 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il primo in tema di accordi tra amministrazione e privato, il secondo in tema di accordi tra più enti pubblici.

In realtà, negli ultimi anni la situazione si è evoluta rispetto a quella risultante dalla legislazione di riforma del 1990. Le normazione successiva, infatti, ha dilatato l’ambito di applicazione del principio contrattuale, intaccando in modo significativo i limiti alla negoziazione del potere che ancora residua(va)no nell’ordinamento. I riferimenti normativi da operare sarebbero fin troppo numerosi, ma vanno ricordati almeno due istituti consensuali di recente introduzione, entrambi peraltro previsti nell’ambito delle manovre finanziarie di fine anno: gli "accordi di collaborazione" e la "programmazione negoziata".

La figura dell’accordo di collaborazione è disciplinata dall’art. 43, co. 1-2, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, la cui portata risulta assai ampia, giacché consente all’amministrazione di accordarsi con il privato per lo svolgimento di qualsivoglia attività di interesse pubblico.

Soprattutto, in questa sede, rileva l’insieme di ipotesi pattizie riunito sotto il nome di programmazione negoziata, la cui disciplina essenziale si rinviene nella legge 23 dicembre 1996, n. 662 (e in particolare nel suo art. 2, co. 203-214), oltre che in una serie di delibere del Cipe [1]. Si tratta, come accennato, di un istituto assai composito, che si articola nelle seguenti fattispecie [2]:

a) l’intesa istituzionale di programma: è un accordo avente ad oggetto la codeterminazione, da parte degli esecutivi statale e regionale, delle linee fondamentali dell’intervento pubblico nel territorio della singola regione, o almeno di alcuni obiettivi ritenuti particolarmente qualificanti;

b) l’accordo di programma quadro: ha per finalità quella di portare ad attuazione gli obiettivi indicati nell’intesa istituzionale; è aperto alla partecipazione sia dei contraenti dell’intesa stessa (governo nazionale e giunta regionale), sia di ulteriori soggetti pubblici e - si noti - privati. Peraltro l’accordo di programma quadro, pur essendo concepito come mezzo attuativo dell’intesa istituzionale, non ha necessariamente una valenza operativa, giacché i suoi contenuti possono essere specificati e realizzati tramite accordi di programma "semplici" o altri strumenti di intervento;

c) il patto territoriale: costruito per alcuni versi sul modello dell’accordo di programma quadro, se ne discosta soprattutto perché il collegamento con l’intesa istituzionale di programma è fortemente attenuato (sicché, in concreto, la stipula dei patti ha molto spesso preceduto la stipula delle intese), e per ruolo più spiccato dei privati, essendo obbligatoria la partecipazione tanto di singole aziende quanto delle associazioni imprenditoriali e sindacali;

d) il contratto d’area: si tratta di uno strumento affine al patto territoriale, di cui costituisce per così dire la versione "emergenziale", ossia preordinata a fronteggiare le situazioni di più grave disagio economico e sociale; è attivabile soltanto nelle aree depresse;

e) il contratto di programma: nel contesto della programmazione negoziata, questa figura presenta caratteri piuttosto peculiari, in quanto la concertazione è ristretta all’amministrazione centrale, da un lato, e a un’impresa di grandi dimensioni (o rappresentanza di distretto industriale), dall’altro; anch’esso è attivabile soltanto nelle aree depresse.

Già dal sommario e superficiale sguardo che si è appena compiuto, emergono alcuni caratteri essenziali della programmazione negoziata. In primo luogo, si tratta di un sistema teoricamente unitario, in cui l’intesa istituzionale di programma fornisce le linee pianificatorie fondamentali, gli accordi di programma quadro specificano tali scelte in relazione ai diversi settori, i patti territoriali valorizzano il ruolo degli attori del mercato e della società civile; un sistema, inoltre, che nelle aree depresse riconosce un ruolo peculiare alla "pianificazione per progetti", ossia alla definizione di iniziative specifiche e determinate, mediante i contratti d’area e i contratti di programma. In secondo luogo, questo complesso di strumenti è preordinato a "finalità di sviluppo" (come dispone riferendosi all’intera programmazione negoziata l’art. 2, co. 203, lett. a), della l. 662/1996), da intendersi innanzitutto quale sviluppo economico, ma di cui è possibile una lettura anche in termini di sviluppo sociale e civile (almeno per gli strumenti la cui disciplina non sia dichiaratamente finalizzata ad iniziative per la crescita imprenditoriale e occupazionale). In terzo luogo, e in parallelo a quanto appena rilevato, risulta fondamentale il ruolo del privato, la cui presenza è prevista per tutte le fattispecie concertative che si sono esaminate, con l’unica eccezione dell’intesa istituzionale di programma.

 

2. Le peculiarità della concertazione nel settore culturale

Se dal panorama generale dell’agire amministrativo si passa al contesto settoriale dell’intervento pubblico nella cultura, le esigenze di fondo e i riscontri normativi del ricorso a forme di convenzionamento vanno declinati con maggior precisione.

Qui ci si limiterà ad un breve richiamo di alcuni tra i principali spunti di riflessione, distinguendo ancora una volta - ma per soli fini di chiarezza espositiva - l’ambito degli accordi tra più enti pubblici, da un lato, e l’ambito degli accordi tra amministrazione e privato, dall’altro.

Per quanto riguarda la sfera dei rapporti tra soggetti istituzionali, nella materia in esame vi sono almeno due ragioni che comportano la valorizzazione degli strumenti pattizi. La prima ragione si rinviene già nell’art. 9 della Costituzione, che assegna i compiti di promozione e tutela della cultura alla Repubblica, ossia non solo allo Stato bensì anche agli altri enti pubblici, a partire da quelli a base territoriale, e dunque, come chiarito dalla giurisprudenza della Consulta, determina un concorso dei diversi organismi istituzionali, da svolgersi secondo il principio di leale collaborazione [3]. La seconda ragione deriva dalle scelte emerse in occasione dell’ultima tornata di decentramento amministrativo, dapprima con la legge 15 marzo 1997, n. 59 e quindi con il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.

Infatti le disposizioni in materia di beni e attività culturali recati da questo complesso normativo, se per un verso risultano ispirate ad una visione piuttosto centralistica dei rapporti tra le diverse entità del pubblico, testimoniata soprattutto dalla riserva allo Stato della funzione di tutela (peraltro intesa in termini assai ampi), per un altro verso introducono una serie di riferimenti all’esercizio concordato delle competenze, che sembrano sviluppare le indicazioni costituzionali appena ricordate [4].

Risultano previste forme di collaborazione tra lo Stato e le regioni nonché gli enti locali, infatti, soprattutto per le attività diverse dalla tutela (gestione, valorizzazione, promozione), ma pure per alcuni ambiti interni alla stessa tutela (conservazione). E ciò fino al punto di stabilire che talune competenze (la valorizzazione e la promozione) vengano esercitate "di norma" attraverso "forme di cooperazione strutturali e funzionali" tra i diversi livelli di governo, così come dispongono, con identica formulazione testuale, gli artt. 152 e 153 del d.lg. 112/1998.

Per la precisione, queste ultime norme rinviano alla specifica sede cooperativa costituita dalla commissione regionale per i Beni e le Attività culturali, disciplinata dai successivi artt. 154-155 del d.lg. 112/1998. Tuttavia tale rinvio pare esemplificativo, e non esaustivo, dovendosi cioè ritenere possibile che la collaborazione si svolga anche mediante strumenti ulteriori e diversi rispetto alla commissione regionale. In tal senso depone il dato letterale, in quanto le citate norme parlano genericamente di moduli collaborativi "strutturali e funzionali", e la commissione rappresenta soltanto una tra le possibili forme strutturate, rimanendo aperto il discorso dell’individuazione sia di altre forme strutturate, sia delle forme non strutturate (tema che qui specificamente interessa). Ad identiche conclusioni conduce il criterio dell’interpretazione utile, dal momento le commissioni regionali stanno tardando nella loro concreta attivazione, e comunque sono titolari di poteri dall’incerta consistenza giuridica [5], sicché se si facesse affidamento soltanto su di esse si finirebbe, probabilmente, con il privare di significato le enunciazioni normative sulla collaborazione tra i diversi livelli di governo, e con lo svuotare il processo di decentramento nel settore dei beni e delle attività culturali (che peraltro risulta di per sé concepito in termini più che cauti).

Passando al secondo degli ambiti ricordati in precedenza, quello dei rapporti tra amministrazione e privato, le ragioni di possibile interesse per l’impiego di figure pattizie sono forse ancor più numerose. Approssimando, si può dire che gran parte del dibattito recente sull’azione pubblica in materia culturale attenga proprio al tema del coinvolgimento dei privati, sotto forma sia di soggetti imprenditoriali, sia di soggetti privi di fine di lucro; coinvolgimento ipotizzabile in relazione ad una grande varietà di situazioni e di interessi. In estrema sintesi, il concorso del privato all’esercizio delle attribuzioni pubbliche tende ad affermarsi per quanto riguarda la conservazione, la gestione e la valorizzazione dei beni culturali, specie in riferimento a quelli di proprietà pubblica, e non è escluso che possa estendersi alla promozione delle attività culturali (ma il punto presenta una maggiore novità, almeno nei suoi risvolti giuridici). Ciò secondo prospettive e con modalità assai mutevoli, alla luce dei diversi obiettivi che possono giustificare il partenariato tra le istituzioni e le forze economiche e sociali: ad esempio, l’intervento del privato può essere finalizzato al profitto, allorché si tratti di ottimizzare lo sfruttamento economico delle risorse culturali, oppure, viceversa, al puro ritorno di immagine, nei casi in cui si ricorra a sponsorizzazioni o formule affini.

Le svariate potenzialità della collaborazione pubblico-privato, del resto, trovano riscontro nelle sempre più numerose esperienze pratiche che vanno sviluppandosi, spesso sul confine tra strumenti formali (convenzioni, contratti) e strumenti informali (protocolli di intesa, dichiarazioni di intenti) [6]. E la stessa legislazione positiva, seppur con ritardi ed esitazioni, si sta evolvendo nel senso di concedere cittadinanza alla concertazione tra soggetti pubblici e privati, come dimostrano alcune recenti fattispecie normative, prima tra tutte quella rappresentata dall’art. 10 del decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 (seppur riferita specificamente alle competenze del ministero per i Beni e le Attività culturali, e non anche a quelle delle altre pubbliche amministrazioni operanti nel settore della cultura) [7].

 

3. Le esperienze di programmazione negoziata in materia di beni e attività culturali

Tra la più significative esperienze di concertazione finora avviate nel settore dei beni e delle attività culturali si collocano alcuni strumenti pattizi riconducibili al sistema della programmazione negoziata.

In particolare, diverse intese istituzionali di programma, nel definire gli obiettivi fondamentali per lo sviluppo in ambito regionale, hanno collocato la materia dei beni e delle attività culturali tra gli ambiti primari di intervento, dettando alcuni indirizzi di base, da svilupparsi attraverso appositi accordi di programma quadro (d’ora in poi, a.p.q.).

Peraltro, pare utile un’annotazione preliminare. Si è già ricordato che nella prassi gli a.p.q. tendono a venir configurati come mezzi di programmazione intermedia, da portarsi ad esecuzione mediante strumenti quali gli accordi di programma "semplici", e non come figure immediatamente operative. Questa connotazione generale trova conferma nello specifico ambito in esame, poiché tutti gli a.p.q. concernenti il settore culturale prevedono la propria attuazione tramite atti e procedure di dettaglio. Dunque, ci troviamo di fronte ad una dimensione programmatoria caratterizzata da una certa latitudine, che dal punto di vista territoriale riguarda l’intera regione, e dal punto di vista contenutistico comporta la fissazione di regole e direttive di portata piuttosto ampia. In particolare, ogni a.p.q. presenta un contenuto articolato in tre livelli, corrispondenti ai seguenti oggetti:

a) l’enunciazione delle macro-aree entro cui concentrare l’azione (di solito definite "settori di intervento", ma talora dette "linee strategiche");

b) l’indicazione di specifici progetti operativi (denominati "interventi"), che vengono prima riassunti in un prospetto unitario, e poi illustrati ognuno con un’apposita scheda;

c) la precisazione della disciplina applicabile alla realizzazione delle iniziative, ossia la parte "normativa" dell’accordo.

Sulla base di queste avvertenze minime, si può procedere ad un esame più ravvicinato dei diversi a.p.q. finora sottoscritti nel settore qui considerato, sebbene vi sia il rischio di qualche limite o imprecisione stante la non sempre agevole reperibilità della documentazione [8].

Il primo a.p.q. è quello relativo alla Lombardia, stipulato fin dalla metà del 1999, e già attentamente commentato dalla dottrina [9]. Dal punto di vista soggettivo, in questo accordo si ravvisa la partecipazione dello Stato - e per esso del ministero per i Beni e le Attività culturali - e della regione, senza alcuna presenza né degli enti locali o di altre amministrazioni, né di soggetti privati; ciò almeno per quanto riguarda la compagine originaria dei contraenti, poiché è contemplata la possibilità di un’adesione successiva all’accordo. Dal punto di vista oggettivo, l’a.p.q. lombardo prevede quattro settori di intervento, entro cui realizzare sedici interventi operativi, per un impegno finanziario complessivo di circa centosettantaquattro miliardi di lire [10].

In seguito viene perfezionato l’a.p.q. per la Toscana, concluso alla fine del 1999, ancora una volta con la partecipazione soltanto dello Stato e della regione, sebbene sul versante statale al ministero per i Beni e le Attività culturali si affianchi il ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica (si ricordi che quest’ultimo è titolare delle principali competenze in tema di coordinamento della programmazione negoziata, e, più in generale, in tema di sostegno allo sviluppo territoriale). L’individuazione dei settori di intervento e degli interventi specifici è piuttosto articolata, in quanto essi ammontano rispettivamente a undici e a cinquantanove. Le risorse finanziarie di cui si prevede l’impiego sono pari a circa centosessantacinque miliardi di lire.

Vengono quindi attivati gli a.p.q. per il Molise e per il Lazio, entrambi sottoscritti nei primi mesi del 2000. La compagine dei contraenti si limita nuovamente allo Stato, sempre rappresentato sia dal ministero per i Beni e le Attività culturali sia dal ministero del Tesoro e del Bilancio, nonché alla regione. In virtù della diversa dimensione delle due realtà regionali, gli accordi differiscono sotto diversi profili: l’a.p.q. per il Molise contempla cinque settori di intervento, e otto interventi attuativi, per un impegno complessivo di circa quarantotto miliardi di lire; l’a.p.q. per il Lazio si articola in sei settori di intervento, e in venticinque interventi attuativi, per un totale di circa novantuno miliardi di lire.

Detto ciò, pare utile riassumere i dati generali di maggiore rilievo (tabella 1), nonché i settori di intervento toccati nei diversi accordi (tabella 2), e infine le dotazioni finanziarie di ciascun accordo (tabella 3).

 

Legenda:
Mbac = ministero per i Beni e le Attività culturali
Mtbpe = ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica
Tutte le indicazioni relative ai profili finanziari sono espressi in miliardi di lire

Tabella 1
Dati generali

A.p.q.

Stipula

Scadenza

Parti

Settori
(nr.)

Progetti
(nr.)

Fondi

Lombardia

26.5.1999

(manca)

Mbac
Regione

4

16

174,008

Toscana

16.12.1999

31.12.2000

Mbac
Mtbpe
Regione

11

59

165,638

Molise

9.3.2000

(manca)

Mbac
Mtbpe
Regione

5

8

48,470

Lazio

12.4.2000

31.12.2000

Mbac
Mtbpe
Regione

6

25

91,458

 

108
479,394



Tabella 2
Dettaglio dei settori di intervento

A.p.q. per la Lombardia (4)

- conservazione e valorizzazione del patrimonio archeologico, architettonico, artistico, storico, librario e archivistico

- infrastrutture per lo spettacolo

- formazione professionale di alta qualificazione nell’ambito della creatività artistica e del restauro

- formazione professionale di alta qualificazione nell’ambito della creatività artistica e del restauro

A.p.q. per la Toscana (11)

- sistemi museali

- archeologia industriale e cultura del lavoro

- arte ed architettura contemporanea

- ecomusei e parchi naturali

- reti bibliotecarie

- archivi

- strumenti della conoscenza

- sistema dello spettacolo

- castelli e fortificazioni

- patrimonio religioso

- interculturalità

A.p.q. per il Molise (5)

- sistema museale regionale

- sistema delle aree archeologiche regionali

- patrimonio architettonico del territorio e tutela e valorizzazione del paesaggio

- potenziamento dei servizi culturali

- infrastrutture per lo spettacolo

A.p.q. per il Lazio (6)

- conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale presente sul territorio regionale

- sistemi museali territoriali e sistemi museali telematici

- attività di catalogazione dei beni culturali e ambientali

- tutela, conoscenza e valorizzazione del patrimonio librario e documentario

- strutture e attività dello spettacolo

- interventi di particolare rilievo nel quadro dello sviluppo territoriale



Tabella 3
Dettaglio delle dotazioni finanziarie

A.p.q.

Stato

Regione

Altre p.a.

Privati

Totale

Lombardia

79,717

55,601

27,870

10,820

174,008

Toscana

108,442

33,843

23,353

165,638

Molise

24,270

24,200

-

-

48,470

Lazio

48,514

31,212

11,732

91,458

 

260,943

144,856

73,775

479,574

 

4. Oggetti e soggetti degli accordi

Una volta dato uno sguardo d’insieme, è possibile soffermarsi brevemente su alcuni aspetti più specifici. Va detto che l’esame delle singole iniziative contemplate dagli a.p.q. risulta preclusa, sia per la difficoltà di maneggiare un materiale così ampio (si è visto - tabella 1 - che i progetti sono complessivamente 108), sia per non essersi potuto disporre di un certo numero di schede illustrative. L’analisi contenutistica degli a.p.q. in sostanza deve limitarsi ai "settori di intervento", che come detto valgono a delimitare le macro-aree entro cui si collocano le singole azioni operative (tabella 2).

Pur con la cautela dovuta ad un simile approccio, e con il rischio di appiattire le peculiarità delle diverse esperienze, sembra rilevabile una tendenza degli a.p.q. a concentrarsi sui "beni" culturali, più che sulle "attività" culturali; sulle cose di proprietà pubblica, più che su quelle private; sulla tutela, più che sulla gestione e sulla valorizzazione [11]. Fermo restando che la tutela viene in considerazione soltanto sotto il profilo delle misure materiali - catalogazione, conservazione, restauro, recupero - giacché l’emanazione degli atti formali rimane riservata allo Stato (in virtù della nota e discussa scelta operata da ultimo dalla l. 59/1997 e dal d.lg. 112/1998).

Dunque, l’impressione complessiva che si ricava, scorrendo i diversi documenti pattizi, è che le istituzioni statali e regionali abbiano interpretato gli a.p.q. soprattutto come mezzi per la "salvaguardia" del patrimonio culturale, per la messa a punto delle entità concrete che lo compongono, ivi compreso un corollario di adempimenti preliminari (progettazione, studi di fattibilità) e di attività strumentali (servizi telematici, formazione del personale). Viceversa, sembra esservi un minore accento sulla "valorizzazione" delle risorse culturali, sia nel significato letterale di aumento della loro fruizione, sia nel significato più ampio di sfruttamento delle stesse per la realizzazione di iniziative dai risvolti imprenditoriali.

Peraltro questa prima e provvisoria lettura, quand’anche si rivelasse esatta, non varrebbe ad esprimere alcun giudizio di merito: così frequenti e condivise sono le denunce sul cattivo stato di conservazione dei beni culturali, e sulla scarsità dei fondi disponibili, che la scelta di concentrare su tale versante la gran parte delle iniziative pare tutt’altro che censurabile; e comunque non sono precluse successive evoluzioni più sensibili alla dimensione "promozionale" e "produttiva" della cultura.

Proseguendo nell’analisi, si può forse ritenere che gli a.p.q. finiscano col fungere da mezzi per la destinazione di risorse finanziarie a favore delle iniziative di riqualificazione di maggiore rilievo, più che da sedi per l’elaborazione di progetti di sviluppo, come pure sarebbe nella loro astratta vocazione (e in genere nella natura della programmazione negoziata). In altre parole, gli a.p.q. sembrano venir utilizzati come strumenti di spesa, piuttosto che come momenti di vera e propria concertazione.

Del resto, che gli a.p.q. esprimano una dimensione concertativa probabilmente più limitata di quella concepita in origine dal legislatore emerge già dall’esame della compagine dei contraenti: in tutti i casi, sono presenti soltanto lo Stato e la regione di volta in volta interessata; mancano gli enti locali, mancano le altre amministrazioni operanti nel territorio regionale, mancano i privati. La partecipazione di queste figure, a quanto risulta dai documenti disponibili, e sempre che la prassi applicativa possa dirsi uniforme, viene realizzata soltanto al livello di ogni singolo intervento, avendosi cioè che ciascuna specifica scheda illustrativa allegata all’a.p.q. menziona i "soggetti attuatori" coinvolti nel finanziamento o nella realizzazione del progetto, e che in seguito gli stessi "soggetti attuatori" sottoscrivono gli accordi di programma "semplici" o gli altri strumenti convenzionali con cui si passa alla fase operativa.

Per certi aspetti, la questione può essere ridotta ad un mero dato redazionale: le amministrazioni diverse dallo Stato e dalla regione, nonché i privati, compaiono pur sempre nelle schede illustrative allegate, sebbene non nell’a.p.q. vero e proprio. Del pari, è possibile apprezzare un effetto di semplificazione della complessiva vicenda pattizia, nella forma e nella sostanza: da un lato, perché si evita che l’accordo sia sottoscritto da decine di amministrazioni e di privati; d’altro lato, e di conseguenza, perché si impedisce che vi siano decine di parti reciprocamente obbligate e vincolate (non è un caso, del resto, se persino la dottrina civilistica ha difficoltà a misurarsi con l’istituto del contratto plurilaterale). Senza contare i contributi informali che, pur in assenza di una sottoscrizione congiunta dell’a.p.q., possono comunque essere apportati.

Tuttavia il "modus operandi" che si è descritto pone anche dei problemi, a partire dal fatto che la riserva allo Stato e alla regione della stipula dell’a.p.q. comporta una tendenziale prevalenza della dimensione "discendente", imperniata sulla figura dei livelli di governo più elevati, rispetto alla dimensione "ascendente", costruita a partire dagli attori locali. Ovviamente, non si tratta di prendere le difese delle istanza localistiche, in sé e per sé, ma di riscontrare se un simile assetto del processo di negoziazione delle scelte programmatorie risulti conforme ai principi stabiliti dal legislatore, come già si accennava.

Un primo dubbio è di ordine strettamente giuridico, e deriva dalla formulazione della normativa di riferimento (in specie dell’art. 2, co. 203, lett. c), della l. 662/1996), ove si prevede che l’a.p.q. sia "promosso" dallo Stato e dalla regione, ma al contempo sia partecipato anche da "enti locali ed altri soggetti pubblici e privati". Sicché gli a.p.q. sottoscritti soltanto dallo Stato e dalla regione potrebbero essere ritenuti di incerta legittimità formale. E comunque, se le parti che sottoscrivono l’a.p.q. sono le stesse che sottoscrivono la previa intesa istituzionale di programma [12], e anzi - come accade di regola, al punto da essere esplicitato nei preamboli dei vari atti - l’elaborazione dei due testi avviene contestualmente, viene meno ogni differenza funzionale tra gli strumenti, che finiscono con l’essere tutti segmenti di una decisione unica e unitaria, ancorché espressa in documenti separati.

Di conseguenza, sotto un primo profilo si verifica un’ampia commistione tra le scelte di macro-programmazione, in astratto proprie dell’intesa istituzionale, e le scelte pianificatorie di settore, in astratto proprie dell’a.p.q.; e sotto un secondo profilo la complessa geometria della programmazione negoziata, in cui si colloca una pluralità di strumenti e sedi concertative, vede sminuita la propria ragion d’essere, giacché l’elaborazione delle decisioni non ne risulta arricchita, mentre si concretizza un sicuro effetto di duplicazione delle procedure e dei documenti convenzionali.

Un secondo dubbio è non solo di tipo tecnico-giuridico, ma anche di ordine fattuale. La dimensione "contrattual-obbligatoria" degli a.p.q., risultante dall’espressa previsione legale del loro carattere "vincolante per tutti i soggetti che vi partecipano" (si veda ancora l’art. 2, co. 203, lett. c), della l. 662/1996), e confermata dal tenore letterale di tutti gli accordi finora stipulati, persegue con ogni evidenza l’obiettivo di conferire una specifica consistenza, giuridica e non soltanto politico-istituzionale, alla concertazione tra gli enti pubblici, nonché tra questi e i soggetti privati.

Perché questo obiettivo si realizzi, però, pare necessario che gli accordi costituiscano l’espressione di una pluralità di interessi, semmai in potenziale conflitto reciproco; ossia, che tra i partecipanti vi sia chi esiga l’esatto adempimento di quanto pattuito, e dunque si esponga a sua volta ad analoghe richieste. Affinché ciò avvenga realmente, la presenza a pieno titolo degli enti locali e dei privati sembra risultare decisiva: le amministrazioni a più diretto contatto con i cittadini, così come le forze economiche e sociali (che investono in prima persona, vuoi capitali, nel caso delle imprese, vuoi l’opera degli associati, nel caso degli organismi di volontariato), non di rado costituiscono le figure più attive sul territorio, quelle più direttamente interessate/responsabili in merito all’effettiva riuscita dei progetti di salvaguardia e di sviluppo; la logica e le regole dell’impresa, soprattutto, impongono la verifica dei risultati, l’adempimento degli obblighi, il rispetto dei tempi (al di là dei luoghi comuni pan-aziendalistici).

Diversamente, una concertazione che si svolga soltanto al livello delle amministrazioni territoriali "superiori", Stato e regione, è con ogni probabilità destinata a risentire delle alterne stagioni della politica, frenando o accelerando sulla base di indicazioni difficilmente prevedibili (oggi più che mai, in considerazione dei conflitti che si registrano tra il governo nazionale e talune giunte regionali).

Se davvero la programmazione negoziata rappresentata - tra l’altro - il tentativo di "giuridicizzare" gli interventi sul territorio, in modo da garantire la stabilità e la qualità dell’azione amministrativa, allora il coinvolgimento degli enti locali e soprattutto dei privati pare utile non solo in sé, ma anche come "motore" o "catalizzatore" del complessivo processo di concertazione. E a tal fine può non bastare la sottoscrizione di una semplice scheda illustrativa in luogo della effettiva stipula dell’a.p.q., la partecipazione al singolo intervento operativo anziché alla discussione dei programmi [13].

 

5. Annotazioni finali

La circostanza che si possano individuare taluni punti di criticità nella prassi applicativa della programmazione negoziata, e specificamente nelle esperienze in materia culturale, ovviamente non deve indurre a conclusioni affrettate. In realtà, se si pone mente al carattere profondamente innovativo degli strumenti pattizi di ultima generazione, e all’elevato grado di tecnicismo delle relative norme e procedure, i problemi e le difficoltà dell’avvio risultano del tutto fisiologici, e anzi appaiono meno marcati di quanto ci si potrebbe aspettare.

Né per gli operatori pubblici, né per gli operatori privati, può dirsi agevole far funzionare a pieno regime una macchina complessa qual è la programmazione negoziata, in cui devono trovare posto - contemporaneamente - la concertazione come fenomeno istituzionale e socio-economico, le tecniche contrattuali di disciplina dei rapporti giuridici, i procedimenti per l’allocazione delle risorse finanziarie, e molto altro ancora.

Fin d’ora, comunque, sembra potersi dire che le intese istituzionali di programma, gli accordi di programma quadro, le ulteriori figure di azione amministrativa negoziata, stiano fornendo alcuni risultati di un certo interesse, nel contesto generale così come nell’ambito specifico qui considerato. Un primo risultato è quello del diffondersi della cultura della concertazione, cultura che, pur non immune da retorica e ambiguità, rimanda pur sempre ai valori della partecipazione e del confronto. Un secondo risultato consiste nel portare ad emersione le influenze dei diversi soggetti pubblici e privati sulla formazione delle decisioni istituzionali, nel rendere (più) espliciti e conoscibili i rapporti di forza effettivi.



Note

[1] Fondamentale, in specie, è la delibera Cipe del 21 marzo 1997 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 105 dell’8 maggio 1997). In realtà il quadro disciplinare è molto complesso, e in continua evoluzione, sicché la legge del 1996 e la delibera del 1997 per un verso risultano oggetto di continue modifiche, per un altro verso sono affiancate da numerose disposizioni ulteriori (che di volta in volta le specificano o le derogano).

[2]] Per limitarsi alla disciplina dettata dal legislatore statale, poiché diversi legislatori regionali hanno a loro volta configurato strumenti pattizi analoghi, sempre definiti come "programmazione negoziata".

[3] Si vedano: Corte cost., 2 marzo 1987, n. 64, in Giurisprudenza costituzionale, 1987, I, 501 (per alcuni primi riferimenti); Id., 28 luglio 1988, n. 921, ivi, 1988, I, 4263 (per sviluppi più articolati).

[4] In proposito si veda G. Pitruzzella, Commento all’art. 148, in Lo Stato autonomista, a cura di G. Falcon, Bologna, 1998, spec. 495.

[5] Come emerge dall’analisi di G. Corso, Commento all’art. 155, in Lo Stato autonomista, cit., 512 ss.

[6] Siffatte iniziative vedono partecipi non solo singoli enti pubblici od operatori privati, ma anche le rispettive rappresentanze associative. Si veda al riguardo la Convenzione tra Anci e Confindustria del 4 maggio 1999, in tema di "Valorizzazione del patrimonio culturale", pubblicata in Guida agli enti locali, n. 22/1999, 88 (peraltro risulta che analoga convenzione sia stata conclusa tra l’allora ministero per i Beni culturali e ambientali e la stessa Confindustria, nel novembre del 1996). Si veda inoltre, per l’analisi di alcune esperienze convenzionali riguardanti specificamente il livello provinciale, R. Sulli, Le convenzioni per la valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, n. 1/2000.

[7] Per ogni approfondimento si rinvia a E. Bruti Liberati, Il ministero fuori dal ministero (art. 10 del d.lg. 368/1998), in Aedon, n. 1/1999. Peraltro il processo di apertura ai privati, e più in generale il tentativo di rivedere e aggiornare gli assetti dell’intervento statale nella cultura, sta attraversando un passaggio critico, giacché di recente si è avuto notizia che la Corte dei conti ha rifiutato la registrazione tanto al regolamento di attuazione del citato art. 10 quanto al regolamento di organizzazione del ministero. Non è dato conoscere nel dettaglio le motivazioni addotte in proposito, ma sembra che, tra i vari aspetti, la Corte abbia riscontrato nello stesso art. 10 un vizio di eccesso di delega, in quanto la legge di delegazione (ossia la l. 59/1997) non consentirebbe al decreto delegato (appunto il d.lg. 368/1998) di disciplinare la materia delle forme di collaborazione tra ministero e privati.

[8] Va ricordato che per gli strumenti della programmazione negoziata sono previsti solo limitatissimi obblighi di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, e che comunque tali obblighi non si estendono agli accordi di programma quadro. La più completa fonte per il reperimento di informazioni e materiali è costituita dal sito internet del ministero per i Beni e le Attività culturali (www.beniculturali.it).

[9] M. Renna, Al via la concertazione in materia di beni culturali: l’accordo di programma quadro tra ministero e regione Lombardia, in Aedon, n. 2/1999.

[10] Pare utile indicare, senza pretesa di completezza, una serie di strumenti attuativi dell’a.p.q. lombardo: accordo di programma per il castello di Vigevano, concluso tra ministero per i Beni e le Attività culturali, regione Lombardia, comune di Vigevano; accordo di programma per il palazzo Pallavicino in Cremona, concluso tra ministero, regione, provincia di Cremona e comune di Cremona; intesa preliminare tra regione e comune di Milano (si noti che questo atto è stato posto in essere prima della stipula dell’a.p.q., ma risulta formalmente collegato all’a.p.q. stesso); intesa preliminare tra regione, provincia di Mantova e comune di Mantova; intesa preliminare tra regione, provincia di Bergamo e comune di Bergamo.

[11] Peraltro tanto gli operatori quanto i commentatori scontano le incertezze delle definizioni legislative, soprattutto in merito alla nozione di valorizzazione, il cui tratto distintivo pare risiedere nella finalità di "migliorare le condizioni di conoscenza ... dei beni culturali ... e ... incrementarne la fruizione", ma che al tempo stesso risulta avvicinata alla tutela allorché viene riferita pure alla "conservazione dei beni culturali", così come (con)testualmente prevede l’art. 148, lett. e), del d.lg. 112/1998. Senza contare gli ulteriori fattori di complicazione in cui ci si imbatte confrontando il d.lg. 112/1998 con il successivo testo unico sui beni culturali (e ambientali), che contiene riferimenti alla valorizzazione dei quali però è arduo cogliere un reale significato prescrittivo. A quest’ultimo riguardo si vedano: G. Pitruzzella, Commento all’art. 1, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2000, 31; L. Nivarra, Commento all’art. 97, ivi, 325.

[12] Si noti che la parte rimane la stessa ancorché muti l’organo (presidente del consiglio, ministro) che di volta in volta sottoscrive il singolo strumento.

[13] Peraltro, alla luce degli elementi documentali rinvenibili, non pare del tutto certo che le schede illustrative vengano sempre sottoscritte dai "soggetti attuatori", o, comunque, che nelle schede stesse si rinvenga un contenuto di tipo pattizio. Si veda a titolo esemplificativo il materiale allegato all’a.p.q. per il Molise.



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